Carlo Comensoli, Elections Hub
Il prossimo 6 maggio, in concomitanza con le elezioni per il rinnovo del Parlamento scozzese, in diverse zone del Regno Unito i cittadini saranno chiamati alle urne per i Local Councils, mentre un altro importante appuntamento elettorale saranno le comunali di Londra. Entrambi questi voti, a differenza di quello scozzese, avrebbero dovuto tenersi nel maggio 2020, ma sono stati posticipati di un anno a causa della pandemia di Covid-19. Il sindaco uscente di Londra, Sadiq Khan, esponente laburista, sembra destinato a ottenere un secondo mandato, anche se nelle ultime settimane il principale avversario Shaun Bailey, del Partito Conservatore, è riuscito a colmare parte del distacco che rimane comunque netto. Per i Laburisti, la riconferma di Khan sarebbe un passo importante, a più di un anno di distanza dalla débâcle alle politiche del 2019 e dal successivo cambio di leadership e di linea politica con la guida del socialdemocratico Keir Starmer. Il sindaco di Londra si riconferma la figura di spicco del principale partito di opposizione in Gran Bretagna, soprattutto in seguito alla parentesi socialista di Jeremy Corbyn e agli scandali che hanno più volte travolto l’ex Leader e vari esponenti per le accuse di antisemitismo. Proprio per quest’ultimo motivo, lo scorso autunno l’ex Leader e Parlamentare per il Collegio di Islington North era stato addirittura sospeso dal Partito per poche settimane. Nei mesi scorsi, quindi, il Labour ha dovuto affrontare una forte crisi interna che andava anche oltre al semplice cambio di guida. In tutto questo, Sadiq Khan ha più volte rimarcato la propria distanza da Corbyn, riconoscendo nelle accuse di antisemitismo all’interno del partito una delle principali ragioni della sconfitta del 2019. Ideologicamente più vicino alla Soft Left del nuovo Leader Keir Starmer, Khan è stato eletto per il primo mandato a sindaco di Londra nel 2016, succedendo all’attuale Primo Ministro Boris Johnson. Sicuramente è anche quest’ultimo aspetto a porlo in una posizione di rilievo nel rilancio del Labour con la nuova leadership. Il tema della disoccupazione è in cima alla lista dei punti programmatici di Khan durante la campagna elettorale per la rielezione; il sindaco uscente punta sulla promozione di nuovi posti di lavoro anche grazie al Green New Deal britannico. Già a novembre la crisi pandemica ha portato l’amministrazione di Khan a investire 10 milioni di sterline sulla riconversione ecologica, un finanziamento che allo stesso tempo permetterebbe di creare occupazione in un tentativo di rilanciare l’economia di Londra in vista dell’uscita dalla crisi pandemica. Le elezioni politiche del 2019 diedero un chiaro mandato al Primo Ministro conservatore Boris Johnson, e infatti il manifesto di Sadiq Khan per la rielezione tiene proprio conto del fatto che, nel caso di un secondo mandato, il sindaco dovrà di fatto coesistere con un’amministrazione Tory forte e politicamente antitetica insediata a Downing Street presumibilmente fino alla normale scadenza nel 2024. Questo ovviamente rappresenta un evidente ostacolo per il programma presentato durante la campagna elettorale di quest’anno, ma allo stesso tempo permette a Khan di rimarcare la propria posizione politica, facendo leva sul contrasto con la gestione della ripresa dell’economia da parte di Johnson. I sondaggi in vista del voto registrano un netto vantaggio di circa 20 punti percentuali di Khan sul principale avversario, il candidato conservatore Shaun Bailey. Già consigliere politico dell’ex Primo Ministro David Cameron e membro della London Assembly dal 2016, nel suo programma elettorale Bailey ha puntato sulla lotta al crimine e alla violenza nella città di Londra. Questo ha segnato profondamente la campagna elettorale del candidato Tory, soprattutto in seguito all’uccisione di Sarah Everard e alle proteste che ne sono conseguite: il caso infatti ha scatenato nei mesi scorsi l’indignazione dell’opinione pubblica britannica nei confronti del sistema di Polizia, alla luce del fatto che il colpevole dell’assassinio sarebbe proprio un agente della Metropolitan Police. Nonostante il clima teso e la divisione nei confronti del tema, uno dei punti principali del programma proposto da Shaun Bailey riguarda proprio il finanziamento della polizia metropolitana come misura di contrasto agli episodi di criminalità, che negli ultimi mesi sarebbero anche aumentati come conseguenza dell’impatto della pandemia. Il candidato Tory punta anche sul sistema dello stop-and-frisk (ferma e perquisisci), un tema estremamente controverso per l’opinione pubblica statunitense e britannica. La campagna in vista dell’elezione del sindaco di Londra vede quindi contrapporsi i due principali partiti del Regno Unito con programmi elettorali che partono entrambi dalla crisi sociale ed economica causata dalla pandemia di Covid-19, ma con proposte programmatiche nettamente diverse. Se da un lato l’elezione del prossimo 6 maggio vedrà molto probabilmente la riconferma di Sadiq Khan, il voto rimane comunque importante anche per la ridefinizione delle linee politiche e ideologiche del Partito Laburista sotto la nuova leadership di Keir Starmer, in vista di un rilancio del centrosinistra nei prossimi anni. Molto probabilmente il voto del 6 maggio nel suo complesso riconfermerà anche la divisione politica del Paese già emersa dal referendum per la Brexit del 2016, nonostante la forte maggioranza alla Camera dei Comuni di cui gode l’attuale Governo conservatore. Da un lato, infatti, la campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento locale di Edimburgo vede favoriti i principali partiti che promuovono l’indipendenza dal Regno Unito a discapito dei Tories, segno anche dell’impopolarità in Scozia di Boris Johnson. Anche il voto di Londra coinvolge più o meno indirettamente l’attuale Primo Ministro, che cinque anni fa ricopriva proprio l’incarico di sindaco della capitale. Se il voto alle elezioni politiche del 2019 segnò un netto fallimento per i Labour, l’amministrazione di Londra e il programma di rilancio dell’occupazione, anche grazie a un piano di riconversione ecologica proposta da Sadiq Khan, offrono un’occasione di ripartenza per il principale partito all’opposizione. A cura di Carmela Lopez, vincitrice dell'Essay Competition "La sfida climatica: tra inuguaglianze e squilibri mondiali"
Il cambiamento climatico rinforza le disuguaglianze. Una tendenza che sembra stare affermandosi è quella di trattare tali problematiche anche in fora internazionali non strettamente legati al clima o all’ambiente, ma tipicamente concentrati sui diritti umani. Santos Rìoz Carranza ha 35 anni, è una donna peruviana che vive a Lima da tempo, e negli ultimi anni ha avuto serie difficoltà ad assicurare un sufficiente approvvigionamento idrico a se stessa e alla sua famiglia (Ziegler, Morales Tovar, 2020). Sheila Watt-Cloutier è una inuit che ha dovuto assistere allo spostamento di intere abitazioni nella sua regione a Nunavik, in Salluit, in quanto queste stavano progressivamente collassando a causa del permafrost (Shah, 2019). Joyce Tan, attivista e avvocatessa Filippina, viene da un paese in cui il negazionismo climatico non esiste, perché la popolazione sta già sperimentando gli effetti dei disastri naturali sempre più frequenti (Amnesty International, 2020). Cos’hanno in comune tre persone in tre diversi angoli del mondo? Tutte e tre vivono in luoghi in cui il cambiamento climatico le ha poste in una condizione di crescente pericolo, instabilità e precarietà. Non si tratta di casi isolati: il cambiamento climatico rinforza le disuguaglianze, non solo nei paesi in via di sviluppo, ma anche in quelli maggiormente industrializzati. (Banos Ruiz, 2019). Naturalmente, tali fenomeni di portata globale sono esaminati e discussi a livello multilaterale; in particolare, una tendenza che sembra stare affermandosi è quella di trattare problematiche concernenti il cambiamento climatico anche in fora internazionali non strettamente legati al clima o all’ambiente, ma tipicamente concentrati sui diritti umani. Questa evoluzione, già evidenziata da alcuni studiosi (Auz, 2018), porta a considerare come le Conferenze delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, note anche come COP, (United Nations Climate Change, n.d.) non siano gli unici luoghi di discussione di tali problematiche. In virtù di questo fenomeno è dunque possibile chiedersi: il cambiamento climatico sta cambiando il volto dei negoziati sui diritti umani? Nello specifico, alcuni recenti eventi e processi sembrano supportare tale ipotesi. Le violazioni dei diritti dei difensori dell’ambiente I popoli indigeni sono tra i più esposti esposti alle conseguenze dirette del cambiamento climatico, a causa della loro dipendenza dalle risorse naturali e dello stretto rapporto con l’ecosistema che abitano; il cambiamento climatico, inoltre, tende ad aggravare alcune delle problematiche che queste popolazioni affrontano, fra cui la perdita di risorse e di terre, la discriminazione, e l’esclusione dai processi decisionali. (United Nations Department of Economic and Social Affairs, n.d.). Alla luce di tali considerazioni, è dunque comprensibile che queste comunità siano spesso impegnate nella protezione ambientale e nella lotta al cambiamento climatico, e si scontrino frequentemente con interessi economici e industriali, cosa che le porta a diventare il bersaglio di violenze e soprusi. (Peace Brigades International, n.d.). Il fenomeno è noto da anni: già nel 2016, il Global Witness stimava che durante l’anno, ben 200 omicidi di difensori dell’ambiente avessero avuto luogo in 24 paesi, specificando che il 40% degli attivisti assassinati erano indigeni (Orellana, 2018): gli attivisti ritengono che forze politiche o interessi economici motivino tali attacchi, ma gli arresti e le identificazioni sono ancora esigui (Orellana, 2018). Tale fenomeno sta assumendo rilevanza e visibilità anche nel contesto multilaterale – per esempio, la comunità della conservazione ambientale sta cominciando ad auspicare la protezione dei difensori dell’ambiente: in particolare, l’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN) si sta concentrando sul tema attraverso una risoluzione in occasione del World Conservation Congress (IUCN, 2021). Inoltre, nei primi mesi del 2021, l’Accordo di Escazù entrerà in atto, e rappresenterà un’importante novità a livello internazionale; va ricordato che l’accordo, negoziato nel 2018 a Escazù, in Costa Rica, fu fondamentale anche perché vide il coinvolgimento della società civile così come di esperti dei diritti umani nel processo decisionale (Ali, 2021). Esso garantisce il diritto di accedere alle informazioni ambientali e di partecipare alle decisioni di carattere ambientale; in aggiunta, l’Accordo prevede una serie di obblighi a cui gli Stati devono adempiere, e che sono fondamentali per la tutela dei difensori dell’ambiente, come per esempio anche l’istituzione di linee guida su misure appropriate ed efficaci per garantire la loro sicurezza (Ali, 2021). Un nuovo diritto fondamentale: il diritto a un ambiente sano Inoltre, continua ad emergere il dibattito intorno all’istituzione del Diritto universale a un ambiente sano. (Universal rights group, n.d.). La Dichiarazione universale dei diritti umani non prevede il diritto a un ambiente sano, fondamentalmente per via di una questione cronologica – è stata infatti redatta prima che la tematica del cambiamento climatico diventasse presente nel dibattito pubblico (Universal rights group, n.d.). Tuttavia, secondo lo Universal rights group (n.d.), negli ultimi anni ci sono stati una riflessione e un impegno crescenti, a livello internazionale e non solo, a riguardo di tale problematica, tant’è che ormai diverse costituzioni nazionali riconoscono questo diritto. Per quanto concerne le Nazioni Unite, il primo Relatore speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani e l'ambiente, John Knox, ha concluso il suo mandato chiedendo agli Stati di riconoscere il diritto all'ambiente a livello internazionale; da allora questo appello è stato sostenuto dall’Alto Commissario per i diritti umani. (Universal Rights Group, n.d.). Nel 2019 è stato pubblicato l’Environmental Rule of Law First Global Report del Programma ambientale delle Nazioni Unite, la prima valutazione globale in assoluto dello stato di diritto ambientale (UNEP, 2019): a margine di tale pubblicazione, il nuovo Relatore, David Boyd, ha affermato: “a meno che non sia rafforzato lo stato di diritto ambientale, anche le regole apparentemente più rigorose sono destinate a fallire e il diritto umano fondamentale a un ambiente sano non sarà realizzato”. (Rinnovabili.it, 2019) Inoltre, in una nota presentata nel caso Norwegian Artic Oil, il Relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani e l'ambiente, e il Relatore speciale delle Nazioni Unite sulle sostanze pericolose e i rifiuti, Marcos A. Orellana, in qualità di amici curiae, sono intervenuti affermando “il diritto a un ambiente sano conferisce potere ai cittadini e alla società civile, rafforzando il processo decisionale democratico e promuovendo la responsabilità politica. L'accesso alla giustizia è di per sé un diritto umano fondamentale, anche nel contesto dei danni ambientali " (Politi, 2020). A livello globale, il numero di contenziosi in tale ambito è in aumento (Politi, 2020). Come evidenzia l’UNEP (2019), insieme a Boyd, diversi sono gli attori e le organizzazioni che hanno esaminato gli obblighi in materia di diritti umani relativi al cambiamento climatico, e queste riflessioni evidenziano sia che il cambiamento climatico e il suo impatto minacciano i diritti umani, sia che il settore pubblico e quello privato hanno entrambi obblighi e responsabilità in questo senso. Naturalmente, la riflessione intorno all’impatto del cambiamento climatico sulle strutture sociali ed economiche e le disuguaglianze non è rappresentata esclusivamente dai processi precedentemente menzionati. Sarà interessante comprendere lo sviluppo di tale tematica, che evidenzia come il cambiamento climatico stia diventando sempre più un tema trasversale; ancora più interessante sarà scoprire se questo sviluppo consentirà a Rìoz Carranza di avere, un giorno, acqua a sufficienza per se stessa e la sua famiglia. Bibliografia
a cura di Laura Schella Sabato 20 marzo 2021 il Presidente turco Recep Tayyip Erdoǧan ha licenziato il governatore della Banca Centrale (Türkiye Cumhuriyet Merkez Bankası, TCMB) Naci Agbal e lo ha sostituito con Sahap Kavcioglu, precedentemente membro dell’Assemblea Nazionale Turca per il partito di governo Adalet ve Kalkınma Partisi, AKP. La reazione dei mercati è stata molto dura: all’apertura della borsa il lunedì successivo la lira turca ha perso il 15% del suo valore, facendo ricadere il Paese nel timore di una nuova crisi economica (forse mai del tutto finita) come quella del 2018. La lira ha poi recuperato parte del suo valore dopo le dichiarazioni rilasciate dal Ministro delle Finanze Lütfi Elvan che ha affermato che la Turchia continuerà a dare attuazione a politiche di libero mercato, di fatto lasciando trasparire che non è intenzione del governo porre dei vincoli sui movimenti di capitali. Il Presidente Erdoǧan e il partito AKP, al governo dal 2002, sono riusciti a mantenere alti i consensi nel Paese soprattutto grazie al periodo di crescita economica iniziata nei primi anni 2000 e che sembra essersi ormai esaurito, come la crisi del 2018 pare dimostrare. L’inflazione troppo alta e il basso livello dei risparmi privati sono caratteristiche tipiche dell’economia turca, che basa la sua crescita sugli investimenti esteri. Tuttavia, se si vuole continuare ad attirare investitori stranieri, è necessario che l’economia del Paese venga percepita stabile e che le sue istituzioni dimostrino di essere impegnate a mantenere l’inflazione sotto controllo. Al contrario, decisioni come quella del Presidente Erdoǧan dimostrano ancora una volta come l’operato della Banca Centrale non sia esente da influenze politiche e come il governo sia disposto a destabilizzare la politica monetaria pur di mantenere elevati i consensi di cui ancora gode. Economia e politica interna C’è un forte legame tra le prestazioni economiche di un governo e il consenso politico di cui gode. Dalla sua salita al potere l’AKP è stato in grado di assicurare un periodo di crescita economica che vedeva il PIL crescere anche del 12% l’anno. Queste prestazioni, definite straordinarie da molti analisti, furono rese possibili dalla grande circolazione di liquidità a livello internazionale, dall’affluire di investimenti stranieri nel paese e da un livello di inflazione piuttosto contenuto. Questa fase di crescita ha consentito al governo turco di mettere in atto politiche economiche espansive, quali aumento della spesa pubblica e riduzione delle tasse, che hanno mantenuto alti i consensi, soprattutto nei mesi antecedenti importanti appuntamenti elettorali. Quando l’economia ha incominciato a mostrare i primi segnali di crisi nel 2018, che ha visto un crollo vertiginoso della lira rispetto al dollaro (similmente a ciò che è accaduto nell’ultimo mese), l’AKP ne ha dovuto pagare le conseguenze politiche, subendo un forte ridimensionamento durante le elezioni amministrative del 2019. Un altro aspetto che preoccupa gli investitori stranieri e che può diventare ragione di fuga di capitali esteri dal paese è la credibilità dell’operato della Banca Centrale. Nello statuto della TCMB è chiaramente esplicitato che deve essere preservata la sua indipendenza da influenze politiche, essendo questa una condizione essenziale per perseguire con efficacia il mantenimento della stabilità dei prezzi. Non solo negli ultimi anni il valore dell’inflazione si aggira intorno al 15% (arrivando anche al 20%), ben al di sopra del target del 5%, ma anche in più occasioni il Presidente Erdoǧan non si è astenuto dall’esercitare pressioni sulla Banca Centrale affinché adeguasse le sue politiche monetarie alle necessità elettorali del momento. Il nuovo governatore della Banca Centrale Sahap Kavcioglu, intervistato da Bloomberg, si è affrettato a garantire che, nonostante Erdoǧan abbia fatto licenziare tre governatori in due anni, l’indipendenza della Banca Centrale rimane comunque integra. Kavcioglu ha inoltre dovuto rispondere in merito ad un’altra spinosa questione: la gestione dei tassi di interesse. Negli ultimi anni, infatti, il Presidente turco è diventato noto per la teoria per cui sono i bassi tassi di interesse che favoriscono un basso livello di inflazione, quando è comunemente riconosciuto dagli economisti che è l’innalzamento di questi ultimi a favorire il contenimento dell’inflazione. Il precedente governatore, che non si era adeguato a questa “peculiare” concezione del Presidente, e, al contrario, aveva deciso di aumentare i tassi di interesse di 200 punti base, è stato costretto a rassegnare le dimissioni. Economia e politica estera Le difficoltà dell’economia turca, incrementate con la pandemia di Covid-19, non hanno conseguenze solo sul piano interno ma influiscono anche sulla politica estera del Paese: l’elevata inflazione e il deprezzamento della lira indeboliscono il ruolo della Turchia a livello internazionale e ne restringono il campo di azione. Ne sono ben coscienti gli Stati Uniti che, ancora sotto la presidenza Trump, hanno imposto sanzioni all’alleato turco, esacerbando ulteriormente le difficoltà economiche portate dalla pandemia. L’attuale Presidente americano Joe Biden sembra intenzionato a mantenere un atteggiamento duro nei confronti di Ankara, accusata di essersi eccessivamente avvicinata alla Russia (a seguito dell’acquisto del sistema missilistico S-400) e di essersi allontanata dalla strada della democrazia e dei diritti umani (critiche sono giunte da Washington dopo la decisione del Presidente Erdoǧan di ritirare la Turchia dalla Convenzione di Istanbul sulla violenza contro le donne). Il pensiero prevalente tra gli analisti è che la Turchia “abbia bisogno di buone relazioni con l’Unione Europea e gli Stati Uniti” e che il Paese sia ancora troppo dipendente, dal punto di vista economico, energetico e tecnologico-militare, dai suoi alleati della NATO da potersi permettere una vera rottura. Nuove alleanze con Mosca o con Pechino non produrrebbero gli stessi vantaggi economici e militari come quelli derivanti dai mercati e dagli investimenti occidentali e dall’avanzata tecnologia dell’Alleanza Atlantica. Nessuna delle due parti sembra essere nelle condizioni di provocare una spaccatura definitiva nella NATO; infatti, anche gli Stati europei, seppur critici nei confronti di Erdoǧan, non sembrano disposti a rinunciare ai vantaggi strategici che la Turchia apporta nella NATO, in virtù della sua posizione geografica. Resta da vedere se nei prossimi mesi il Presidente turco si arrenderà alle pressioni politiche (ed economiche) e adotterà una posizione più morbida nei confronti dell’alleato americano. La palla è in campo turco. ![]()
L’uguaglianza di genere in Macedonia del Nord tra interventismo europeo e politiche nazionalistiche26/4/2021
Elisabetta Crevatin, Osservatorio sull'Unione europea
La dichiarazione di Ankara, rilasciata il 20 marzo riguardante il ritiro della Turchia dalla Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (2011), è un segnale di grave retrocessione della parità di genere nel paese, essendo tale trattato una conquista fondamentale del movimento femminista occidentale degli ultimi anni.[1] Tale esempio, inoltre, non è caso isolato in un’Europa che ha visto diversi suoi paesi regredire in merito all’emancipazione femminile, tra cui la Polonia che tra il 2020-21 ha limitato il diritto all’aborto e la Macedonia del Nord che ha agito in modo similare durante il decennio scorso.[2] Dal punto di vista giuridico, questi eventi sono campanelli d’allarme in quanto le leggi inerenti il diritto di interruzione della gravidanza e la protezione delle donne vittime di violenza di genere dovrebbero essere state più che internalizzate dalla popolazione occidentale, e quindi difficilmente messe in discussione dai governi europei. Ritornando sulla questione macedone, il precedente governo guidato dal partito VMRO-DPMNE e indicato dall’Unione Europea come causa del processo di declino democratico e dello “stato di cattura”[3] delle istituzioni pubbliche, ha portato alla politicizzazione dei diritti delle donne e alla decisione dell’ex-presidente Nikola Gruevski di modificare la legge sull’interruzione della gravidanza (2013).[4] Con questa mossa politica, è stato imposto l’obbligo alle donne che vogliono abortire di seguire un processo di counseling in cui la controparte maschile deve essere partecipe.[5] A seguito di una campagna mediatica organizzata dal governo per discreditare i movimenti di promozione dei diritti umani, in molti si sono chiesti come ciò sia potuto avvenire in un paese in cui l’Unione Europea (UE) svolge un ruolo cardine nel promuovere l’uguaglianza di genere conformemente allo schema generale dell’allargamento UE.[6] L’Unione, appunto, è il maggiore finanziatore di programmi volti allo sviluppo della Macedonia e il principale arbitro delle relazioni politiche del paese fin dalla creazione della Costituzione di Ohrid (2001). Bruxelles ha inoltre ulteriormente rafforzato il suo ruolo da quando lo stato balcanico ha ricevuto lo status di paese candidato all’UE (2005).[7] Tramite la sua condizionalità, l’Unione Europea ha incentivato le istituzioni macedoni a dotarsi di leggi che siano in linea con l’UE gender acquis, tra cui la legge anti-discriminazione (2018), la legge per la pari opportunità e i pari diritti delle donne e degli uomini (2015), e quella per le relazioni lavorative (2005).[8] Numerosi piani d’azione sono stati redatti per implementare queste leggi, e il Ministro per il Lavoro e le Politiche Sociali ha ricevuto l’incarico di monitorare tale processo.[9] Di conseguenza, la Macedonia del Nord è attualmente considerata come uno dei paesi dell’Est Europa con il più avanzato sistema giuridico in materia di parità di genere.[10] Con queste premesse, quindi, la precedentemente citata limitazione del diritto all’aborto, nonché la proposta governativa di cambiare l’indirizzo universitario gender studies in family studies, richiedono una riflessione più accurata sull’impatto che l’Unione Europea sta avendo a lungo termine in tale materia.[11] Per iniziare, i report del 2019 e 2020 della Commissione Europea hanno osservato come le leggi sulla parità di genere in Macedonia sono allo stato embrionale per quanto riguarda la loro implementazione.[12] Gli uffici predisposti a renderle operative mancano dei fondi necessari per monitorare costantemente la situazione sul territorio, e i centri di accoglienza per la protezione contro la violenza sulle donne non sono tempestivi nel soccorrere le vittime e nel coordinarsi con le forze dell’ordine.[13] Le difficoltà economiche però non sono gli unici motivi per cui i diritti di genere rimangono sulla carta, in quanto la cultura patriarcale continua a stigmatizzare i tentativi femministi di emancipazione politica e sociale.[14] A livello mediatico, ad esempio, le donne vengono spesso ritratte nel tradizionale ruolo di madri e mogli, mantenendo quindi una rigida separazione dei ruoli di genere.[15] La condizionalità dell’Unione europea in Macedonia dunque è forte nella fase di creazione delle leggi ma viene meno nella successiva fase applicativa.[16] La seconda fonte di problematiche è stata la disputa tra Grecia e Macedonia riguardante il nome di quest’ultima, in quanto tale crisi diplomatica ha rallentato il processo di allargamento dell’UE e posticipato l’entrata della Macedonia nella NATO.[17] Tale stagnazione ha contribuito al rafforzamento di un clima euroscettico, soprattutto nel periodo del governo di Gruevski, durante il quale il soft power europeo è stato molto debole.[18] Pertanto, le politiche nazionalistiche hanno marginalizzato questioni inerenti ai diritti umani, tra cui l’emancipazione femminile, e limitato la libertà di voto e di espressione dei cittadini macedoni.[19] Per oltrepassare questi ostacoli, l’UE ha investito in progetti mirati alla sensibilizzazione della popolazione e sovvenzionato organizzazioni no-profit in modo da rafforzare la società civile femminista.[20] Numerosi workshops e campagne transnazionali – come l’European Women’s Lobby, il più grande network dell’UE composto da associazioni che promuovono la parità di genere - hanno quindi incentivato diverse categorie sociali ad attivarsi per la causa e a contribuire proattivamente al movimento.[21] A livello diplomatico, l’Unione Europea ha condannato le azioni di Gruevski e appoggiato le proteste pacifiche avvenute nel 2013 e la Rivoluzione Colorata del 2017, che hanno portato alle dimissioni dell’ex-premier e alla costituzione di un nuovo governo.[22] Il partito SDSM ha quindi preso il controllo del governo macedone , anche grazie all’appoggio mediatico europeo, con un’agenda politica che sta dando priorità alla parità di genere, rendendo ad esempio operative le quote rosa nel parlamento e ponendo le donne in posizioni di rilievo sulle liste elettorali.[23] Se quindi il clima politico attuale è più favorevole per l’avanzamento dei diritti di genere, grazie anche alla fondamentale influenza dell’Unione Europea, c’è ancora molto su cui lavorare. La pandemia di Covid-19 ha inasprito i fragili equilibri creatisi tra donne e uomini nel corso degli ultimi anni, portando ad esempio ad un drastico aumento dei femminicidi e delle violenze domestiche probabilmente derivato dalla convivenza forzata durante i vari lockdown.[24] Il concetto di “intersezionalità” promosso dall’UE rimane inoltre inapplicato sia negli organi esecutivi che nella società civile, considerato che le persone che soffrono di discriminazione derivate dal loro genere, orientamento sessuale, etnia e reddito non beneficiano di una protezione adeguata dagli enti preposti a tale scopo.[25] La Macedonia del Nord è quindi un chiaro esempio di quanto un agente estero, in questo caso l’Unione Europea, può condizionare l’avanzamento dei diritti umani in paesi candidati all’adesione.[26] Al tempo stesso, l’emancipazione femminile è un processo lungo e complesso che richiede l’intervento sincrono di molteplici attori governativi e privati, mirato a parificare i rapporti di genere dalla politica, al lavoro, per non dimenticare la salute e l’educazione.[27] In aggiunta, è fondamentale coinvolgere la società civile in questo procedimento, in modo tale che i programmi mirati alla parità di genere non vengano applicati in modo asettico e verticale, ma corrispondano alle esigenze localizzate della popolazione. Senza tutti questi tasselli, altrimenti, è facile che in Macedonia si ripropongano situazioni come quella del 2013, ed è quindi imperativo continuare a impegnarsi per creare una società in cui donne e uomini abbiano – per davvero - pari opportunità e diritti. [1] Christa Schweng. [Online] President Erdoğan's decision to withdraw Turkey from the Istanbul Convention is a sad day for women's rights. European Economic and Social Committee, 2021. https://bit.ly/3sIJvcX [2] Euronews. [Online] EU criticises Poland's abortion ban as it reminds member states to 'respect fundamental rights'. Euronews, 2021. https://bit.ly/32AU9Ii [3] European Commission. The former Yugoslav Republic of Macedonia 2016 Report. Commission Staff Working Document, 2016. https://bit.ly/2QOKN94 [4]Florian Bieber. Patterns of competitive authoritarianism in the Western Balkans. East European Politics, 34(3), 2018. https://www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/21599165.2018.1490272; Danica Fink-Hafner. The Development of Civil Society in the Countries on the Territory of the Former Yugoslavia since the 1980s. Ljubljana: Založba FDV, 2015. https://bit.ly/3vdw86s [5] Biljana Kotevska and Elena Spasovska. Feminist activism against the restriction of reproductive rights in the Republic of Macedonia: The campaign against the new law on abortion. In Women's Studies International Forum, Pergamon, 77 (102233), 2019. https://bit.ly/2Pc2AXi [6] Ibid. [7] Maria Koinova. Challenging assumptions of the enlargement literature: The impact of the EU on human and minority rights in Macedonia. Europe-Asia Studies, 63(5), 2011. https://bit.ly/3dIYxLO; Lidija Hristova and Aneta Cekik. The Europeanisation of interest groups: EU conditionality and adaptation of interest groups to the EU accession process in the Republic of Macedonia. East European Politics 31.1, 2015. https://bit.ly/3dHJOkb [8] V. Efremova and South East European Law School. Legal perspectives of gender equality in South East Europe. South East European Law School, 2012. ; European Commission, Biljana Kotevska. Country report, Gender Equality: How are EU rules transposed into national law? Republic of North Macedonia. Publications Office of the European Union. Luxembourg: 2019. https://bit.ly/3sLskHI [9] Ibid. [10] Ibid. [11] Ana Miškovska Kajevska. A foe of democracy, gender and sexual equality in Macedonia: The worrisome role of the party VMRO-DPMNE. Politics and Governance, 6(3), 2018. https://bit.ly/3xaQjUa [12] European Commission (2019), Country report; European Commission, Biljana Kotevska. Country report, Gender Equality: How are EU rules transposed into national law? Republic of North Macedonia. Luxembourg: Publications Office of the European Union. Luxembourg: 2020. https://bit.ly/2QiyNgm [13] Ibid. [14] Andrea Spehar. This far, but no further? Benefits and limitations of EU gender equality policy making in the Western Balkans. East European Politics and Societies, 26(2), 2012. https://www.ceeol.com/search/article-detail?id=906385 [15] Biljana Kotevska and Elena Spasovska. Op. cit. [16] Maria Koinova.. Op. cit. [17] Simonida Kacarska. The EU in Macedonia: From inter-ethnic to intra-ethnic political mediator in an accession deadlock. The EU and Member State Building—European Foreign Policy in the Western Balkans, 2015; Alessio Corsato. Il processo di allargamento dell’UE ai Balcani occidentali: i casi di Macedonia del Nord e Montenegro. Centro Studi Internazionali, 2021. https://bit.ly/3tKR1oX [18] Florian Bieber. Patterns of competitive authoritarianism. [19] Tanja Paneva. The Right to Vote in Conditions when the Ruling Party Equals the State. Case Study on Macedonia: Progressive Control, Regressive Democratization. International Journal on Rule of Law, Transitional Justice and Human Rights 7.7, 2016. https://www.ceeol.com/search/article-detail?id=726021 [20] Danica Fink-Hafner. The Development of Civil Society. [21] Andrea Spehar. This far, but no further?. [22]Biljana Vankovska. The Chimera of Colorful Revolution in Macedonia: Collective Action in the European Periphery. Balkanologie. Revue d'études pluridisciplinaires 15.2, 2020. https://journals.openedition.org/balkanologie/2583 [23] European Commission (2020), Country report; Sinisa Jakov Marusic [Online] North Macedonia Ruling Alliance Pushes Gender Equality in Elections. Balkan Insight. Skopje: 2020. https://bit.ly/3v9K9lu [24] Council of Europe [Online] Improving media reporting on gender-based violence with the media regulatory authority and self-regulatory body for media ethics in North Macedonia. Council of Europe, Skopje: 2020. https://bit.ly/3naVDSS [25] European Commission (2020). Country report. [26] Elisabetta Crevatin (supervised by Salvador Santino Regilme). Prisoners of Consociationalism? Between Gender Equality and Ethnic Conflict in Bosnia-Herzegovina and North Macedonia. Leiden University Student Repository. Leiden: 2020. https://bit.ly/3njwB47 [27] Ibid. A cura di Matteo Buccheri, Elections Hub
La Scozia si avvicina alle elezioni del 6 maggio che decreteranno la nuova spartizione dei 129 seggi del Parlamento di Holyrood per la prossima legislatura quinquennale. Il precedente voto del 2016 aveva portato alla vittoria dello Scottish National Party (SNP) con una maggioranza semplice di 63 seggi. Questa tornata elettorale, la sesta nella storia dell’assemblea legislativa di Edimburgo, potrebbe segnare in maniera indelebile il futuro della Scozia nel Regno Unito e, in seconda battuta, dell’Unione Europea (UE). È concreta infatti l’ipotesi che si possa ripetere il risultato delle elezioni del 2011, con la vittoria dello Scottish National Party di Salmond (ora leader di Alba Party) che, forte della maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento, ha ottenuto da Londra la possibilità di indire il referendum per l’indipendenza. Oltre alla straordinaria rilevanza politica, queste elezioni si contraddistinguono anche per una certa singolarità. In primis, la delicata situazione pandemica ha costretto le autorità scozzesi a sostituire il tradizionale dissolution del Parlamento nelle settimane pre-elezioni con un più flessibile recess a partire dal 25 marzo, che consente ai membri di continuare a svolgere il proprio ruolo e di essere convocati in assemblea per questioni rilevanti. In secondo luogo, la recente dipartita del Principe Filippo ha messo in stand by la campagna elettorale dei partiti per alcuni giorni. Inoltre, il Parlamento è stato richiamato per rendere omaggio al Principe ed esprimere il proprio cordoglio alla Regina e alla Famiglia Reale. I recenti sviluppi non dovrebbero aver condizionato la corsa, dal momento che i cinque maggiori partiti hanno lanciato il proprio manifesto dopo la sospensione della campagna elettorale. I programmi dei partiti in corsa riflettono la polarizzazione politica della Scozia sul tema dell’indipendenza dal Regno Unito. Lo Scottish National Party (SNP), al governo dal 2007, domina il fronte indipendentista. Il partito con a capo la Prima Ministra uscente, Nicola Sturgeon, sottolinea nel proprio manifesto l’importanza storica di queste elezioni proiettando il futuro della Scozia al di fuori del Regno Unito con un referendum entro il 2023 (ritardi causa Covid-19 non sono da escludere). Tuttavia, l’SNP antepone all’indipendenza la priorità di risolvere la crisi pandemica ancora in corso per la ricostruzione del Paese, che dovrà essere una prerogativa di Edimburgo e non del Governo inglese. L’SNP intende anche intervenire per una maggiore qualità dei servizi scolastici e nel settore sanitario con la creazione di un National Care Service supportato da un aumento degli investimenti nell’assistenza sociale. Le tempistiche del referendum rappresentano il pomo della discordia tra i due partiti più indipendentisti, al netto delle recenti vicende personali (e politiche) tra i rispettivi leader. Per Alba Party di Alex Salmond, il referendum per l’indipendenza è una priorità assoluta per il Paese da non posticipare. L’ex leader dell’SNP ha avanzato anche l’ipotesi di una supermajority, invitando gli elettori a votare per Alba Party nelle liste regionali e per il candidato locale dell’SNP nei collegi uninominali (dove il partito di Salmond non è listato) per evitare che vadano persi dei seggi pro-indipendenza nelle liste regionali a causa del sistema elettorale misto scozzese. Tuttavia, Sturgeon ha già dichiarato che non ha intenzione di collaborare col suo ex mentore e che è necessaria solo una maggioranza semplice dei membri di Holyrood per pretendere il referendum. Leggermente più defilato tra i partiti pro-indipendenza, lo Scottish Green Party di Lorna Slater e Patrick Harvie incentra il proprio progetto politico su una Scozia indipendente più verde spingendo sulla transizione ecologica, attraverso energie rinnovabili e politiche ambientali concrete, verso una green economy con la creazione di nuovi posti di lavoro. I Greens, che danno la precedenza alla gestione della crisi pandemica, intendono poi riportare la Scozia indipendente all’interno dell’Unione Europea; questa inclinazione europeista è condivisa anche dall’SNP e da Alba Party, seppur con modalità diverse. Il fronte unionista dei Conservatori e dei Laburisti punta verso la direzione opposta. Lo Scottish Conservative and Unionist Party di Douglas Ross propone un programma per la ricostruzione del Paese post-pandemia inderogabilmente all’interno del Regno Unito, con investimenti nel National Health Service (NHS), interventi nell’istruzione e con un programma per la ripresa economica. Invece, a fine febbraio, lo Scottish Labour Party ha nominato come nuovo leader Anas Sarwar che avrà il compito d'invertire la rotta del partito, in costante declino dopo la vittoria alle prime elezioni del Parlamento di Holyrood nel 1999. Primo leader di uno dei maggiori partiti politici del Regno Unito ad appartenere a una minoranza etnica, Sarwar intende ricostruire il Paese e cercare di riguadagnare la fiducia degli elettori proponendo un partito più vicino alle loro esigenze. In cima alla lista delle priorità dello Scottish Labour Party c’è un National Recovery Plan per l’NHS e la volontà di combattere la disoccupazione garantendo ai giovani un lavoro più equo, meglio retribuito e in linea con un’economia più verde. Tra i partiti fedeli a Downing Street compaiono anche gli Scottish Liberal Democrats di Willie Rennie. Lo slogan, “put recovery first”, pone il loro programma in linea con quello degli altri partiti unionisti, i quali si oppongono al referendum per l’indipendenza cercando di catalizzare l’attenzione sulla ripresa del Paese. Nel loro manifesto i Liberal-Democratici insistono sul tema dell’occupazione giovanile e sul potenziamento del NHS e del sistema scolastico. Non rientra nei piani attuali del partito un eventuale ritorno tra i membri dell’UE, nonostante le posizioni favorevoli degli ultimi anni. Per ultimo il partito unionista, euroscettico e sovranista Reform Scotland Party (il ramo scozzese del Reform UK fondato da Nigel Farage) di Michelle Ballantyne propone una serie di riforme ritenute necessarie per il Paese, tra le quali una riforma del sistema fiscale e del sistema scolastico, una revisione della spesa pubblica e un rafforzamento dell’NHS. Nonostante una vittoria annunciata dell’SNP sugli altri partiti, la prospettiva di un secondo referendum per l’indipendenza non può considerarsi scontata. Il voto del 6 maggio fornirà una panoramica più concreta sulla posizione del fronte indipendentista al tavolo negoziale con Londra. A cura di Erika Frontini, Osservatorio sull'Unione europea
La Conferenza sul Futuro dell’Europa è finalmente realtà: lo scorso 10 marzo, i Presidenti di Commissione e Parlamento europeo, insieme al Primo Ministro portoghese - detentore attuale della presidenza del Consiglio dell’Unione europea - hanno firmato la dichiarazione congiunta che dà avvio ai lavori, fissando l’inaugurazione della Conferenza per il prossimo 9 maggio[i]. In tal modo, prende forma l’idea lanciata nel 2019 da Emmanuel Macron per tracciare il cammino verso un “Rinascimento europeo”[ii]. Infatti, sebbene ad aprire formalmente il dibattito sul futuro dell’integrazione europea sia stata la Commissione con il Libro bianco del 2017, è solo con la lettera aperta del Presidente francese, rivolta a tutti i cittadini europei, che si è iniziato a parlare di una Conferenza per discutere i cambiamenti di cui il progetto politico europeo necessita[iii]. L’iniziativa è stata accolta con favore dalle istituzioni UE, in particolare da Parlamento e Commissione. Ursula Von der Leyen ha inserito la Conferenza nel programma della sua Commissione, esprimendo l’intenzione di dar più voce ai cittadini riguardo al destino e alle priorità dell’Unione[iv]. Analogamente, il Parlamento ha posto l’accento sulla necessità di adottare un approccio “dal basso”, inclusivo e partecipativo[v]. Tali istanze vengono confermate nella dichiarazione adottata a inizio marzo, in cui le tre istituzioni sanciscono la propria collaborazione durante tutta la Conferenza e ne stabiliscono principi, modalità di lavoro e azioni. La partecipazione dei cittadini avverrà attraverso molteplici eventi organizzati a diversi livelli, in collaborazione con istituzioni nazionali e regionali, la società civile ed il mondo accademico. Panel di cittadini avranno luogo a livello europeo (ed eventualmente nazionale) allo scopo di formulare raccomandazioni che le istituzioni europee si impegneranno a discutere. Particolare attenzione sarà rivolta ai giovani, il cui coinvolgimento è ritenuto essenziale affinché la Conferenza abbia un impatto di lungo termine[vi]. Inoltre, dal 19 aprile sarà operativa la piattaforma digitale multilingue che fungerà da hub centrale, raggruppando tutti i contributi e permettendo ai cittadini di interagire ed influire sui lavori tramite un apposito sistema di feedback[vii]. Dopo mesi di disaccordi - che, insieme all’emergenza Covid, hanno provocato un ritardo nell’avvio della Conferenza - le tre istituzioni sono riuscite a giungere ad un compromesso anche per quanto riguarda la governance[viii]. La Conferenza sarà presieduta congiuntamente dai Presidenti di Parlamento, Consiglio e Commissione. Ciascuna istituzione disporrà di tre rappresentanti e un massimo di quattro osservatori all’interno del comitato esecutivo, al quale potranno essere invitati, in qualità di osservatori, i delegati di altri organismi UE e delle parti sociali. Al comitato esecutivo spetterà l’adozione, tramite consenso, delle decisioni relative alla Conferenza. I lavori del comitato saranno supportati da un segretariato comune di dimensioni limitate. Gli input provenienti dai cittadini e vagliati dal comitato esecutivo verranno discussi da una sessione plenaria costituita da rappresentanti di Parlamento, Commissione, Consiglio, dei parlamenti nazionali, dei cittadini, delle parti sociali e di altre istituzioni UE, la quale si riunirà almeno ogni sei mesi[ix]. La dichiarazione fa riferimento anche ai temi che verranno affrontati, pur non fornendo una lista esaustiva e lasciando ai cittadini la facoltà di “sollevare ulteriori questioni che li riguardano”[x]. Tali argomenti rispecchiano priorità e obiettivi dell’Unione (quali sfide ambientali, trasformazione digitale, giustizia sociale, valori europei, migrazioni e ruolo dell’UE nel mondo, per citarne alcuni), nonché questioni trasversali legate al buon funzionamento del sistema istituzionale e dei processi democratici a livello europeo. In quest’ambito, tra i temi proposti figurano la creazione di liste transnazionali per l’elezione degli eurodeputati, il sistema dello Spitzenkandidat, l’estensione del voto a maggioranza qualificata, il rafforzamento del ruolo dei parlamenti nazionali[xi]. Quello su cui invece la dichiarazione non fornisce indicazioni precise è come verrà data attuazione alle conclusioni raggiunte dalla Conferenza, che saranno presentate in una relazione indirizzata alla presidenza congiunta, presumibilmente nella primavera 2022[xii]. Il risultato finale è infatti uno degli aspetti più delicati, sul quale non c’è ancora accordo. Il Consiglio ha escluso modifiche ai Trattati[xiii]. Tuttavia, la dichiarazione sembra accennare alla possibilità di un ampliamento delle competenze dell’UE: il testo afferma che la Conferenza potrà abbracciare settori in cui “l’azione dell'Unione europea sarebbe stata vantaggiosa per i cittadini europei”[xiv]. Inoltre, sia il Parlamento[xv] che Von der Leyen[xvi] hanno espresso la loro apertura all’ipotesi di revisione. A prescindere dalla forma che si deciderà di dare agli esiti della Conferenza, le conseguenze per il futuro dell’Europa non sono scontate. Come è noto, le opinioni degli europei sull’UE non sono univoche, pertanto non si può escludere che la Conferenza conduca ad un risultato diverso da quello immaginato dai suoi ideatori. Lungi dall’imboccare la strada verso un’Europa federale, potrebbe invece emergere una spiccata preferenza per il rafforzamento della componente intergovernamentale. Per giunta, i vari canali di partecipazione potranno essere utilizzati anche da forze euroscettiche e antieuropee, con il rischio di cadere in un’impasse ed in una riconferma dello status quo[xvii]. Allo stesso tempo, verosimilmente ci sarà la tendenza a marginalizzare le voci più controcorrente, proprio per evitare scenari del genere. Tale marginalizzazione potrebbe verificarsi anche in maniera spontanea: è plausibile che i più propensi a prendere parte alla discussione sul destino dell’UE siano gli stessi che ne riconoscono la legittimità, mentre gli altri continueranno a dissociarsene. In questo modo, però, la Conferenza verrebbe svuotata del suo significato. D’altro canto, la Conferenza potrebbe essere l’occasione per le forze europeiste di far fronte comune e portare avanti il processo di integrazione senza coinvolgere la totalità degli Stati Membri, dando luogo ad un’integrazione differenziata. Tale sistema, che consente ai Paesi più ambiziosi di adottare forme più progredite di integrazione in alcune aree - lasciando comunque la porta aperta a quanti vorranno aggiungersi in seguito - è già presente nell’UE (basti pensare all’Eurozona) e, negli ultimi anni, è stato spesso indicato come l’unica strada percorribile per consentire l’avanzamento del processo di integrazione[xviii]. Questa modalità permetterebbe di superare l’opposizione di alcuni Paesi. Tuttavia, l’integrazione differenziata presenta anche dei limiti. In primo luogo, essa comporterebbe la comparsa di nuove divisioni, piuttosto che lo sviluppo di un’Europa sempre più unita. Inoltre, un simile approccio non è sempre adeguato: esso risulterebbe inappropriato, se non impraticabile, per questioni costituzionali o istituzionali. Per di più, l’integrazione differenziata sarebbe controproducente per politiche con un carattere redistributivo e di condivisione del rischio, quali migrazione e politiche economiche. Molti tra i temi più urgenti in agenda hanno natura costituzionale, istituzionale o redistributiva[xix]. Inoltre, un’Europa a diverse velocità potrebbe rivelarsi troppo vulnerabile rispetto ad eventuali variazioni di maggioranze politiche all’interno degli Stati Membri. Infine, una revisione in chiave differenziata del funzionamento dell’UE ne aumenterebbe la complessità, con il rischio di indebolire la già fragile legittimità democratica dell’Unione[xx], raggiungendo un risultato opposto a quello che si propone la Conferenza. [i] De La Baume, Maïa. [Online] EU finally approves Conference on the Future of Europe. Politico. 10/03/2021. https://www.politico.eu/article/eu-leaders-eu-sign-off-conference-on-the-future-of-europe/ [ii] Macron, Emmanuel. Per un Rinascimento europeo. Élysée. 04/03/2019. https://www.elysee.fr/emmanuel-macron/2019/03/04/per-un-rinascimento-europeo.it [iii] Fabbrini, Federico. The Conference on the Future of Europe. A New Model to Reform the EU?. Brexit Institute, Working Paper N. 12-2019. 07/01/2020. https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=3515188 [iv] Von der Leyen, Ursula. Un’Unione più ambiziosa. Il mio programma per l’Europa. 2019. https://ec.europa.eu/info/sites/info/files/political-guidelines-next-commission_it.pdf [v] Parlamento europeo. Posizione del Parlamento europeo sulla conferenza sul futuro dell’Europa. 15/01/2020. https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/TA-9-2020-0010_IT.pdf [vi] Dichiarazione comune del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione europea. Dialogo con i cittadini per la democrazia - Costruire un’Europa più resiliente. 2021. https://ec.europa.eu/info/sites/info/files/it_-_dichiarazione_comune_sulla_conferenza_sul_futuro_dell.pdf [vii] Commissione europea. Conference on the Future of Europe: launch of the citizens' platform on 19 April. 07/04/2021. https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/it/statement_21_1624 [viii] De La Baume, Maïa. [Online] What is the Conference on the Future of Europe?. Politico. 04/03/2021. https://www.politico.eu/article/what-is-the-conference-on-the-future-of-europe/ [ix] Dichiarazione comune del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione europea. Dialogo con i cittadini per la democrazia. 2021. [x] Ivi, p. 5. [xi] Camera dei Deputati - Ufficio rapporti con l’Unione Europea. La Conferenza sul futuro dell’Europa. Dossier n° 47 (Edizione aggiornata). 02/04/2021. https://documenti.camera.it/Leg18/Dossier/Pdf/AT047.Pdf [xii] Dichiarazione comune del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione europea. Dialogo con i cittadini per la democrazia. 2021. [xiii] Pirozzi, Nicoletta. [Online] Conferenza sul futuro dell’Europa: un anno per ripensare l’Ue. Affari Internazionali. 10/03/2021. https://www.affarinternazionali.it/2021/03/al-via-la-conferenza-sul-futuro-delleuropa-un-anno-per-ripensare-lue/ [xiv] Dichiarazione comune del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione europea. Dialogo con i cittadini per la democrazia. 2021. p. 5. [xv] Parlamento europeo. Posizione del Parlamento europeo sulla conferenza sul futuro dell’Europa. 2020. [xvi] Von der Leyen. Un’Europa più ambiziosa. 2019. [xvii] Fabbrini, Sergio. [Online] L’Europa apre il confronto sul proprio futuro. Il Sole 24 Ore. 08/03/2021. https://www.ilsole24ore.com/art/l-europa-apre-confronto-proprio-futuro-ADnPfPOB [xviii] Pirozzi, Nicoletta, Tortola, Piero e Vai, Lorenzo. [Online] La strada dell’integrazione differenziata. Affari Internazionali. 17/03/2017. https://www.affarinternazionali.it/2017/03/la-strada-dellintegrazione-differenziata/ [xix] Schimmelfennig, Frank. The Conference on the Future of Europe and EU Reform: Limits of Differentiated Integration. European Papers, Vol. 5, 2020, N. 2, p. 989-998. https://www.europeanpapers.eu/it/e-journal/conference-future-europe-limits-differentiated-integration [xx] Pirozzi et al. La strada dell’integrazione differenziata. 2017. Un passo indietro nel campo dei diritti umani: la Turchia e il ritiro dalla Convenzione di Istanbul20/4/2021
a cura di Giulia Calini Dal 20 marzo 2021 la Turchia porta sulle spalle un grosso peso: l’abbandono della Convenzione di Istanbul crea infatti problemi e indignazione sia a livello interno che a livello internazionale. La Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, meglio conosciuta come Convenzione di Istanbul, entrata in vigore nel 2014, è un tassello fondamentale per la protezione dei diritti umani avente come scopo quello di prevenire la violenza, favorire la protezione delle vittime ed impedire l'impunità dei colpevoli. Nel 2012 la Turchia ratifica per prima, ma ora sorge spontaneo chiedersi come mai, di fronte alla evidente importanza dei diritti protetti nella Convenzione, la Turchia abbia deciso di tirarsi indietro attraverso un decreto presidenziale. Innanzitutto, bisogna tenere presente che in Turchia la violenza domestica e i femminicidi rappresentano un problema massiccio, radicato nella storia e cultura del paese. Basti pensare che mentre in Europa il 25% delle donne è vittima di violenza da parte di un partner nel corso della vita, in Turchia questo valore si alza toccando la preoccupante soglia del 38%. Significativo è che il leading case in materia di violenza domestica e di genere riguardi proprio la Turchia: si veda infatti il caso Opuz v. Turkey. Questo riguarda un processo del 2009 dove la protagonista è una donna che di fronte alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha sostenuto che le autorità nazionali turche non si siano applicate per proteggere sua madre, uccisa dal marito, e nemmeno per proteggere lei stessa, vittima di ripetute violenze fisiche e psicologiche perpetrate sempre da parte dello stesso. La donna lamentava dunque le violazioni del diritto alla vita, del divieto di tortura e del divieto di discriminazione, in quanto le autorità turche sono solite non dare rilevanza ad episodi simili e dunque i procedimenti penali si rivelano sempre inefficaci. La sentenza finale della Corte si rivela molto importante: non solo questa conferma tutte le violazioni invocate dalla vittima, ma evidenzia anche quanto sia vero che la violenza di genere riguardi soprattutto le donne e che le autorità nazionali hanno un atteggiamento sbagliato che crea un clima favorevole a questo tipo di disgrazie e violazioni di diritti. Nel 2009 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sottolinea le radici discriminatorie e fondate sul genere dell’accaduto, aggiungendo che il sistema giudiziario turco è responsabile del clima di impunità presente nel paese. Proprio su questo ultimo punto il presidente turco Erdogan ha cercato un escamotage per giustificare l’abbandono della Convenzione di Istanbul. Appigliandosi alla Legge 6284 approvata l’8 marzo 2012, che mira ad incorporare la Convenzione all’interno della legislazione nazionale, il presidente e i suoi sostenitori hanno acclamato il ritiro della Turchia dalla Convenzione come un qualcosa di positivo. L’articolo 1 della legge spiega che le sue basi sono radicate nella ‘Costituzione turca e sui trattati internazionali di cui la Turchia è uno Stato parte, in particolare, il Trattato del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica’. Purtroppo per Erdogan, questo discorso non funziona. Questo perché proprio secondo la Costituzione turca, il Parlamento è incaricato di ratificare i trattati sui diritti umani e qualsiasi legge da esso approvata non può essere cambiato da emendamenti provenienti dall’esecutivo. Può dunque il decreto presidenziale di Erdogan lanciare un’inversione di marcia così forte? Costituzionalmente parlando la risposta è no. Il presidente, rappresentate l’esecutivo, non può esercitare funzioni legislative annullando la ratifica del Parlamento sulla Convenzione di Istanbul. Dunque, l’utilizzo improprio del decreto presidenziale va a mettere a nudo un più velato malfunzionamento dei meccanismi della Costituzione turca nel delineare la sfera di azione del legislativo e dell’esecutivo. Altra scusante usata per giustificare il cambio di opinione riguardo la Convenzione è stata la profonda cultura religiosa presente nel paese. In nome della protezione dei valori della famiglia tradizionale, molte figure conservatrici hanno accusato la Convenzione di essere pericolosa in questo senso, di dare alla comunità LGBTQ maggiori diritti e di approvare i matrimoni gay. Resta da chiedersi se questa dialettica sia logica, considerando che, come espresso dalla Women and Democracy Association (KADEM), di cui la figlia di Erdogan è vicepresidente, probabilmente è difficile chiamare famiglia una relazione nella quale sostanzialmente vi è un oppresso e un oppressore, più che un marito e una moglie. Secondo We Will Stop Femicides Platform, un gruppo per i diritti che monitora la violenza contro le donne, almeno 474 donne sono state uccise in Turchia l'anno scorso, la maggior parte da partner attuali o precedenti, familiari o uomini non imparentati che volevano una relazione con loro. Questo dato preoccupa soprattutto se si considera che quest’anno, quando le misure anti COVID-19 quali il lockdown sono state istituite, le violenze domestiche a danno di donne hanno subito un’impennata, situazione aggravata dal fatto che le vittime erano intrappolate a casa con i loro aggressori o incapaci di accedere facilmente ai servizi di sicurezza e supporto. L’utilizzo della religione come scusa per abbandonare la Convenzione di Istanbul pone dunque dei dubbi sull'impegno costituzionale per i diritti umani e l'uguaglianza di tutti i cittadini che ogni stato dovrebbe avere, indipendentemente dai valori sociali e familiari che ogni cittadino può avere. Di fronte a questa situazione critica, le proteste hanno infiammato le città turche, dove migliaia di persone hanno affollato le piazze per dimostrare il loro disaccordo con le decisioni del governo. A livello nazionale, i partiti di opposizione hanno presentato ricorso al Consiglio di Stato, il più alto tribunale amministrativo, chiedendo un annullamento delle sue azioni. Tuttavia, date le preoccupazioni per la presa dell'esecutivo turco sulla magistratura, non è possibile prevedere l'esito di una simile sfida. A livello europeo, gli organi del Consiglio d'Europa, gli Stati membri e gli Stati parti della Convenzione di Istanbul hanno tre mesi di tempo dalla notifica ufficiale del ritiro formale per esprimere la loro posizione. Di certo questa è una situazione eccezionale mai verificatasi prima, ovviamente le reazioni non potranno essere che di forte carattere dato che un simile fatto va contro i principi base del sistema del Consiglio d’Europa: tutela dei diritti umani, democrazia e stato di diritto. ![]()
a cura di Agnese Anselmo A un anno dallo scoppio dell’emergenza pandemica in Brasile, con quattro Ministri della Salute che si sono succeduti, la situazione sembra non essere mai stata sotto controllo neanche per un momento a causa, dapprima, dell’inesistente politica federale di contenimento della diffusione del virus Covid-19 e, in seguito, dell’inefficace corsa all’approvvigionamento dei vaccini da parte dell’Amministrazione Bolsonaro. La grossa problematica è stata proprio la mancanza di coordinamento tra i governatori dei vari Stati (in quanto il Brasile è una federazione) e il proprio Presidente, il quale ha sempre ricercato lo scontro politico piuttosto che il dialogo per rispondere alle esigenze derivanti dalla pandemia. Bolsonaro ha di fatto mantenuto una politica “negazionista” rispetto alla pericolosità del Covid-19 e contemporaneamente si è deresponsabilizzato dal peso della gestione dell’emergenza sanitaria scaricando le colpe della mal gestione sui governatori, poiché la sentenza 24 marzo 2020 del STF (Supremo Tribunale Federale), che sanciva la competenza congiunta tra governatori, sindaci e governo federale nel regolamentare le restrizioni agli spostamenti, ha bloccato il tentativo del Presidente di accentrare il potere decisionale in favore del solo governo. Ad esempio i governatori sono stati spesso contraddetti da Bolsonaro nel momento in cui cercavano di attualizzare politiche preventive contro la diffusione del virus. A loro, infatti, il Presidente ha imputato la crescente crisi economica sostenendo che con le quarantene e la chiusura delle attività commerciali i governatori fossero responsabili dell’incremento dei tassi di disoccupazione e pertanto fosse loro responsabilità trovare soluzioni alternative. A tal proposito l’istituto CEPEDISA (Centro di Studio e Ricerca di Diritto Sanitario dell’Università di San Paolo), con una ricerca iniziata lo scorso marzo 2020 e in continuo aggiornamento, ha pubblicato un’analisi delle normative contro il Covid-19 adottate durante la pandemia, evidenziando su una linea temporale come il Presidente abbia tentato di boicottare molte delle misure emanate dai governatori e, parallelamente, abbia attuato una propaganda per screditare le autorità scientifiche sulla pericolosità del Covid-19, indebolendo l’adesione popolare a seguire le raccomandazioni sanitarie. Infatti, ad esempio, per tutto il 2020 il Presidente ha spinto sull’utilizzo di strumenti quali la clorochina, farmaco contro la malaria, screditando le evidenze scientifiche e i pareri dell’OMS ed investendo in migliaia di compresse di tale farmaco al posto dei vaccini. Va ricordato come l’accordo con l’azienda Pfizer-Biontech, che già ad agosto del 2020 proponeva 70milioni di dosi entro giugno 2021 al governo brasiliano, sia stato lasciato cadere nel vuoto e Bolsonaro abbia ammesso solamente lo scorso febbraio 2021 di aver commesso un errore di valutazione. Tale approccio “negazionista” ha generato inevitabilmente un ritardo sulla campagna vaccinale e il Brasile ha iniziato realmente a trovare accordi sui vaccini solamente a inizio marzo 2021 con 138 milioni di dosi previste entro la fine dell’anno.[5] Ma nonostante tutto in Brasile la campagna vaccinale è iniziata ufficialmente il giorno 18 gennaio, non per merito di Bolsonaro, ma della spinta data dal governatore dello Stato di San Paolo Joao Doria, il quale ha iniziato il giorno prima a vaccinare nella regione, dopo molte difficoltà per ottenere gli accordi con le case farmaceutiche per via dei blocchi che si erano creati a livello nazionale. La campagna vaccinale messa in atto dal Governatore dello Stato di San Paolo ha inevitabilmente attirato l’attenzione di Bolsonaro, non tanto per un suo repentino interessamento alla questione dell’emergenza pandemica, quanto per un personale interesse a riguadagnare il consenso politico perso in previsione delle elezioni presidenziali del 2022, dove Joao Doria sarà il suo diretto rivale politico nell’elettorato di destra. Sembra infatti che il governatore abbia acquisito popolarità proprio per l’avvio della campagna vaccinale nello Stato di San Paolo, rischiando di buttare fuori Bolsonaro dalla corsa alla presidenza, in un momento in cui il vaccino diventa la speranza di un Brasile martoriato dalle varianti del Covid-19 che vede crescere in modo esponenziale il numero dei morti, rendendolo il secondo Paese al mondo per morti e contagi, e non riesce a evitare il collasso delle strutture ospedaliere. A tal proposito, va ricordato come il governo federale non sia riuscito a gestire l’esplosione di contagi nella regione di Manaus, una delle regioni più povere del Brasile già colpita duramente durante la prima ondata, dove a metà gennaio 2021 sono terminate le scorte di ossigeno e la città si è trovata a ricevere rifornimenti dal vicino Venezuela per l’incapacità di coordinamento tra municipi, regione e governo federale. Inoltre il Presidente si trova ora a fare i conti con il ritorno di Lula sulla scena politica, dopo essere stato scagionato dalle condanne nel mese di marzo, che ha pubblicamente incolpato Bolsonaro per la sua mal gestione, accusandolo anche di genocidio. Per di più sembra esserci una crisi politica anche all’interno del suo stesso governo, infatti il Presidente ha cambiato sei ministri e ha perso il favore delle forze armate. ![]()
A cura di Carlo Comensoli e Matteo Buccheri, Elections Hub
In un’intervista rilasciata a The Guardian domenica 11 aprile, la Prima Ministra scozzese Nicola Sturgeon ha confermato che la possibilità di un nuovo referendum sull’indipendenza della Scozia dal Regno Unito sarà il punto centrale delle elezioni per il rinnovo del Parlamento locale del prossimo 6 maggio. Nelle settimane che precedono il voto, il tema rischia di determinare una rottura con Downing Street: infatti non è ancora del tutto chiara la posizione di Boris Johnson sulla concessione del referendum, che eventualmente potrebbe essere indetto anche senza l’approvazione del Governo centrale. Sturgeon si è però detta fiduciosa che Londra concederà ai cittadini scozzesi il voto sull’indipendenza se a maggio risulteranno vincitori i partiti che lo promuovono. Boris Johnson rimane comunque impopolare tra l’elettorato locale, al punto che nelle prossime settimane non visiterà la Scozia per sostenere la campagna del Partito Conservatore. Dal canto suo, a marzo il Primo Ministro ha accusato lo Scottish National Party (SNP) di Nicola Sturgeon di voler sfruttare la polarizzazione sul tema dell’indipendenza tra i cittadini scozzesi in vista della campagna elettorale del 2021, anche quando l’emergenza sanitaria e la gestione della pandemia di COVID-19 richiederebbero di mettere la questione in secondo piano. La posizione di Londra rimane incerta anche alla luce del fatto che solo sette anni fa si tenne un primo referendum sull’indipendenza della Scozia, che peraltro vide un’affluenza record pari all’84,59% degli aventi diritto. All’epoca il voto (che vide la vittoria del No col 55% circa delle preferenze) fu legalmente autorizzato da un atto ad hoc approvato dal Parlamento scozzese grazie a un accordo col Governo centrale. Chiaramente, l’esito di un altro referendum a meno di due anni di distanza, quello della Brexit, cambiò completamente le condizioni della questione dell’indipendenza scozzese, tanto che già all’indomani del voto Sturgeon invocò una nuova possibilità per i cittadini scozzesi di scegliere se restare nel Regno Unito. Nel 2016, infatti, in Scozia il Remain vinse clamorosamente con più del 60% delle preferenze, segnando un’evidente spaccatura col resto del Regno Unito protratta in questi cinque anni, anche dopo l’uscita definitiva del Paese dall’Unione europea (UE) avvenuta il 31 gennaio 2020. Questa spaccatura, oltre alla sfiducia nei confronti della leadership del Partito Conservatore che in questi anni ha gestito l’uscita dall’UE, è apparsa evidente nei risultati delle due elezioni generali anticipate del 2017 e 2019. Infatti, se da un lato i risultati generali delle legislative di due anni fa offrivano un chiaro mandato di governo per Johnson, in Scozia i Tories hanno registrato invece un calo delle preferenze, a favore di una netta vittoria dell’SNP, che attualmente nella Camera dei Comuni occupa ben 48 seggi sui 59 assegnati ai collegi scozzesi. Quanto agli equilibri interni, l’esito delle elezioni per il Parlamento di Holyrood rinnoverà con ogni probabilità la leadership di Nicola Sturgeon e del suo SNP, che secondo gli ultimi sondaggi si attesta intorno al 50% nelle liste dei singoli collegi e supera il 40% nelle liste regionali, staccando nettamente il Labour Party, il Conservative Party e i Greens. Tuttavia, a tenere banco è la frattura interna sul fronte indipendentista che rischia di essere decisiva, in un modo o nell’altro, per i piani di separazione della Scozia dal Regno Unito. La vicenda riguarda la premier uscente e Alex Salmond, ex Primo Ministro e precedente leader dell’SNP. Salmond fu l’artefice dell’ascesa del partito nazionalista con la vittoria delle elezioni del 2007 a scapito dei Laburisti che dominavano la scena politica scozzese fin dalle prime elezioni del Parlamento di Edimburgo nel 1999; rinnovò il suo mandato con la successiva tornata elettorale del 2011, ottenendo lo storico risultato della maggioranza assoluta, ma dopo la sconfitta nel referendum per l’indipendenza del 2014 lasciò la leadership del partito e si dimise da Primo Ministro. Entrambe le cariche furono occupate dalla sua vice e delfina storica, l’attuale premier Nicola Sturgeon, mentre Salmond si candidò alle elezioni del Parlamento di Westminster del 2015 ottenendo un seggio nella Camera dei Comuni. I rapporti tra i due maggiori esponenti del Partito Nazionale Scozzese si deteriorarono dopo le accuse di molestie sessuali contro Salmond avanzate a partire dall’agosto del 2018 da nove donne, tutte all’interno dei ranghi del partito o funzionarie governative. Le accuse vennero poi formalizzate nel gennaio del 2019, quando Salmond venne arrestato dopo la consegna alla polizia scozzese del report di un’indagine interna del Governo. Sempre dichiaratosi innocente e vittima di una strategia del partito per screditare la sua immagine, Salmond fece subito causa al Governo per vizi procedurali durante la gestione del caso, ottenendo un risarcimento da più di mezzo milione di sterline, e fu poi definitivamente assolto nel marzo del 2020. La bufera che colpì l’SNP, dal quale Salmond rassegnò le dimissioni dopo le prime accuse di molestie sessuali, coinvolse anche Nicola Sturgeon. Fu accusata dal suo predecessore, nonché vecchio mentore, di aver complottato con le alte cariche del partito (tra cui il marito Peter Murrell, Chief Executive Officer dell’SNP) contro di lui. Dopo aver negato a più riprese tali insinuazioni, Sturgeon si è dovuta difendere dalle accuse di violazione del codice ministeriale durante la gestione del caso Salmond; è stata assolta lo scorso 22 marzo dopo un’indagine indipendente e il giorno successivo il Parlamento ha rigettato la mozione di sfiducia proposta dai Conservatori grazie ai voti dell’SNP e dei Verdi, con Laburisti e Liberal-Democratici astenuti. Sturgeon, scampato il pericolo delle dimissioni, può quindi concentrarsi sulle elezioni di maggio e affrontare più rinfrancata la partita dell’indipendenza scozzese, per la quale si rivelerà decisivo ancora una volta il ruolo di Salmond che ha preso la leadership a fine marzo di un nuovo partito nazionalista e pro-indipendenza, Alba Party, che contenderà una piccola ma rilevante porzione di voti all’SNP. a cura di Cristiana Oliva Il 13 aprile 1975 ad ʿAyn al-Rummāna (عين ﺍﻟﺮمّاﻧـة) – un quartiere di Beirut – un piccolo gruppo di persone, tra cui Pierre Gemayel, assisteva alla consacrazione di una chiesa. Da un'automobile partirono verso di loro raffiche di mitra da parte di miliziani palestinesi. Al termine dell'attacco armato si contarono quattro morti e sette feriti. Alcune ore dopo, 27 palestinesi armati, stipati su un autobus che transitava nella stessa zona con analoghe intenzioni, vennero uccisi da elementi cristiani di ʿAyn al-Rummāna, dopo uno scontro violentissimo. Questo incidente avrebbe cambiato la vita dei libanesi per i successivi 15 anni. Infatti, fu l'inizio effettivo della guerra civile del Libano, che cessa di essere un modello di convivenza e sviluppo economico. Sebbene il conflitto sia ufficialmente terminato nel 1990, il Libano è rimasto afflitto da instabilità, corruzione ed aspre divisioni politiche. Trascorsi 46 anni dall'episodio, lo Stato libanese si dimostra incapace di affermarsi come autorità centrale e continua a subire le ricadute del sistema socio-economico messo in piedi dalle milizie dal 1975 al 1990. Il sociologo Salim Nasr (1948-2008), uno dei primi a studiare la guerra civile libanese e il suo effetto sulla popolazione, parla di un “sistema di guerra” instaurato dagli attori del conflitto. Un sistema che ha generato la propria sfera economica, i propri strati sociali, un'ideologia di divisione che giustifica la continuazione delle ostilità e delle infrastrutture economiche, politiche e militari, che hanno contribuito a mantenere il Paese in uno stato di guerra. Dalla fine del 2019 il Libano ha dovuto affrontare diverse crisi di trasformazione. In queste crisi, il tentativo delle élite libanesi di mantenere in vita il sistema settario, diventato sempre più uno strumento di dominio e controllo che regola la vita politica, economica e sociale del Paese, è stato sfidato dalle turbolenze regionali e da una serie di eventi interni. In primo luogo, il 17 ottobre 2019, sono scoppiate proteste che alla fine hanno portato alle dimissioni del primo ministro Saad Hariri a novembre. Per anni i libanesi denunciavano il deterioramento economico, l'aumento della povertà e la diffusa corruzione nel paese. La proposta di introdurre la cosiddetta “tassa WhatsApp” è stata l'ultima goccia e ha innescato un'ondata di rivolte che si è rapidamente propagata in tutto il Libano. All’inizio di marzo 2020, il nuovo governo del primo ministro Hasan Diab ha dichiarato banca rotta con gravi conseguenze sul potere d'acquisto dei libanesi a causa dell'impossibilità di mantenere un tasso di cambio fisso tra la lira libanese e il dollaro. Nel frattempo, tra febbraio e marzo 2020, la pandemia COVID-19 aveva raggiunto anche il Paese dei Cedri, portando infine ad un lockdown il 26 marzo. Le proteste però non si sono fermate, tanto meno nella città di Tripoli, dove la disastrosa situazione socio-economica ha spinto gli abitanti a scendere in piazza nonostante il rischio di contagio. L'esplosione nel porto di Beirut il 4 agosto, in questo contesto precario, ha provocato morte, distruzione e danni per milioni di dollari. In un momento così critico, l'irresponsabilità della classe politica libanese ha portato alle dimissioni di Diab, che ha concluso il suo mandato con un laconico "Che Dio salvi il Libano". Nell’ultimo anno il Libano ha subito un crollo economico enorme, ritenuto la peggiore crisi dalla guerra civile del 1975-1990. Oltre il 55% della popolazione è attualmente in povertà; la fame, la disoccupazione e la frustrazione dilagano. Il mosaico politico libanese ha sempre più istituzionalizzato le condizioni in cui le risorse pubbliche sono privatizzate dai leader settari e scambiate a livello locale per il sostegno politico. Tali condizioni hanno portato a uno stato che è stato indebolito dalla corruzione endemica e paralizzato dall'infinita competizione comunitaria per il controllo del potere. In aggiunta, attori esterni come l'Arabia Saudita, la Russia e l'Iran interferiscono nelle dinamiche locali, traslando conflitti di natura geopolitica internazionale a livello locale. Il risultato è uno stato lacerato dal conflitto, dall'inerzia e del tutto incapace di affrontare le crisi attuali. L'esplosione di Beirut precedentemente menzionata e le sue conseguenze sono viste come l'incarnazione di tali carenze. In mezzo al persistente deterioramento economico e al collasso del governo, il Libano assiste ad una tendenza sempre più preoccupante verso disordini e violenza politica. Allo stesso tempo, si può assistere a un aumento delle tensioni sia all'interno che all'esterno delle sette, sollevando la questione se il paese vedrà una ripetizione degli eventi catastrofici di quaranta anni fa. Lungi da una nuova rivoluzione dei cedri, gli sforzi per spingere nuove riforme potrebbero portare a un conflitto molto simile alla guerra civile del 1975-90, in cui potenze straniere e milizie locali rivali uniscono le forze allontanando sempre di più l’idea di una “Svizzera” del Medio Oriente. ![]()
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