a cura di Ludovica Radici Giovedì 11 marzo, il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione per contrastare la violazione dei diritti umani in Bahrein, chiedendo in particolare la fine delle vessazioni del regime nei confronti degli attivisti per i diritti umani e l’introduzione di una moratoria sulla pena di morte, condannando inoltre il continuo ricorso alla tortura nelle carceri, che comprende la negazione delle cure mediche e ad altri trattamenti crudeli e degradanti nei confronti dei detenuti, compresi i manifestanti pacifici e i civili. Questa risoluzione è stata accolta con gioia da parte di molte associazioni che si occupano di diritti umani nel Golfo, esortando però la società civile a non abbassare la guardia e a continuare la battaglia per la difesa dei diritti umani. Ma da dove nasce la loro richiesta? Il 14 febbraio scorso, a Manama, la capitale del Bahrein, si sono accesi alcuni moti di protesta in memoria delle manifestazioni del 2011. Mentre in quell’anno i giornali si focalizzarono principalmente su Tunisi e il Cairo, la primavera araba era arrivata anche nel Golfo, dove i cittadini si riversarono in strada per protestare contro le violazioni dei diritti umani e la mancanza di democrazia. In Bahrein, i manifestanti scesero in piazza denunciando la discriminazione interconfessionale che il regime di Al-Khalifa infliggeva alla comunità sciita del Paese – che costituisce ancora oggi circa i due terzi dell’intera popolazione, guidata da una monarchia sunnita –, e chiedendo libere elezioni governative. La reazione del regime fu però estremamente violenta, in quanto ordinò alla polizia di usare gas lacrimogeni contro i manifestanti, causando molti feriti sia in piazza Lulu (perla in arabo), il principale punto di ritrovo della manifestazione, che nella principale università del paese, dove gli studenti si erano riuniti per manifestare il loro scontento nei confronti del governo. Il regime di Al-Khalifa chiese inoltre aiuto militare all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti per reprimere la protesta, basandosi sulla narrazione di un conflitto di natura settaria che vedeva contrapporsi i sunniti e gli sciiti, accusando questi ultimi di essersi alleati con l’Iran e di aver tradito lo spirito di unità nazionale del Paese. A dieci anni dalle proteste del 2011, la situazione dei diritti umani in Bahrein non ha fatto altro che peggiorare. Qualsiasi tipo di opposizione politica è stata bandita: nel 2011, il leader del movimento d’opposizione Haq, Hasan Mushaima, è stato arrestato e il movimento è stato sciolto. La stessa sorte è toccata a Sheikh Ali Salman, il fondatore di Al-Wefaq, un altro partito di opposizione costretto a sciogliersi nel 2016, anno in cui i dissidenti politici, tra i quali attivisti e avvocati che si occupano di diritti umani, manifestanti e giornalisti, hanno dovuto affrontare una repressione sempre più crescente, che includeva totale censura, divieti di lasciare il paese, arresti arbitrari e torture. Con l’avvento della pandemia da COVID-19, organizzazioni come Amnesty International e Human Rights Watch hanno inoltre espresso la loro preoccupazione per le condizioni sanitarie dei detenuti, chiedendo al governo bahreinita di liberare gli attivisti per i diritti umani, i leader dell’opposizione e i giornalisti che erano stati imprigionati semplicemente per aver esercitato il loro diritto d’espressione e di assemblea. In seguito a queste raccomandazioni, il 17 marzo 2020 il Bahrein ha scarcerato più di 1.400 prigionieri, 901 dei quali hanno ricevuto la grazia reale, escludendo però proprio le categorie di prigionieri menzionate dalle organizzazioni umanitarie. Il rifiuto di scarcerare attivisti umani e giornalisti risulta particolarmente preoccupante, se si considerano le condizioni nelle quali versano la maggior parte delle prigioni del paese, in particolare il carcere di Jau, quello più importante: i centri di detenzione bahreiniti, infatti, sono estremamente affollati, elemento che rende il distanziamento sociale impossibile, e le loro condizioni sanitarie sono molto scadenti. Ai prigionieri politici vengono spesso negate le cure mediche, in contravvenzione alle regole standard minime delle Nazioni Unite per il trattamento dei detenuti, conosciute anche come regole di Mandela. La privazione di cure mediche per prigionieri politici e attivisti dei diritti umani viene utilizzata come pratica punitiva dal regime, attirando le condanne da parte di quattro Relatori Speciali delle Nazioni Unite a settembre 2019, e da parte di altri otto nel novembre dello stesso anno. Nell’ambito della pandemia, questa pratica sta mettendo ulteriormente a rischio la vita dei prigionieri politici più anziani, molti dei quali soffrono di patologie pregresse. In seguito allo scoppio della pandemia, Il governo bahreinita ha inoltre impedito a più di 1.000 pellegrini sciiti di tornare dall’Iran, mentre tutti gli altri cittadini del Bahrein in viaggio verso altri paesi del Medio Oriente, come Giordania, Emirati Arabi Uniti, Oman, e Turchia, hanno avuto modo di rientrare nel paese senza alcun problema. Le misure per il contenimento del COVID-19 hanno fornito un’arma al regime di Al-Khalifa per limitare ulteriormente le libertà dei cittadini sciiti. Il Bahrein rimane quindi un paese estremamente autoritario, dove le oppressioni nei confronti della società civile e della popolazione sciita persistono e le riforme rivendicate dalla popolazione nel corso della primavera araba non sono state attuate. Questa situazione ha spinto anche Lewis Hamilton, tra i più grandi piloti di tutti i tempi e il maggior detentore di vittorie nella storia della competizione automobilistica, a schierarsi contro gli abusi dei diritti umani in Bahrein nel dicembre scorso, in vista del campionato di Formula 1 che ha avuto inizio domenica 28 marzo a Manama. Ora che anche il Parlamento europeo ha preso una posizione istituzionale contro le violenze perpetrate dal regime bahreinita nei confronti dei suoi stessi cittadini, la speranza è che queste pressioni inducano il Paese ad approvare almeno alcune delle riforme richieste ormai più di dieci anni fa. ![]()
A cura di Alessio Corsato, Osservatorio sull'Unione europea
Il 2021 sarà un anno indubbiamente importante per il progresso dell’allargamento dell’Unione Europea (UE) ai Balcani. Il processo è attualmente in stallo e si presentano tre possibili scenari: nel primo caso l’UE potrebbe adottare una visione strategica della regione dei Balcani occidentali e quindi riprendere i negoziati; nel secondo caso potrebbero venir prese mezze misure con il rischio di illudere la popolazione (si pensi all’impegno non mantenuto da parte dell’UE di aprire i negoziati per Albania e Macedonia del Nord lo scorso anno); infine, la passività europea potrebbe rompere definitivamente gli equilibri in favore di attori esterni, quali Russia, Cina e Turchia, pronti a colmare il vuoto politico1. Il 25 marzo scorso la plenaria del Parlamento Europeo ha adottato una serie di risoluzioni2, tra cui quattro indirizzate ad Albania, Macedonia del Nord, Kosovo e Serbia, in cui vengono riconosciuti i progressi compiuti dagli Stati, come il graduale soddisfacimento delle “priorità di riforma urgenti” per rafforzare lo Stato di diritto in Macedonia del Nord. D’altra parte, vengono evidenziate alcune lacune per le quali sono richiesti ulteriori sforzi, ad esempio nella lotta alla corruzione o per favorire il dialogo interpartitico. Al contempo il Parlamento Europeo ha espresso preoccupazione riguardo all’eventuale compromissione dell’intero processo di allargamento3. I casi della Macedonia del Nord e del Montenegro, malgrado la distanza temporale che separa le rispettive richieste di adesione all’UE, sono rilevanti perché condividono diverse caratteristiche, che rendono possibile uno studio comparato. Prima di entrare nel dettaglio, è importante ricordare come agli Stati balcanici desiderosi di entrare a far parte dell’Unione Europea sia richiesto non solo il rispetto delle classiche condizioni fissate dagli artt. 6 e 49 TUE e dei c.d. criteri di Copenaghen4, ma ulteriori requisiti contenuti nel Processo di Stabilizzazione e Associazione (SAP). Questo processo, concepito per stabilizzare la regione dopo i conflitti interetnici degli anni ‘90, che lasciarono l’area in uno stato di arretratezza economica e di forte politicizzazione, si fonda sul rispetto della cooperazione regionale e sul mantenimento di buone relazioni di vicinato. In pratica, si realizza tramite la firma di accordi bilaterali tra l’UE e lo Stato interessato, chiamati Accordi di Stabilizzazione e Associazione (SAA), dopo la quale, si procede con l’avvio dei negoziati ufficiali. Macedonia del Nord A trent’anni dal referendum popolare d’indipendenza del 1991, la Macedonia è ancora lontana dall’appartenere all’UE e il suo lento avvicinamento verso questo obiettivo è stato segnato principalmente da condizionalità esterne, ma anche da difficoltà interne. Difatti, alcuni ricercatori considerano il caso macedone «l’emblema della forte politicizzazione del processo negoziale5» e il Paese uno “Stato contestato6” internazionalmente e internamente. In particolare, vi è sempre stata una forte contestazione dello Stato e dell’élite macedone da parte della minoranza albanese, circa il 25% della popolazione, e l’alta tensione inter-etnica ha condotto le parti al conflitto del 1999, sedato dall’intervento della NATO7. Per converso, a livello internazionale, subito dopo l’indipendenza è sorta una controversia con la Grecia sul nome che la Repubblica avrebbe dovuto adottare. Precisamente, la designazione Macedonia avrebbe potuto far sorgere rivendicazioni territoriali sull’antica regione macedone, comprendente la Grecia settentrionale e una parte dell’attuale Bulgaria. L’accesso all’ONU (1993) e l’avvio delle relazioni diplomatiche con l’UE (1995) furono possibili unicamente grazie a un compromesso temporaneo sul nome, ossia Former Yugoslav Republic of Macedonia (FYROM), adottato nell’aprile 1993. La controversia si è infine risolta nel 2018 con gli Accordi di Prespa, con cui la Macedonia ha assunto il nome di Macedonia del Nord, grazie ad un “sacrificio identitario8” dei leader Zaev e Tsipras. Nonostante abbia acquisito lo status di candidato ufficiale alla membership dell’UE nel 2005, ad oggi i negoziati non sono ancora stati avviati. Le cause dei ritardi sono di doppia natura: da una parte il Consiglio dell’Unione Europea si è di fatto trovato bloccato dal veto greco, dall’altra hanno giocato un ruolo importante determinate caratteristiche del sistema macedone. Il sistema politico risente molto delle divisioni interne: infatti, le maggiori coalizioni, riflettendo la composizione etnica del paese, hanno rappresentato un vero freno all’implementazione delle raccomandazioni della Commissione. Quest’ultime si sono maggiormente incentrate sul rafforzamento della rule of law, sulla lotta alla corruzione e sull’indipendenza della magistratura9. Ultimamente il Consiglio UE aveva riconosciuto gli ottimi miglioramenti realizzati dalla Macedonia in queste aree, infatti era stata presentata una bozza riguardante l’avvio dei negoziati ufficiali al Consiglio Affari Esteri di luglio 2020. Tuttavia, la Bulgaria, nonostante la firma del Trattato di buon vicinato del 2017, ha esercitato il diritto di veto nel novembre successivo, giustificato sulla base di divergenze sull’interpretazione di eventi storici dell’antica regione macedone. Nella Risoluzione del 25 marzo, si legge come il Parlamento Europeo richieda maggiore collaborazione tra le due parti e inviti gli altri Stati membri a “facilitare l’organizzazione della conferenza intergovernativa il prima possibile […] al fine di riconoscere gli sforzi del paese nel processo di adesione […] ed evitare che ulteriori ritardi danneggino i vantaggi della riconciliazione nella regione”10. Montenegro Separatosi dalla Federazione di Serbia e Montenegro con il referendum del 2006, il Montenegro ha riacquistato piena sovranità negli ambiti della difesa e della politica estera, poiché in campo economico e monetario quest’ultimo godeva già di notevole autonomia. Dal 1991 il Montenegro è governato da un solo partito, il Partito Democratico dei Socialisti del Montenegro (DPS), dominato dal co-fondatore Milo Đukanović, eletto cinque volte Primo Ministro e due volte Presidente della Repubblica, e tuttora in carica. Le ultime elezioni si sono svolte nel dicembre 2020 e per la prima volta hanno visto vincitore un indipendente, Zdravko Krivokapić, il cui mandato da Primo Ministro sarà incentrato molto probabilmente sulla lotta alla corruzione, sul consolidamento delle libertà di espressione e di informazione e sul recupero dei rapporti con l’UE. Designato come candidato ufficiale nel 2010, già nel 2012 sono stati avviati i negoziati di accesso, in cui la condizionalità dell’UE si è principalmente concentrata sulla stabilizzazione politica e sull’assimilazione e implementazione delle pratiche democratiche. Analogamente alla Macedonia, il Montenegro è considerato uno Stato contestato, poiché, nonostante il pieno riconoscimento dell’indipendenza, permangono forti attriti con la comunità serba (29% della popolazione) sul concetto di nazionalità montenegrina, sulla lingua ufficiale e sul tipo di relazioni da mantenere con la Serbia11, che rimane quindi molto influente sulla politica montenegrina – in questo caso la contestazione interna e internazionale si sovrappongono. Come si evince dall’ultimo Report della Commissione europea sui progressi del Montenegro, che viene pubblicato annualmente, il Paese è ancora caratterizzato da tensioni politiche e carenza di fiducia sia nell’elettorato, sia tra gli attori politici stessi12. Le questioni che destano maggiori preoccupazioni rimangono l’indipendenza della magistratura e la diffusa corruzione, elementi determinanti per la mancata implementazione delle riforme. Per concludere, la fiducia che il processo possa concludersi positivamente ottenendo la membership dell’Unione Europea è l’elemento fondamentale per la sua riuscita. Protrarre le negoziazioni, o l’impossibilità di avviarle, riduce la tangibilità degli incentivi e dei premi previsti in caso di conformità con le raccomandazioni dell’UE13. Questo ragionamento è stato pienamente ripreso dalle Risoluzioni del Parlamento del 25 marzo, ma ovviamente non è sufficiente. Il Consiglio UE è oggi chiamato a dare risposte concrete e tempestive nell’intera regione balcanica. Il rischio di vedere questi Paesi allontanarsi dall’orbita europea è infatti sempre più alto e rappresenta una minaccia tangibile alla credibilità e alla sicurezza dell’UE. [1] Zweers W., Between effective engagement and damaging politicisation. Prospects for a credible EU enlargement policy to the Western Balkans, Clingendael, Netherlands Institute of International Relations, May 2019, p. 2. https://www.clingendael.org/sites/default/files/2019-05/PB_Western_Balkans_May19.pdf [2] Parlamento Europeo, Testi approvati, 25 marzo 2021 https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/TA-9-2021-03-25-TOC_IT.html [3] https://www.eunews.it/2021/03/25/allargamento-ue-eurodeputati-chiedono-piu-sforzo-stati-membri-tradiamo-le-promesse-nei-balcani-processo-rischio/145328 [4] Conclusioni della Presidenza – Copenaghen, 21-22 giugno 1993 https://www.consilium.europa.eu/media/21223/72929.pdf [5] CeSPI, L’allargamento dell’Unione Europea ai Balcani Occidentali: evoluzioni recenti, stato dell’arte e prospettive, Osservatorio di Politica internazionale, Novembre 2020, n.87, p.5 https://www.parlamento.it/application/xmanager/projects/parlamento/file/repository/affariinternazionali/osservatorio/note/PI0087Not.pdf [6] Džankić J., Keil S., The Europeanisation of Contested States: Comparing Bosnia and Herzegovina, Macedonia and Montenegro, pp. 183-184 in The Europeanisation of the Western Balkans. A Failure of EU Conditionality?, a cura di Džankić J., Keil S., Kmezić M., Palgrave Macmillan, 2019 [7] Džankić J., Keil S., The Europeanisation of Contested States: Comparing Bosnia and Herzegovina, Macedonia and Montenegro, p. 184 [8] CeSPI, L’allargamento dell’Unione Europea ai Balcani Occidentali: evoluzioni recenti, stato dell’arte e prospettive, p.5 [9] Džankić J., Keil S., The Europeanisation of Contested States: Comparing Bosnia and Herzegovina, Macedonia and Montenegro, p. 191 [10] Parlamento Europeo, Risoluzione del Parlamento europeo del 25 marzo 2021 sulle relazioni 2019 e 2020 della Commissione sulla Macedonia del Nord (2019/2174(INI)). https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/TA-9-2021-0114_IT.html [11] Džankić J., Keil S., The Europeanisation of Contested States: Comparing Bosnia and Herzegovina, Macedonia and Montenegro, p. 184 [12] European Commission, Montenegro 2020 Report. https://ec.europa.eu/neighbourhood-enlargement/sites/default/files/montenegro_report_2020.pdf [13] Džankić J., Keil S., The Europeanisation of Contested States: Comparing Bosnia and Herzegovina, Macedonia and Montenegro, p. 188 a cura di Francesca Lenzi Al termine della Guerra fredda, la comunità internazionale fu investita da un nuovo problema connesso alla sicurezza umana: il cambiamento climatico. Durante l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1988, il Presidente dell’Urss Gorbaciov fece un intervento per sottolineare la condizione di criticità che l’essere umano era chiamato ad affrontare: “Il rapporto tra l’uomo e l’ambiente è diventato minaccioso… La minaccia dal cielo non è più un missile, ma il riscaldamento globale”. A distanza di 33 anni e in concomitanza con la celebrazione dei primi cinque anni di vita degli Accordi di Parigi sul clima, la condizione del nostro pianeta non solo è peggiorata, ma si sta rivelando un vero motivo di conflitti armati tra stati per aggiudicarsi le poche risorse naturali essenziali che stanno scomparendo nelle aree più vulnerabili del globo. Uno studio pubblicato su Nature ha riportato come nei prossimi decenni, a causa di un aumento del riscaldamento globale, osserveremo un incremento di circa il 26% dei conflitti armati. Il lago Ciad, risorsa di acqua dolce situato nel mezzo del Sahara, al confine tra Nigeria, Camerun, Niger e Ciad, testimonia chiaramente gli impatti del fenomeno del cambiamento climatico globale e le dirette conseguenze conflittuali, sociali, politiche ed economiche che ha sulla regione. Negli anni '60, esso è stato classificato come il sesto corpo idrico interno più grande del mondo, ma a causa dei lunghi periodi di siccità e dell’innalzamento delle temperature che nella regione aumentano di 1,5 °C rispetto alla media globale, il lago ha visto ridursi drasticamente le sue risorse idriche fino a un restringimento complessivo della sua superficie del 90%. È stato constatato come il degrado ambientale della regione e le forti pressioni climatiche abbiano ridotto la produzione ittica del 60% a causa anche di una biodiversità minacciata dalla desertificazione e dalla deforestazione per poter sfruttare al massimo la terra fertile che delimita il lago. In un panorama caratterizzato da malessere e cattiva gestione delle risorse da parte dei governi in carica, è facile trovare episodi di radicalizzazione favoriti da gruppi come Boko Haram, che alimentano i disordini sociali. Soprattutto dal 2009, si è assistito a un peggioramento della sicurezza causato dalla nascita di diversi violenti conflitti armati tra il gruppo terroristico e le forze armate intergovernative che stanno recando terribili sofferenze alla popolazione civile. Boko Haram ha dichiarato chiaramente gli obiettivi che vuole perseguire nella regione: sovvertire le istituzioni governative per assumere il controllo politico e armato affinché possa gestire in modo illecito le scarse risorse della zona e controllare le zone di commercio con alti profitti. Tuttavia, questa organizzazione terroristica jihadista non svolge solo un ruolo di privazione nei confronti dei locali, al contrario, è stata in grado di sfruttare il divario sociale fornendo risorse che i governi non erogano. Le popolazioni locali, che si vedono rifiutare il permesso dell’uso dell’acqua o delle terre fertili del lago Ciad da parte dei governi, si rivolgono ai gruppi di opposizione anche per ottenere mezzi di sussistenza affinché possano condurre una vita più dignitosa per non dipendere più dagli aiuti umanitari delle organizzazioni internazionali. Questa situazione è solo la conferma di una condizione in cui per decenni, il bacino del lago Ciad è stata una delle regioni più trascurate al mondo a livello ambientale, economico e umanitario. La regione viene controllata da attori non statali perché spesso la popolazione preferisce aderire al reclutamento di questi ultimi per beneficiare di servizi che gli stati sovrani non sono in grado di offrire adeguatamente. Dove manca la fiducia da parte dei cittadini nelle istituzioni, si innescano logiche di conflitti per aggiudicarsi risorse limitate. Ma i conflitti non riguardano solo questi attori. È stato infatti osservato che, negli ultimi decenni, gli episodi di violenza tra persone che utilizzano gli stessi mezzi di sussistenza sono aumentati. Per esempio, le isole del lago Ciad (dove spesso la popolazione non sa a quale giurisdizione statale appartengano) sono al centro delle dispute tra pescatori e pastori per l’utilizzo delle scarse risorse. Come si è constatato, l’acqua e la terra circostante al lago Ciad sono di importanza fondamentali per i locali affinché abbiano la possibilità di svolgere diverse attività di sussistenza e, allo stesso modo, sono considerati il motivo principale di conflitto. Il rapporto ambiente-conflitto indica chiaramente la presenza di un problema di sicurezza legato alla condizione ambientale del lago. Oltre a una riduzione della disponibilità delle risorse naturali che hanno influenzato in modo negativo le attività di agricoltura, pesca e allevamento, bisogna citare anche le ondate migratorie e gli spostamenti interni alla regione causati da una popolazione in continua crescita che non riesce a soddisfare i propri bisogni primari di sostentamento. E’ stato accertato che il cambiamento climatico e le vicende conflittuali interagiscono in un “circolo vizioso” in cui l’impatto del cambiamento climatico alimenta notevolmente successivi rischi e tensioni, mentre i conflitti armati che si generano non danno la possibilità alla comunità locale e internazionale di affrontare in modo esaustivo i pericoli presenti. Questa analisi termina ricordando che la storia non inizia e finisce con il lago Ciad. In tutto il mondo, i conflitti stanno diventando sempre più complessi e protratti, verificandosi in luoghi sempre più colpiti dal cambiamento climatico. Per questo motivo, la comunità internazionale ha la responsabilità di decidere se adottare una politica di prevenzione del rischio per la sicurezza umana e ambientale oppure continuare a condurre lo stesso stile di vita fino a quando sarà la crisi ambientale ad attuare un cambiamento strutturale in modo violento e senza ritorno. ![]()
A cura di Vittorio Ruocco, Programma sulla politica estera italiana
“Gli Stati Uniti non rappresentano il mondo, rappresentano solo il Governo degli Stati Uniti”. È con queste parole che il capo della Commissione Affari Esteri del Partito comunista cinese, Yang Jiechi, ha risposto alle parole introduttive del Segretario di Stato Antony Blinken volte a definire il percorso del vertice bilaterale USA-RPC tenutosi ad Anchorage (Alaska) il 18 e il 19 marzo scorso. Sarà stato il richiamo alla repressione uigura e l’aggressività nei confronti di Hong Kong e Taiwan ad aver irritato la delegazione cinese, adirata principalmente dalla mancata organizzazione di un banchetto congiunto, violando un tradizionale protocollo diplomatico, e dall’impossibilità di effettuare preventivamente un test anti-COVID. A parere della delegazione, è l’onore della Repubblica popolare ad essere stato offeso e l’errore ad averla sottovalutata come interlocutore, aizzando la politica dei “lupi guerrieri”[1] propria dei diplomatici dell’era Xi, con ripercussioni temporali su un insolito scambio di dichiarazioni d’apertura. Malgrado lo scoppiettante dibattito, volutamente svoltosi di fronte ai giornalisti, il primo colloquio sino-statunitense della presidenza Biden ha proseguito a porte chiuse senza particolari impedimenti, dimostrando il valore più comunicativo che sostanziale delle “dichiarazioni iniziali”, rivolte alle proprie opinioni pubbliche interne o ai propri partner, piuttosto che alla controparte. Un ricercato nuovo bipolarismo, da parte statunitense, riaffermato dalle parole del Consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan circa la difesa assoluta dei “nostri principi, dei nostri valori e dei nostri amici”, affermazioni che hanno fatto da contraltare alla provocazione cinese sull’ormai tramontata logica da Guerra fredda. L’acceso teatro era piuttosto prevedibile dopo l’annuncio congiunto di Stati Uniti ed Unione Europea delle sanzioni approvate nei confronti di personalità e organizzazioni cinesi, a seguito delle accuse di persecuzione degli Uiguri e per l’irrigidimento del quadro normativo e repressivo di Hong Kong. Nel caso europeo, si tratta del primo caso sanzionatorio dopo l’embargo sulle armi imposto nel 1989 in occasione di Piazza Tienanmen. Il carattere atlantista del nuovo governo Draghi e il “ritorno” degli Stati Uniti di Biden nell’arena internazionale assegnerebbero a Roma il tradizionale ruolo di portaerei del Mediterraneo, sempre più Paese di confine su una cortina di ferro che ormai sembra dividere l’Occidente dal resto del mondo. Anchorage ha consentito non solo alla Cina di riaffermare la propria sovranità nazionale, ma anche alla diplomazia a stelle e a strisce di enfatizzare il suo rinnovato protagonismo euro-atlantico, richiamando alleati come l’Italia e la Germania a rapporto. Nell’ultimo caso, è stato proprio l’aut aut imposto da Washington sull’ampliamento del gasdotto russo-tedesco Nord Stream 2 ad aver segnato un peggioramento dei rapporti bilaterali, un segnale in cui si estrinseca la divergenza di obiettivi dei due Paesi. Mentre la Germania di Angela Merkel è alla ricerca di gas per la realizzazione della transizione ecologica auspicata dall’European Green Deal, gli Stati Uniti di Biden tentano il recupero di un’azione trumpiana che, diversamente dalla cancelliera tedesca, ha significato la nascita di un importante rapporto con l’ex Presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Ma se prima tra i due Paesi correva più che buon sangue[2], il tiepido sostegno offerto da Conte alla nuova presidenza statunitense non ha favorito un prosperoso dialogo tra la superpotenza e il suo storico alleato, come dimostrato sia dalle congratulazioni del Presidente Conte su Twitter all’indomani dell’esito delle urne «al popolo americano e alle istituzioni», piuttosto che al Presidente eletto, sia dalla tardiva tradizionale telefonata augurale. A ciò si aggiunge anche l’ambigua e prontamente circoscritta[3] apertura italiana alle aziende cinesi nello sviluppo dell’infrastruttura digitale nazionale[4], imponendo al nuovo inquilino di Palazzo Chigi una virata tutta neo-atlantista ed europeista. Potrebbe essere proprio il Belpaese a mediare tra Washington e Pechino? Forse. La diplomazia sembra mantenere la sua funzione principale di confronto tra attori dalle diverse, o addirittura uguali, potenzialità. La nuova Interim National Security Strategic Guidance[5] afferma chiaramente la centralità di un’arte rinascimentale tutta italiana: dal «Diplomacy is back» al «we will lead with diplomacy», gli Stati Uniti puntano al ripristino delle democrazie, all’espansione della prosperità economica e alla promozione di una “favorevole distribuzione di potere”, dando risalto e innovando le alleanze concluse nel mondo. Se il vertice di Anchorage dimostrasse la positiva accoglienza cinese di avvalersi abitualmente di consessi bilaterali e multilaterali, l’Italia potrebbe trovare, in questo frangente, il successo della propria politica estera, grazie alla sua tradizionalmente riconosciuta abilità diplomatica e al convinto attivismo nelle organizzazioni internazionali e regionali. D’altra parte, anche gli Stati Uniti sono alla ricerca di un consolidamento delle istituzioni multilaterali, attraverso cui mantiene ancora un saldo legame con gli alleati. È una chiara dimostrazione di ciò la dichiarazione fatta dai Ministri degli esteri dei Paesi NATO in occasione della due giorni tenutasi a Bruxelles il 23-24 marzo scorso, con la quale i 30 partners si sono espressi in favore di un rafforzamento della dimensione politica dell’organizzazione, l’apertura di «un nuovo capitolo nelle relazioni transatlantiche». Malgrado l’abilità nostrana di mediazione, i terreni di scontro tra Washington e Pechino rimangono numerosi. L’emergenza pandemica sembra aver imposto una battuta d’arresto o di rallentamento alla Belt and Road Initiative cinese, ma lo scioglimento dei ghiacciai artici e le situazioni debitorie dei Paesi africani nei confronti del Dragone rappresenterebbero i contesti adatti per la diplomazia cinese per porsi da protagonista sulla scena internazionale. Il punto d’intransigenza occidentale sono le violazioni dei diritti umani nella regione dello Xinjiang e ad Hong Kong, rispetto alle quali USA e UE hanno dimostrato di volersi esporre inequivocabilmente. Dal 14° piano quinquennale cinese, approvato nella c.d. “Two Sessions” (lianghui) dello scorso marzo, risultano particolarmente interessanti l’esigenza dell’economia cinese di attrarre investimenti stranieri e la maggiore durevolezza degli effetti pandemici sugli indicatori economici piuttosto che su quelli sanitari. In questo quadro, la chiave di volta per l’azione italiana sembra essere la diplomazia economica multilaterale e bilaterale, anche attraverso i canali di un’Unione Europea apertamente schierata con Washington. Inaspettatamente, anche l’ASEAN potrebbe costituire un importante canale di dialogo per questo “triangolo diplomatico”, essendo l’Italia, la Cina e gli Stati Uniti impegnati nello sviluppo della regione Indo-Pacifica, area di forti e future tensioni geopolitiche. [1] Dal celebre film Wolf Warriors 2, la «wolf warriors diplomacy» consiste nell’utilizzare la retorica conflittuale nei dibattiti, discorsi e interviste in cui si critica l’operato della Repubblica popolare cinese, sia sul piano interno che sul piano internazionale. Sebbene molti ritengano sia stata forgiata durante l’emergenza pandemica, la pratica diplomatica ha iniziata ad emergere nel 2017 ed è stata enfatizzata nel corso dell’ultimo anno, in aperto contrasto con la precedente politica estera volta ad evitare conflitti ed a porre l’accento sulla cooperazione. [2] Nei giorni direttamente precedenti alla nascita del governo Conte II, ha destato stupore e perplessità l’inaspettata visita del Procuratore generale degli Stati Uniti William Barr a Roma. Una visita, preparata all’ombra dei protocolli diplomatici, il cui motivo potrebbe essere l’azione dei servizi di intelligence nell’ambito del Russiagate a danno del Presidente Trump. Tuttavia, l’intervento di Barr pare aver influenzato anche le mosse di Palazzo Chigi e degli 007 italiani. [3] Il decreto-legge n. 22/2019 ha introdotto la disciplina relativa all’esercizio del “Golden Power” nel campo della telecomunicazione elettronica a banda larga con tecnologia 5G, mentre il decreto-legge n. 105/2019 ha istituito il «Perimetro di sicurezza nazionale cibernetica». [4] Al 2019, Huawei vantava accordi con importanti aziende a partecipazione statale come Terna, Enel, Fastweb, Ferrovie dello Stato, Telecom e Poste Italiane. Inoltre, gli investimenti della società cinese si concentravano a Milano-Segrate, a Bari-Matera e a Pula (CA), aree nelle quali l’attività militare NATO è particolarmente attiva. V. Gabbanelli M. e Marinelli A., 5G: in Italia la rete strategica è in mano alla Cina, mentre l’Europa si defila, «Corriere della Sera» in Dataroom, 10 febbraio 2019. URL: 5G: in Italia la rete strategica è in mano alla Cina, mentre l’Europa si defila | Milena Gabanelli - Corriere.it [5] La Interim National Security Strategic Guidance è un documento, elaborato dal neo-Presidente Biden nel marzo di quest’anno, che sembra annunciare la pubblicazione della tradizionale National Security Strategy (NSS), stilata periodicamente da ogni governo degli Stati Uniti. La NSS contiene una discussione sugli interessi internazionali, gli impegni, gli obiettivi e le politiche degli Stati Uniti nel mondo, insieme alle capacità di difesa necessarie per scoraggiare le minacce e implementare i propri piani di sicurezza. Per consultare le precedenti versioni: National Security Strategy (defense.gov) a cura di Elena Giudice Belt and Road Initiative (BRI o B&R) è generalmente definita come un massiccio progetto di investimenti e di sviluppo infrastrutturale, con data di ultimazione fissata per il 2049 (simbolicamente corrispondente ai 100 anni della Repubblica Popolare Cinese). Il progetto conta ad oggi come firmatari oltre 138 paesi e 29 organizzazioni internazionali. Lanciata dal presidente Xi Jinping nel 2013, l’iniziativa continua ad essere insistentemente promossa all’estero come uno sforzo di “joint prosperity”, “mutual cooperation” o “win-win strategy”, con l’obbiettivo di veicolare un’immagine positiva del gigante asiatico e (in linea con il proprio programma di politica interna, riassunto nel termine “Zhongguo meng”) di fargli riacquistare la propria centralità ed il proprio ruolo di snodo negli scambi internazionali. Questo obbiettivo si traduce concretamente in un’intensificazione del commercio e nella creazione di una rete di connessioni tra paesi (ad oggi principalmente realizzata tramite accordi bilaterali), coprendo prevalentemente l’ambito infrastrutturale, con ingenti investimenti sui progetti di mobilità locale, ma anche marginalmente quello culturale, con programmi di training, borse di studio e altri tipi di finanziamento per la formazione erogati dal governo della Repubblica Popolare. È inoltre interessante osservare come nel tempo sia emersa (dalla parte cinese) una tendenza a “brandizzare” il proprio approccio di politica estera, raggruppando sotto l’unico ombrello della Silk Road tutti i progetti con target straniero, da qui nomi come Maritime Silk Road, Digital Silk Road, Space Silk Road, Polar Silk Road e Green Silk Road. In particolare, il termine Green BRI o Green Silk Road figura formalmente per la prima volta nel 2017, nella pubblicazione delle linee di "Guidance on Promoting a Green Belt and Road" del Ministero dell’Ecologia e dell’Ambiente della Repubblica Popolare Cinese. Ciò si accompagna ad una serie di azioni (adesione ai Sustainable Development Goals definiti dalle Nazioni Unite, ratifica dell’accordo di Parigi) mirate a rassicurare i paesi esteri sulle intenzioni e sull’operato cinese, garanzie che si rendono sempre più necessarie da quando, in anni recenti, i primi effetti negativi legati all’implementazione dei progetti d’investimento ed infrastrutturali cinesi hanno iniziato ad essere palesi. Difatti, diversi sono gli studi emersi sulle possibili implicazioni che una vasta adesione alla Belt and Road comporterebbe. Tra i principali problemi e dubbi sollevati vi è certamente la paura che, nonostante il progetto sia stato presentato come promotore di cooperazione, questo possa in realtà causare una crescente dipendenza economica dal gigante asiatico, una minaccia alla sicurezza nazionale dei paesi coinvolti (anche se in questo senso, il principale interesse geopolitico cinese sembra attualmente essere l’area del Mar Cinese Meridionale), il rischio di cadere nella trappola del debito così come è già avvenuto per molti paesi africani, il sospetto che si generi una competizione scorretta sul lungo termine e soprattutto l’insostenibilità ambientale e sociale che deriverebbe dall’implementazione dei progetti. Tali timori peraltro sono anche stati supportati da diversi esempi concreti di impatto negativo di alcuni investimenti B&R, come nei casi di Sri Lanka, Malaysia, Myanmar, Nepal e Montenegro. Studi più specifici hanno anche evidenziato l’effetto dei suddetti investimenti in determinati contesti geografici e sono di particolare interesse perché fungono da proiezione per identificare i possibili esiti futuri degli stessi in altre aree. Tra gli effetti emergono ad esempio: la trasformazione dell'ambiente locale (intesa anche come rilocazione pianificata di animali ed habitat); la distruzione del contesto urbano e sociale locale (che porta ad esacerbare fenomeni già esistenti in loco di attivismo); la realizzazione di progetti troppo lussuosi ed esclusivi per la popolazione esistente; i rischi per la salute pubblica, intesi come scarico di rifiuti pericolosi in aree vicine ad abitazioni, scuole, parchi giochi (con particolare riferimento al caso del porto del Pireo), e progetti che quindi complessivamente avvantaggiano solo gli investitori o, usando le parole dell'autore dello studio qui citato, portano a “dare priorità ai profitti di privati, agli interessi di aziende e multinazionali anziché alle infrastrutture di riproduzione sociale”. Tuttavia, a sedare l’evidente sfiducia sempre più diffusa e a rispondere agli episodi di scarsa responsabilità sociale d’impresa associati a progetti B&R, nel 2017 è arrivato l’annuncio della “Green Belt Road” o “Green Silk Road”. Modellatosi sulla politica domestica di raggiungere una “civilizzazione ecologica”, questo emerge come tentativo di adattarsi “al trend internazionale di ricercare uno sviluppo green, low-carbon e circolare” e più ampiamente di regolamentare le attività cinesi all’estero con lo scopo di renderle più sostenibili. Le argomentazioni avanzate dai ricercatori in merito alla possibilità di una Green BRI sono principalmente due: da un lato la si ritiene un progetto chiave nel supporto dei SDG ed un’opportunità di finanziamento per molte nazioni per raggiungere gli obbiettivi dell’accordo di Parigi; dall’altro, non si può negare che si tratti comunque di una colossale iniziativa per la realizzazione di infrastrutture, e si fa notare come la maggior parte dei suoi progetti in campo energetico sia ancora saldamente legata all’impiego dei combustibili fossili. Inoltre, da un punto di vista di governance, nel corso del tempo si è assistito ad un fiorire di politiche e di linee guida specificamente redatte per la BRI da parte di autorità governative, associazioni industriali, network di aziende, tutte caratterizzate da una narrativa fortemente ambientalista della Silk Road. A queste si sono poi anche aggiunte delle linee guida più generiche prodotte da agenzie governative cinesi che mirano a supervisionare le attività d’investimento cinesi all’estero promuovendo la protezione ambientale. Linee guida simili sono anche state prodotte nell’ambito finanziario con lo scopo di promuovere delle pratiche bancarie più sostenibili e dunque segnalare l’impegno del paese a favore della “green finance”. Tuttavia, resta evidente come tutti i documenti prodotti condividano la stessa natura di pubblicazioni non giuridicamente vincolanti, elemento non trascurabile, che li porta ad essere più assimilabili a “vision statements” o a strumenti volontari, d’incoraggiamento, piuttosto che ad effettivi strumenti di regolamentazione. Dunque, secondo quanto detto, allo stato attuale la Belt and Road Initiative non può essere definita sostenibile o promotrice di una transizione green: i passi mossi fino ad ora in questo senso sembrano prevalentemente di natura programmatica, mentre dal punto di vista di implementazione pratica i risultati tardano ad arrivare. Ciononostante, nel caso in cui venissero prodotti dei regolamenti giuridicamente vincolanti a controllo e supervisione dell’impatto dei progetti B&R, questi avrebbero un grande potenziale per diventare motore di una transizione verde globale efficace. Sorge poi una seconda questione: la stessa percezione del concetto di sostenibilità, così come inteso dalla parte cinese, potrebbe non essere interamente assimilabile al modo occidentale di concepirla, dunque anche questo potrebbe portare all’emergere di problematiche nell’implementazione di progetti “green” condivisibili in futuro. ![]()
A cura di Elisabetta Crevatin e Marco Monaco, Osservatorio sull'Unione europea
Il 26 febbraio si è tenuta la seconda sessione della videoconferenza tra i membri del Consiglio europeo, avviata nella giornata precedente. In questa occasione, i capi di governo degli stati membri dell’Unione europea (UE) ed il presidente Charles Michel hanno discusso principalmente tematiche relative all’ambito di sicurezza e difesa dell’UE. [1] Un tema particolarmente rilevante è stata la cosiddetta Autonomia Strategica dell’Unione. Dalle dichiarazioni dei membri del Consiglio europeo emerge infatti “l’impegno ad attuare l'agenda strategica 2019-2024 perseguendo una linea d'azione più strategica e rafforzando la capacità dell'UE di agire in modo autonomo”. [2] Questo tema, per quanto efficace in termini comunicativi, rimane ad oggi piuttosto controverso. Lungi dal rappresentare un sinonimo di “autosufficienza” o “indipendenza”, secondo Nathalie Tocci, direttore dell’Istituto Affari Internazionali, l’idea di autonomia strategica può essere ricondotta alla capacità dell’UE di perseguire i propri interessi strategici rispettando le proprie norme interne.[3] Inizialmente, questa nozione è stata elaborata nel 2013 con specifico riferimento alla sicurezza e difesa dell’Unione. Tuttavia, il concetto è stato recentemente ampliato dall’attuale presidentessa della Commissione Europea Ursula von der Leyen in occasione della sua elezione al Parlamento Europeo nel luglio del 2019 e successivamente durante la presentazione del suo programma a novembre dello stesso anno. In tali occasioni sono state presentate le priorità della nuova Commissione Europea, comprendendo tra gli elementi fondamentali per il perseguimento dell’autonomia strategica e di una leadership globale anche la sfera economica, energetica, climatica e digitale. [4] Sebbene l’Autonomia Strategica abbia di recente assunto un carattere multisettoriale, che dunque abbraccia quasi ogni ambito della governance europea, non bisogna dimenticare come la sua natura sia fondamentalmente legata alla sicurezza. Non a caso, la recente dichiarazione dei membri del Consiglio europeo è stata elaborata durante la sessione dedicata a sicurezza e difesa. Storicamente, la percezione della necessità che l’UE acquisisse una certa capacità di azione autonoma si è infatti diffusa parallelamente all’idea di un’Unione capace di agire in qualità di attore di sicurezza, difesa e politica estera. A tal proposito, uno degli elementi più importanti (e controversi al tempo stesso) riguarda la relazione dell’Unione con la NATO, la quale rappresenta una delle principali ‘aree di tensione’ che caratterizzano l’Unione Europea fin dalla sua nascita, responsabile in parte dell'incapacità europea di acquisire una concreta autonomia in termini di sicurezza e difesa. Nel corso della Guerra Fredda, solidarietà atlantica e integrazione europea hanno infatti rappresentato due percorsi alternativi, percepiti come inconciliabili nell’ambito della sicurezza. L’impareggiabile preponderanza militare americana e la corrispondente debolezza europea, unite alla percepita minaccia sovietica, resero, infatti, la garanzia securitaria da parte degli Stati Uniti una scelta obbligata per la stabilità dell’UE.[5] A cavallo del secolo, in risposta alla frustrazione generata dalla sua impotenza nell’ambito della sicurezza, l’Unione Europea è stata in grado di superare la tensione tra integrazione europea e solidarietà atlantica, consolidando alcune nuove capacità operative con l’obiettivo di perseguire i propri interessi strategici (in primis la facoltà di intervenire autonomamente nelle crisi del proprio ‘vicinato’). Ad inaugurare questo processo, successivamente allo scoppio della crisi in Kosovo nel 1998, è stata la dichiarazione di Saint-Malo da parte dei governi di Francia e Regno Unito, che ha permesso di riportare in primo piano la necessità, per l’UE, di agire in modo autonomo, supportata da capacità operative civili e militari credibili. [6] Tale fenomeno ha a sua volta rafforzato il rapporto NATO-UE, in quanto entrambe le organizzazioni si sono trovate davanti a sfide comuni dalle quali è scaturita una necessità di cooperazione. Se l’Unione Europea è sicuramente più preparata nel gestire attacchi cyber, crisi migratorie e scenari in cui è richiesto l’utilizzo del soft power, la NATO rimane guardiana della sicurezza territoriale europea. [7] A prova di ciò, le risorse militari dell’Unione Europea sono nettamente inferiori a quelle della NATO, ma l’UE è dotata di organi quali EUROPOL ed EUROJUST che sono specializzati nel gestire minacce ibride concernenti giustizia transfrontaliera e cyber security, maturando quindi un’abilità nel gestire tali problematiche che manca all’Alleanza Atlantica.[8] La complementarità delle loro expertises ha portato all’intensificazione dei rapporti tramite iniziative quali la creazione del pacchetto di accordi “Berlin Plus” (2003) e la dichiarazione congiunta NATO-UE (2016). Se quest’ultima ha rimarcato il fatto che le due organizzazioni sono partner strategici, gli accordi di Berlino sono stati siglati nello stesso periodo in cui l’allargamento ad Est alterava la natura fino ad allora occidentale dell’Unione Europea. Il loro principale scopo è stato quello di incoraggiare la condivisione delle risorse NATO con l’UE in modo da gestire le sfide geopolitiche in Europa. [9] Un chiaro esempio della loro sinergia è l’Operazione EUFOR Althea in Bosnia, in cui le truppe europee hanno utilizzato le risorse NATO nell’ambito del “Berlin Plus”. [10] Grazie a quest’ultimo, infatti, l’UE ha accesso alle risorse di pianificazione NATO, a parte delle sue informazioni classificate, e come nel caso bosniaco, anche al suo personale. [11] L’attuale cooperazione marittima tra l’Operazione UE IRINI e quella NATO MARCOM, volta a sconfiggere la pirateria illegale nel Mediterraneo, è un altro esempio che sottolinea le opportunità di collaborazione tra le due. [12] Il rafforzamento dell’Unione Europea nell’ambito della difesa ha inoltre la potenzialità di assecondare la richiesta americana di presa di responsabilità dei Paesi in Europa sulla loro sicurezza. [13] Numerosi esponenti della classe dirigente americana, quali Donald Trump, Bernie Sanders e Robert Gates, hanno sottolineato come gli stati europei non contribuiscano abbastanza alla loro difesa territoriale tramite la NATO. [14] Implementare ulteriormente i progetti PESCO, il fondo Europeo per la Difesa e l’annuale CARD, quindi, controbilancia l’asimmetria esistente tra UE e Stati Uniti, e segnala a questi ultimi che l’Europa sta gradualmente diventando più forte. [15] Tuttavia, l’autonomia strategica porta con sé delle problematiche quali la competizione NATO-UE per le risorse strategiche, in quanto entrambe le organizzazioni si affidano per la maggior parte allo stesso gruppo di stati membri. [16] La reticenza dei Paesi europei a contribuire finanziariamente alla NATO solleva però dubbi sulla loro capacità di sopperire alle esigenze economiche della Difesa Comune europea (CSDP). [17] Inoltre, gli stati membri hanno dimostrato in più occasioni un orientamento discordante riguardo all’autonomia strategica: se la Francia è stata spesso la sua più vocale sostenitrice, gli stati Baltici e dell’Est Europa continuano ad affidarsi alla NATO in materia di sicurezza. [18] Infine, la competizione tra Paesi che fanno parte dell’UE ma non della NATO, come Cipro, e il caso inverso, ovvero la Turchia, inasprisce tale competizione e rallenta le comunicazioni tra le due organizzazioni. [19] Tali sfide, però, non devono frenare il proseguimento del progetto di autonomia strategica europea, in quanto questo ha portato al rafforzamento del rapporto NATO-UE, tramite incontri biennali, operazioni terrestri e marittime, e simulazioni congiunte. [20] La stabilizzazione del vicinato europeo e la mobilità militare in Europa richiedono una risposta coerente e comune da parte sia della NATO che dell’UE. [21] L’agenda strategica 2019-2024 menzionata dal Consiglio europeo sembra quindi un buon trampolino di lancio per l’implementazione di tali obiettivi, nonché per il rafforzamento dell’autosufficienza dell’Unione Europea e il bilanciamento rispetto alla NATO.
A cura di Lorenzo Giordano, Programma sulla politica estera italiana
Il 25 marzo i Ministri degli Esteri dei tre Paesi europei maggiormente impegnati sul fronte libico – Italia, Francia e Germania – e rispettivamente, dunque, Luigi Di Maio, Jean-Yves Le Drian e Heiko Maas hanno incontrato a Tripoli gli esponenti del nuovo governo di unità nazionale, tra cui il Primo Ministro ad interim Abdulhamid Dbeibeh e il loro omologo Najlaa al-Manqoush, membri dell’esecutivo recentemente insediatosi, appoggiato dal voto di fiducia del Parlamento riunificato, che avrebbe il compito di condurre il Paese verso le elezioni parlamentari e presidenziali fissate per il prossimo 24 dicembre. Un governo nominato lo scorso febbraio a Ginevra da un gruppo di rappresentanti libici nell’ambito del Forum di Dialogo politico libico (LPDF), uno strumento negoziale, sotto egida ONU, istituito durante la conferenza di Berlino del gennaio 2020. Nel corso della missione congiunta, i capi dei dicasteri degli esteri di Roma, Parigi e Berlino hanno espresso con un’unica voce, quella europea, il pieno supporto al nuovo governo di unità nazionale e ribadito la volontà da parte dell’Unione di ritornare in Libia e sostenere Tripoli in un complesso processo di stabilizzazione i cui presupposti dovranno poggiare sul rispetto dei diritti umani e sul ritiro dei mercenari e delle forze straniere ancora presenti all’interno del Paese. Gli obiettivi, nell’immediato, vertono sul rilancio delle attività economiche, in particolare produzione ed esportazione di gas e petrolio, e sul dossier immigrazione, ancora in mano ad organizzazioni criminali. Si tratta di un passo cruciale per Tripoli, sconquassata da quasi dieci anni di conflitto, a seguito della caduta dell’ex regime di Muammar Gheddafi e dell’intervento esterno a guida NATO del marzo 2011. La transizione post-Gheddafi mise in luce la polarizzazione delle forze politiche tra un fronte “laico” e un fronte “rivoluzionario-islamista”, favorita da una crescente tensione nel contesto internazionale tra i sostenitori dell’islam politico – Turchia e Qatar – e le forze conservatrici – Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti ed Egitto. Il conflitto è stato altresì esacerbato dalla divisione interna tra il Governo di Accordo Nazionale (GNA), guidato da Fayez al-Sarraj, e il Parlamento e l’esecutivo di Tobruk, che facevano capo alle milizie del generale dell’Esercito Nazionale Libico (LNA), Khalifa Haftar, in controllo della Cirenaica (regione libica orientale), in opposizione alle milizie associate di Misurata e Tripoli nell’Ovest del Paese. Inoltre, la Libia veniva a riprodurre il terreno di scontro in cui si riverberavano, e si riverberano ancora, le proiezioni mediorientale e mediterranea di Russia, a sostegno di Haftar, e Turchia, principale alleato del GNA – come testimonia l’Accordo di Tripoli, firmato il 17 agosto 2020, per la cooperazione trilaterale in campo militare tra Libia, Turchia e Qatar. Un accordo che prevedeva la concessione da parte di Tripoli ad Ankara del porto di Misurata come base militare per le navi militari operanti nel Mediterraneo Orientale e l’uso, da parte dell’aviazione militare turca, della base aerea di al-Watya, nella Tripolitania Occidentale. Era stato proprio l’appoggio militare della Turchia ad impedire ad Haftar di conquistare Tripoli, a seguito della sua offensiva lanciata nell’aprile 2019. Fino ad arrivare all’accordo per il cessate il fuoco firmato a Ginevra lo scorso ottobre tra le delegazioni libiche rivali, nel quadro del Comitato militare congiunto 5+5. La riunione collegiale del 25 marzo ha rimarcato la necessità per la Libia di riottenere piena sovranità: uno scenario su cui pesano la fragilità dell’attuale governo di unità nazionale, l’incertezza circa le future iniziative sul piano operativo da parte di Haftar, che controlla l’est del Paese, e la poco realistica marginalizzazione del ruolo del generale in ottica riunificazione delle forze armate. Malgrado ciò, Haftar avrebbe fornito segnali di apertura al nuovo esecutivo, autorizzando ad esempio l’attracco di navi mercantili battenti bandiera turca, le quali potranno approdare nei porti libici orientali, tra cui Bengasi, posti sotto il controllo dell’LNA. La visita si è svolta due giorni dopo la proroga fino al marzo 2023 da parte del Consiglio europeo, nell’ambito della Politica di sicurezza e difesa comune, del mandato dell’operazione militare aeronavale EuNavFor-Med “Irini”, che sarà guidata dal contrammiraglio Stefano Frumento e dispiegata nel Mediterraneo per assicurare il rispetto dell’embargo sulle armi imposto nel 2011 dalle risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’ONU nei confronti della Libia. Tuttavia, concepire puramente tale visita come un segnale di unità dell’UE a Tripoli e, parallelamente, non guardare ai singoli attori potrebbe essere fuorviante. Infatti, i ministri degli Esteri di Italia, Francia e Germania si fanno portatori, in prima istanza, degli interessi di tre Stati sovrani dotati di un peso geopolitico specifico che trascende la matrice sovranazionale europea. L’Italia, per via della sua posizione naturale, ha notevoli interessi nel quadro della cooperazione mediterranea legati all’approvvigionamento energetico, alla gestione dei flussi migratori, alle crisi interne e internazionali e ai rapporti economici in primis con la Libia, uno dei primi fornitori di petrolio e gas italiani che, nel 2018, ha rappresentato il 16% della produzione di idrocarburi complessiva di ENI. Sul piano geopolitico, la perdita di influenza di Roma sulla sua ex “quarta sponda” ha favorito forti penetrazioni estere, configurazioni di posture nazionali assertive, tra cui quella di Ankara, la cui cooperazione con Tripoli si realizza non soltanto sul fronte interno libico ma si proietta nel più ampio teatro geostrategico del Mediterraneo Orientale. L’Italia vuole tornare ad essere il primo interlocutore libico, come dimostra la visita a sorpresa di Di Maio – primo tra i ministri Ue a essere ricevuto dal nuovo governo – in un vertice con il premier Abdulhamid Dbeibeh il 21 marzo. In secondo luogo, la strategia italiana in Libia si è scontrata con quella francese. Una politica francese improntata all’interventismo, evidente nel 2011, anno in cui Parigi favorì la caduta del regime di Gheddafi. Dato il suo passato coloniale nella regione del Maghreb, l’area è considerata dalla Francia un hotspot di primario interesse nazionale. Parigi ha approfittato della mancanza di una linea esecutiva e politica coerente dell’Italia per affermarsi come leader della pacificazione libica, puntando sul generale Haftar. A ciò si aggiungono gli interessi energetici: dalla primavera del 2018 Total, la principale azienda energetica francese, è tornata a muoversi nel Paese, con acquisizioni e partecipazioni societarie che hanno portato la produzione francese in territorio libico a 4,1 milioni di tonnellate di greggio nel 2019. Dal punto di vista strategico, invece, qualora l’accordo per il cessate il fuoco dovesse perdurare e la fase di transizione portare ad un’effettiva stabilità, i francesi potrebbero rivolgere la loro attenzione nei confronti della Tripolitania, dal momento che la Cirenaica sembrerebbe soggetta prevalentemente agli interessi russi ed emiratini. Infine, la Germania, che occupa una posizione secondaria nel Nordafrica rispetto ai suoi partner europei, intende conquistare una rilevante fetta di mercato attraverso la creazione di fondi per promuovere gli investimenti delle piccole e medie imprese tedesche nei progetti di ricostruzione libici. Inoltre, questione di primo piano, Berlino vuole a tutti i costi scongiurare una crisi migratoria, simile a quella del biennio 2015-16, che possa ripercuotersi sulla stabilità del territorio tedesco. La Libia, infatti, costituisce un Paese di transito per gli immigrati provenienti dall’Africa subsahariana e diretti in Europa, e una sorta di Paese “cuscinetto” a cui delegare competenze in materia di pattugliamento delle coste. A cura di Matteo Barbanera, Programma sulla politica estera italiana
I primi elementi delle truppe italiane sono arrivati in Mali il 12 marzo 2021, precisamente nella città di Gao, vicino alla frontiera con il Burkina Faso, pronte a prendere parte alla Task Force Takuba. Takuba è una missione internazionale di Forze speciali a guida francese, voluta dal Presidente Macron nel gennaio 2020, che opera nel Sahel (tra Mali, Niger e Burkina Faso), e che vede coinvolti 13 Paesi europei: oltre a Francia e Italia, forniscono Forze speciali alla missione anche Estonia, Danimarca, Portogallo, Svezia, Repubblica Ceca, Belgio e Paesi Bassi mentre Germania, Gran Bretagna e Norvegia hanno espresso il loro sostegno politico. L’obiettivo è quello di addestrare le forze armate locali e di supportarle nel controllo dei propri territori al fine di contrastare i fenomeni di terrorismo, traffico illecito e guerriglia. La missione si basa sulla risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite 2359 del 2017. Takuba si inserisce all’interno di una più ampia strategia di stabilizzazione del Sahel da parte di Parigi, iniziata con l’operazione Serval, attraverso la quale la Francia era riuscita nel 2013 a riconquistare la parte nord del Mali dalle truppe islamiche, e continuata poi con l’operazione militare Barkhane, lanciata il 1° agosto 2014 e tutt’ora in corso. L’obiettivo di Barkhane è quello di assicurarsi che i governi dei Paesi del Sahel mantengano il controllo dei propri territori così da evitare lo sviluppo e l’infiltrazione di forze terroristiche in quelle aree. Non è un caso che questa regione abbia acquisito negli ultimi anni una sua identità strategica grazie alla formazione del cosiddetto G5 Sahel, che comprende i governi di Mali, Mauritania, Niger, Ciad e Burkina Faso, formatosi proprio nel 2014, contemporaneamente alla missione militare francese. La stabile collaborazione dei Governi del Sahel nel campo anche della sicurezza è un utilissimo supporto su cui la Francia e gli altri Paesi presenti aderenti alla Task Force Takuba possono contare per il contrasto e la lotta alla variegata rete di gruppi jihadisti presenti nella regione. Invano Parigi aveva cercato di coinvolgere altri attori internazionali nella missione Barkhane. Da qui nasce, alla fine del 2019, la necessità di una missione supplementare che poi si è concretizzata proprio nella Task Force Takuba dopo il vertice di Pau tra la Francia e i capi di governo dei Paesi del G5 Sahel, il 13 gennaio 2020. La partecipazione italiana alla Task Force è stata invece concordata dallo stesso Macron con l’allora premier Giuseppe Conte durante il vertice bilaterale del 27 febbraio 2020, a Napoli. La presenza italiana nell’operazione Takuba è stata poi approvata nella primavera dello scorso anno, con il cosiddetto “Decreto Missioni 2020”, che prevede la partecipazione italiana con un dispiegamento di circa 200 uomini delle Forze Speciali, 20 mezzi terrestri e 8 velivoli. È una missione di grande interesse nazionale poiché contribuire alla stabilizzazione del Sahel, significa contrastare attivamente fenomeni, quali il traffico di essere umani, il terrorismo e la radicalizzazione, le cui conseguenze impattano la sicurezza e la stabilità del Mediterraneo. Questa operazione si aggiunge alla missione bilaterale di supporto nella Repubblica del Niger (MISIN), attiva dal 2017, che vede la presenza italiana con quasi 300 soldati in territorio nigerino. Il Ministro della Difesa Lorenzo Guerini, in un’intervista al quotidiano Repubblica, ha parlato dell’impegno italiano in Sahel da intendersi come complementare con quello in Libia, nel Corno d’Africa e nel Golfo di Guinea. Un’unica area di crisi, dunque, in cui l’interesse securitario nazionale non solo è strategico ma sembra essere quasi prioritario per l’Italia. La regione del Sahel è un’area vasta caratterizzata da forti tensioni, sociali e politiche, all’interno di Stati deboli che non hanno un controllo capillare sul territorio, con confini porosi tra i vari Paesi. Proprio la combinazione tra ampiezza del territorio e difficoltà nel controllarlo, rende questa regione un scenario ideale per la formazione e l’azione di gruppi legati al terrorismo islamico, che si traduce in traffici illeciti, sfruttamento dell’immigrazione clandestina e contrabbando di armi. I gruppi maggiormente attivi sono: Jama’at Nusrat al-Islam wal-Muslimin (JNIM), ma anche al- Qaeda nel Magreb islamico (AQIM), Ansar al-Dine (AAD), e il Macina Liberation Front, oltre a ciò che resta dello Stato Islamico. Negli ultimi sei mesi la regione è stata testimone di una rapida escalation violenta, confermando la sensazione che la semplice militarizzazione dell’area non sia la panacea a tutti i mali. A tal proposito, appare utile, ricordare il terribile attentato di domenica 21 marzo 2021 nella regione di Tahoua, in Niger, al confine col Mali. Ben tre villaggi sono stati attaccati in poche ore da un gruppo di jihadisti che hanno sparato all’impazzata sui civili indifesi, mietendo complessivamente ben 137 vittime, 22 dei bambini. Sebbene per l’Italia la missione non sia affatto semplice da un punto di vista operativo, considerando il rischio che comporta una mancanza di esperienza e di conoscenza del teatro operativo, la Task Force si inquadra però in una strategia assolutamente coerente con gli obiettivi nazionali. Non a caso l’Italia partecipa schierando il secondo contingente più numeroso dopo quello francese, composto da forze altamente specializzate, e questo non solo perché, come si diceva prima, ci si aspetta di stabilizzare e rafforzare un’area caratterizzata da forti tensioni, ma anche per un ritorno strategico nel più vicino scenario libico. La Francia ha avuto nel tempo un comportamento ambiguo se non addirittura ostile agli interessi italiani in Libia, e il supporto di Parigi al complicato percorso di transizione che porta Tripoli alle elezioni di dicembre del 2021 sarebbe sicuramente importante. a cura di Margherita Orsi Il vaccino Sputnik V, da mesi in orbita attorno agli stati dell’Unione, approderà su suolo italiano. La notizia già desta sentimenti contrastanti. Il fondo russo finanziatore del vaccino, il Russian Direct Investment Fund, e la casa farmaceutica italo-svizzera, la Adienne Pharma&Biotech, con sede vicino a Monza, hanno siglato un accordo per la produzione di 10 milioni di dosi entro la fine dell’anno. L’Italia, dunque, non solo rientrerebbe tra i sedici realizzatori mondiali, ma si appresta ad essere la prima produttrice in Europa. Si tratta di un contratto privato, mediato dalla Camera di Commercio italo-russa, ma che non vede un coinvolgimento diretto ed un aperto benestare né da parte del governo nazionale, né tanto meno da parte delle istituzioni europee. Proprio queste hanno chiosato l’affare parlando di “roulette russa", e fomentando l’irritazione di Mosca. In un clima di profonda incertezza e polemica pressante, dunque, il già di per sé scottante dibattito vaccinale viene ulteriormente surriscaldato da una nuova intesa commerciale. Ma perché l’approdo di Sputnik V solleva tante critiche e sospetti? In molti si appellano al quadro nazionale russo. Ad oggi infatti, le dosi somministrate sui territori della Federazione sono pari solamente al 5,28% rispetto all’intera popolazione: parliamo circa dell’1,48% di persone vaccinate sul totale disseminato di abitanti. Si tratta di dati a prima vista scoraggianti, se si considerano l’approvazione del siero da parte del Cremlino nell’agosto scorso ed i trascurabili problemi di logistica e produzione interni. Dinnanzi a quello che pare dunque un chiaro tentennamento da parte dei cittadini, l’ambasciatore russo a Roma Serghei Razov, tuttavia, rassicura e ridimensiona quei numeri che stentano a decollare: la lentezza della campagna di somministrazione è dovuta all’architettura del piano vaccinale stesso, che prevede prima le iniezioni di vaccino antinfluenzale e anti-pneumococco. A sostegno dei diffusi scetticismi non corrono in aiuto neppure le cifre di lancio di Sputnik V: la rivista Lancet lo ha infatti dichiarato efficace al 91% (contro il 70-90% di AstraZeneca), dal costo contenuto (6,5$ contro i 12$ di Pfizer) e dalla conservazione agevole. Di fronte all’imminente sospensione di AstraZeneca ed ai paventati ritardi di consegna di Johnson&Johnson, rallentamenti entrambi che vanno a minare il piano vaccinale del neonato governo Draghi, l’arrivo di Sputnik dovrebbe quantomeno suonare come buona notizia. Si parlerebbe inoltre di produzione controllata sul territorio, di agevolazione nell’approvvigionamento di scorte e di eccezionale creazione di posti di lavoro in un momento di chiusure generalizzate. Eppure, i campanelli che suonano sono solo di allarme. Se l’EMA, l’Agenzia europea per i medicinali, iniziata la rolling review, sta ritardando l’approvazione del siero - per quanto, stando alle indiscrezioni di inizio settimana, parrebbe star ritrattando il piano vaccinale europeo e non escluderebbe in extremis un possibile ricorso al vaccino russo, gli ostacoli e le perplessità sono anzitutto politiche. E Charles Michel, presidente del Consiglio europeo, lo dice chiaramente, “non dovremmo lasciarci ingannare da Cina e Russia, regimi con valori meno desiderabili dei nostri”. Tatiana Stanovaya, analista, coglie il nucleo della questione: “se decidi di acquistare il vaccino russo, sembra che tu stia investendo o approvando i metodi del governo di Putin […]; accanto al lato più prettamente tecnicoscientifico, prevale il dato politico: Sputnik V fa discutere perché è russo”. Se commerciare con un paese può comportare una forma di appoggio politico, è opportuno fare chiarezza con alcuni dati alla mano. Nel 2019, le importazioni in Italia provenienti dalla Russia sono state pari a circa 16 miliardi di dollari, contro i 19 miliardi provenienti dagli Stati Uniti. Si tratta di uno scarto minimo, soprattutto se paragonato a quello di altri paesi europei, che riportano cifre dimezzate nel caso dell’import russo e, di contro, dati triplicati per l’import americano. In questo senso, dunque, l’Italia non sarebbe nuova ad importanti affari commerciali con la Federazione né di conseguenza dovrebbe sussistere il rifiuto nazionale di Sputnik come segno di dissenso verso il regime di Putin. Nonostante i flussi commerciali mostrino una sorta di distensione nei rapporti italo-russi, la mai dissipata ambiguità nei rapporti tra Europa e Federazione impedisce ancora oggi, pur in un momento di drammatica emergenza, di operare le dovute distinzioni. In un clima di rinnovata ed apparente Guerra Fredda, l’Europa si aggrappa allo storico alleato americano e temporeggia sul siero che sta al di là della cortina di ferro. Fratture politiche e reminiscenze di un passato oramai lontano paiono sottovalutare la pandemia contingente, che tuttavia continua a diffondersi, noncurante di governi in carica e posizioni ideologiche. Al netto di eventuali scetticismi tecnico-scientifici e della sostanziale equivalenza tra vaccini, la rimarcata diffidenza nei confronti della Russia indebolisce il piano vaccinale europeo, ad oggi non sufficientemente autarchico, e danneggia tanto la momentanea richiesta di cooperazione auspicata dalle sedi internazionali quanto quella che non dovrebbe risultare un’agguerrita competizione. ![]()
a cura di Angela D'Ambrosio Il mese di marzo del 2021 si apre con un’inchiesta importante e dal peso di centinaia di miliardi di mattoni (e di euro): “The Big Wall”, il Grande Muro. È questo il titolo dell’inchiesta pubblicata da ActionAid che indaga sui soldi investiti, in svariate forme e tempi, dall’Italia e dall’Unione europea nel giro di (almeno) 5 anni, con un solo obiettivo: impedire la migrazione dall’Africa all’Europa. Stabilire un vero punto di partenza di questa inchiesta è difficile, ma è certo che dati più chiari, nella loro enorme complessità, emergono analizzando gli eventi dal 2015 ad oggi, dal momento in cui l’Europa fu investita dalla ben nota crisi migratoria. Partendo dalla Libia, punta dell’iceberg in questo marasma di accordi di partenariato (anche meno recenti) e politiche di cooperazione, l’inchiesta fa luce su diversi aspetti, che un po’ già fanno comprendere la realtà dei fatti. Innanzitutto, è proprio dagli eventi del 2015 che parte il report “Eu Migration Policies in the Mediterranean and Libya (2014-2019)”, con cui il docente di diritto internazionale Omer Shatz, insieme ad otto studenti e al collega Juan Branco, portano per la prima volta, nel 2019, l’Unione europea dinanzi la Corte Penale Internazionale, accusandola di crimini contro l’umanità compiuti nella gestione del processo migratorio libico. Da “Mare Nostrum” fino ad oggi, il report è un tripudio di contestazioni e denunce di azioni e politiche che hanno in comune un aspetto: lo stanziamento di fondi, a volte solo italiani, altre volte anche dell’Unione europea, apparentemente volti ad ampliare la cooperazione e lo sviluppo nel continente africano, ma realisticamente utilizzati per bloccare ed impedire il processo migratorio. Inizia la fase di quella che gli analisti definiscono “migration diplomacy”, di cui fanno parte tutti i suddetti progetti, fondi e programmi in cui l’Italia investe con meticolosità, spostandosi dalla Libia anche ad altri territori. Nell’analisi degli eventi, degli attori e dei processi, “The Big Wall” ricorda come quello che è avvenuto tra Italia e Libia prima e con altri paesi poi, era già accaduto in precedenza tra Spagna e Marocco ad inizio anni 2000. Il modello spagnolo è diventato una guida alle strategie da adottare per bloccare il processo migratorio: strategie come la costituzione di nuove forze di pattugliamento (vedi Guardia Costiera libica), il supporto diretto o indiretto a centri di detenzione locali, la raccolta di dati sulle frontiere. Soprattutto, quella che più rimanda al “modello” spagnolo, è la condizionalità negativa dei finanziamenti, “[…]ovvero il fatto di condizionare l’erogazione di questi finanziamenti – per forze di sicurezza, ministeri, accordi commerciali – al livello di cooperazione dei partner africani nella gestione delle migrazioni, minacciando costantemente di ridurre gli investimenti se calano i rimpatri o se si inceppano i controlli e i respingimenti.” Con il Processo di Khartoum, che riunisce sotto il tema della cooperazione regionale e della gestione del processo migratorio i paesi dell’Ue e nove paesi africani, il focus si sposta su nuovi orizzonti, strategici: Etiopia e Niger, centri di passaggio di migranti verso la Libia, l’Italia e l’Europa. Partono allora progetti di sviluppo dalle fattezze classiche, gestiti dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS, nata nel 2014). Lo scopo di questi progetti è di agire sulle cosiddette cause profonde della migrazione, contribuendo allo sviluppo locale e, soprattutto, riducendo la migrazione illegale. Questi progetti, tuttavia, non segnalano alcun indicatore che aiuti a comprendere come l’implementazione stessa del progetto abbia effettivamente contribuito alla riduzione della migrazione illegale. Si basano sull’idea semplice che più sviluppo locale equivalga a meno migrazione, che sradicare la migrazione piuttosto che gestirla sia la vera soluzione, ma non è sempre così, specie se si agisce con politiche incoerenti e controproducenti, come ci segnala Bram Frouws, direttore del Mixed Migration Center. L’intervento italiano in Niger è esplicativo a riguardo. Fino al 2017, il Niger (sul podio tra i paesi meno sviluppati al mondo) beneficiava di poco più di 10 milioni di euro, contro i 195 milioni totali erogati in progetti a Etiopia e Sudan. Nel 2017 poi, il paese diventa pista di passaggio dei migranti verso la Libia, allertando l’Italia e l’Unione Europea. Tramite il Fondo Africa, l’Italia contribuisce al budget del Niger con 50 milioni di euro, nel quadro di un maxi-programma europeo. Ovviamente, in linea con il modello spagnolo di cui abbiamo letto prima, la prosecuzione del finanziamento è condizionata da vari provvedimenti che il Niger deve prendere. Questo intervento verrà ampiamente contestato e denunciato da associazioni che cercano di monitorare le spese dello stato, poiché nessun meccanismo di trasparenza è stato applicato all’erogazione di tali fondi da parte dell’Ue, favorendo nel paese tendenze autoritarie. Certo, il Niger si mobilita dando il via a programmi rigidi di controllo delle vie della migrazione, ma nessuno può effettivamente valutare l’impatto di tali controlli, né controllare la nascita di nuove rotte. Inoltre, la presenza di controlli rigidi riduce drasticamente anche la circolazione di stranieri all’interno dell’aera del paese controllata, incidendo negativamente sull’economia nigerina. A conti fatti, un progetto che si propone la lotta ai trafficanti rischia di ottenere la proliferazione di questi ultimi, rendendo l’Italia e l’Europa complici di violazioni di diritti umani. Quello del Niger è solo un esempio di uno dei tanti esperimenti italiani ed europei in Africa per contrastare la migrazione illegale attraverso una spesa enorme: secondo l’analisi di ActionAid infatti, dal 2015 al 2020 l’Italia ha stanziato oltre 791 milioni di euro e l’Europa 545 milioni di euro. Questi accordi, queste politiche, sono stati attuati spesso incompatibilmente con la legge e così facendo andando paradossalmente a contribuire a quel disastro umanitario che da anni avviene non solo nelle acque del Mediterraneo, ma anche in Libia, Siria, Turchia, per citare le più note. Con le elezioni in Italia e la migrazione al centro del dibattito politico, la Libia torna protagonista con la firma del nuovo Memorandum, che da vita di fatto ad una nuova tratta dei migranti mascherata da progetti di controllo della migrazione e sviluppo locale: la storia si ripete, il muro continua a crescere e altri paesi europei vi aggiungono mattoni giorno dopo giorno. ![]()
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