a cura di Massimo Spinelli A causa del coinvolgimento diretto dell’Italia nei flussi migratori nel Mediterraneo, in alcuni momenti si corre il rischio di restringere troppo il focus d’analisi di un fenomeno caratterizzato da origini, connotazioni e conseguenze ben più variegate e diffuse di quelle che toccano il nostro paese. Infatti, è fondamentale ricordare che le rotte che portano alla cosiddetta “Fortezza Europa” sono molteplici, e coinvolgono territori che vanno dalla Bulgaria a est, fino alle Isole Azzorre e alle Isole Canarie a ovest. Nell’ultimo anno, proprio queste ultime sono diventate per molti migranti, rifugiati e richiedenti asilo, la porta d’ingresso per il Vecchio Continente, facendo riemergere tutte le inefficienze e le contraddizioni del sistema d’asilo europeo. L’arcipelago delle Canarie non è di certo nuovo ad essere teatro di moti migratori. Proprio come altri territori di raccordo tra Europa e Africa, come le città di Ceuta e Melilla o lo Stretto di Gibilterra, le isole spagnole hanno visto transitare sul loro territorio migliaia di viaggiatori speranzosi di approdare in Europa. Sfortunatamente, i pochi dati ufficiali a disposizione rendono complessa una ricostruzione dei primi fenomeni di massa in questa regione, e le statistiche certificate si basano, come spesso accade in questi casi, sui primi decessi registrati nei tentativi di approdare sulle coste spagnole. Le prime morti si verificarono al largo di Fuerteventura nel 1999 a causa del naufragio di un barcone proveniente dal Marocco con a bordo una dozzina di persone tra giovani uomini e minori. In questo caso, le persone che persero la vita furono nove. I maggiori rischi per chi decide di intraprendere il pericoloso viaggio includono la vasta area da coprire per operazioni di monitoraggio e soccorso da parte delle autorità marittime, e soprattutto la considerevole lunghezza delle traversate. Infatti, nonostante la distanza tra i punti più vicini delle Canarie e il Marocco sia solo di 96 chilometri, i migranti spesso si imbarcano a Dakhla, Marocco, o addirittura in Mauritania. Ciò comporta un percorso che può variare dai 450 agli 800 chilometri in alcuni casi, determinando stime di fatiscenti imbarcazioni scomparse che arrivarono addirittura a sfiorare il 33% nel 2006. Dopo il picco di tentativi di traversata raggiunto intorno al 2006, anche grazie ad una serie di accordi bilaterali mirati alla riduzione dei flussi migratori siglati tra Spagna e i paesi di partenza, le cifre del fenomeno si sono sempre assestate su livelli poco significativi ai fini statistici. Purtroppo però, le vittime di questi moti migratori irregolari sono tornate a crescere vertiginosamente a partire dal 2019, anno nel quale si sono registrate 210 morti in mare, notevolmente in crescita rispetto alle 40 dell’anno precedente, ma pur sempre meno delle 850 registrate nel 2020. Inoltre, l’area di controllo all’interno della quale vengono condotte operazioni di ricerca dei corpi è talmente ampia che solo una ridotta percentuale delle vittime di questi naufragi viene ritrovata in seguito alla tragedia. In questo modo, il dramma che caratterizza queste (vecchie) nuove rotte migratorie si intreccia con il tema dei migranti scomparsi, una situazione che si verifica sempre più spesso nel contesto mediterraneo. Nonostante le difficoltà elencate sopra non contribuiscano a offrire dati realistici utili a descrivere la magnitudine del fenomeno migratorio, l’aumento significativo del numero di tentativi di percorrere questa rotta risulta evidente dai dati parziali collezionati finora. Questo improvviso balzo in avanti delle partenze è dovuto principalmente a due ragioni distinte, accomunate però dalla stessa causa scatenante: la pandemia di COVID-19. La chiusura dei confini in risposta al contagio dilagante da parte degli stati europei, e la crisi economica che ha colpito duramente settori produttivi quali quello agricolo e quello ittico di stati come Marocco, Senegal e Mali, sono sicuramente annoverabili tra le motivazioni che hanno spinto molte più persone a tentare la traversata. Questi dati sembrano trovare ulteriori conferme quando si esamina la composizione della popolazione migrante, costituita principalmente da ex-pescatori ed ex-agricoltori originari del Senegal, del Mali o della Mauritania. Le isole spagnole, che contano su risorse limitate e che si sono dimostrate impreparate ad accogliere un numero elevato di migranti rispetto alle proprie capacità, fanno fronte all’emergenza disponendo campi e alloggi improvvisati organizzati dai militari. Nella prima metà di marzo si sono fatte registrare diverse proteste a Tenerife e a Gran Canaria, nelle quali residenti e migranti hanno unito le forze per convincere le autorità a trasferire gli ospiti dai campi sulle isole, alla Spagna continentale. A parte alcuni casi sporadici, dovuti perlopiù ad emergenze di tipo sanitario, il permesso di trasferimento è stato negato, in quanto il governo spagnolo sostiene che la maggior parte della popolazione migrante non avrebbe diritto a nessuno status che preveda la protezione internazionale. Recentemente, l’Organizzazione Mondiale per le Migrazioni (OIM) ha pubblicato un report dettagliato che si occupa proprio dell’analisi e dell’interpretazione dei dati raccolti lungo questa rotta migratoria. Tra le raccomandazioni principali, rivolte prevalentemente ad attori istituzionali, figurano gli appelli ad un maggior investimento nelle operazioni di pattugliamento e soccorso in mare, oltre che a ad un rinnovato impegno per salvaguardare la dignità e i diritti di coloro che si imbarcano in questi rischiosi viaggi. I timori degli osservatori si basano sulle oggettive difficoltà con le quali le Canarie devono misurarsi, specialmente considerando il rapido numero di sbarchi che si stanno verificando negli ultimi mesi. La Commissaria europea per gli affari interni, Ylva Johansson, ha più volte richiamato l’attenzione delle istituzioni europee sull’emergenza spagnola, recandosi sul posto in visita ufficiale alla fine del 2020, e durante vari interventi al Parlamento europeo dall’inizio di quest’anno. Nonostante queste indicazioni, si fa strada la preoccupazione che l’impasse europeo, particolarmente e tristemente noto in materia di politiche migratorie, possa replicare quell’immobilismo già evidenziato durante simili emergenze in passato. Specialmente in periodi come questo, quando la stagione estiva è alle porte e i tentativi di traversata si intensificano, la paura di trovarsi impreparati a gestire una nuova emergenza migratoria pare quanto mai giustificata. ![]()
Francesco Rojch, Elections Hub
Il 4 maggio si è votato nella Comunità di Madrid per il Parlamento regionale della capitale spagnola. Mentre il Paese affronta una crisi senza precedenti, nella regione è andata in scena una campagna elettorale infuocata. A trionfare la destra anti-lockdown di Isabel Díaz Ayuso del Partido Popular (PP) che ha ottenuto 65 seggi e il 44,4% di voti, vittoria storica destinata a modificare anche gli equilibri nazionali. Eletta nel maggio 2019, la conservatrice Ayuso, è stata costretta ad indire nuove elezioni, con ben due anni di anticipo, poiché le circostanze non permettevano un governo stabile a Madrid. Tutto nato a causa di una mozione nella Regione di Murcia, presentata da Ciudadanos e Psoe. Onde evitare la stessa sorte anche nella comunità madrilena, Isabel Ayuso ha deciso di anticipare la tornata elettorale, lasciando spiazzato anche il suo vice Ignacio Aguado. La strategia della Presidente contro la pandemia non ha aiutato l’economia: i dati sulla disoccupazione e il PIL non sono particolarmente buoni, e nemmeno quelli sul fronte sanitario. Madrid è la comunità autonoma con il più alto tasso di mortalità e tutta Europa osservava incuriosita alle riaperture di locali, cinema e teatri nella capitale spagnola. Tuttavia, la strategia di riapertura adottata è stata decisiva per questa vittoria schiacciante. Talvolta le scelte della Presidente sono andate anche contro i criteri usati da altri governi del PP in altre regioni spagnole. La destra governa a Madrid da più di 25 anni, ma la questione va ben oltre i confini ideologici tra destra e sinistra. Isabel Ayuso è una delle maggiori critiche al governo del premier Sanchez e della sua gestione della pandemia. La retorica populista introdotta ha colpito gli elettori meno politicizzati, meno ideologici e più astensionisti, una fetta che rappresenta il 20% della popolazione spagnola determinante per la vittoria. Quella di Ayuso assume i tratti tipici di una campagna elettorale in puro stile trumpiano. I trend ci dimostrano che tra la popolazione corre un vento di ostilità nei confronti dei governi centrali: la crisi economica, la situazione occupazionale e la gestione della pandemia hanno creato un mix perfetto per esacerbare la riluttanza nei confronti dell’establishment. Un altro dato interessante è l’affluenza al voto: ha votato circa il 74 % degli aventi diritto; le elezioni del 2019 avevano visto un’affluenza decisamente più bassa, ca. il 64 %. Ayuso ha capito meglio di chiunque altro la stanchezza sociale che corre tra le vie di Madrid e nella regione, ed ha colto tutta l’ostilità della destra madrilena nei confronti del governo di coalizione del Partito socialista (Psoe) e Unidos Podemos: per il Psoe è il risultato peggiore da quando esiste l’Asamblea de Madrid. La vittoria della destra ha ridimensionato anche la posizione di Pablo Iglesias, leader di Podemos, che recentemente aveva lasciato la carica di vicepresidente del governo nazionale per candidarsi con il fine di aumentare non soltanto i consensi di UP ma di favorire la vittoria della sinistra sulla destra. A seguito di tale risultato, Pablo Iglesias ha dichiarato che lascerà la politica. Ayuso con il 44,4% dei voti è a 4 seggi dalla maggioranza assoluta: l’ottenimento della fiducia nel Parlamento è certa. Vox infatti, forza di estrema destra che ha ottenuto 13 seggi, ha già fatto sapere che sosterrà la Presidente, nonostante il loro voto favorevole non sia necessario. La vera vittoria dell’estrema destra, oltre che in termini numerici e di seggi, è stata anche sul piano della retorica che permea il PP madrileno. Màs Madrid è l’unica forza a sinistra che può festeggiare: il partito, nato dalla scissione di Unidos Podemos, ha ottenuto 16,9 % dei consensi e 24 seggi. Crolla Ciudadanos che perde tutti i seggi, passando da 26 a 0 seggi. Il quadro che emerge dalle amministrative di Madrid è quello di una politica instabile ed altalenante. Il leader del PP Pablo Casado lancia la sfida al governo centrale e dichiara che questa vittoria è il preludio per una riconquista nazionale. Non solo in Spagna, in tutta Europa sembra confermarsi l’andamento di un elettorato che tende a premiare campagne elettorali infuocate portate avanti da leader forti e carismatici. Adesso, a Palazzo della Moncloa dovranno decidere quale strategia adottare: una politica altrettanto rovente oppure la costruzione di un’alternativa alla polarizzazione. a cura di Luca Tonelli Il progetto della Bar-Boljare è storia tutt’altro che nuova. Con le prime proposte avanzate ancor prima che il Montenegro nascesse nazione sovrana, Milo Đukanović – controverso protagonista della politica montenegrina dal 1991 all'agosto 2020 – già nel 2005 si stagliava come uno dei maggiori sostenitori del progetto, sottolineandone le potenzialità per il rilancio economico del nord dell’allora provincia serba. Rapportati alle dimensioni di uno Stato con poco più di 600.000 anime, i 169,2km autostradali che connetterebbero la Serbia con l’Adriatico rendono la Bar-Boljare una grandiosa opera infrastrutturale. Resa gravosa dall’orografia regionale e dai dubbi sui reali benefici economici, nel 2006 e 2012 due analisi europee ne hanno bocciato la fattibilità finanziaria. Proprio in quegli anni, tuttavia, Pechino iniziava ad affacciarsi sul panorama infrastrutturale internazionale sia attraverso la Belt and Road Initiative (BRI), che la “16+1 cooperation” – di cui Podgorica è tuttora membro. In una regione dove i legami sino-balcanici sono eredità della guerra fredda, il 2014 ha così visto l’inizio dei lavori per la sezione Smokovac-Matesevo, la prima del tratto autostradale. Lungo circa 41km, dei quali 20km di gallerie e 4,5 km di ponti (36 fra viadotti e sopraelevati), questo segmento è realizzato dalla China Road and Bridge Corporation (CRBC) ed è figlio di un maxifinanziamento da quasi €1 miliardo elargito dalla Export-Import Bank of China. Denominato in dollari americani con un tasso d’interessi del 2%, un orizzonte di 20 anni per il rimborso e 6 anni di grace-period, il prestito copre l’85% dei costi (lievitati a circa €1,3 miliardi dopo la doppia estensione della scadenza nel 2020), l’equivalente di circa un quarto del PIL nazionale montenegrino. Se fonti governative sostengono che l'autostrada possa già essere percorribile dalla fine di questo anno, il Fondo Monetario Internazionale (FMI) stima un'ulteriore spesa di €1,2 miliardi per il completamento dell’opera. Una somma gigantesca considerando il crollo del 15% del PIL montenegrino causato dalla crisi pandemica, la quale ha trascinato il rapporto debito-PIL oltre quota 90%. Se il Montenegro dovesse trovarsi inadempiente, i termini del contratto darebbero accesso a Pechino a porzioni di terra come collaterale, con il porto di Bar principale indiziato. A oggi, il Montenegro è la prima nazione europea a trovarsi in quella che viene definita “trappola del debito” vis à vis Pechino. L’Ambasciata cinese a Podgorica, dal canto suo, sottolinea come il governo montenegrino abbia beneficiato di tassi concorrenziali, che i costi elevati siano dettati dalla geografia regionale e che l’hype riguardante la “debt-trap diplomacy” deficita di fondamento. Un interessante studio condotto dalla Johns Hopkins University pare avallare quest’ultimo aspetto, criticandone la mistificazione mediatica. La realtà, pertanto, risulta molto più sfumata di quanto la retorica non dipinga. Il modus operandi dei lavori ricalca però la struttura dei progetti infrastrutturali della BRI: ogni disputa legale avrà infatti luogo dinnanzi a una corte di arbitrato cinese; i materiali importati per la costruzione sono esentati da tariffe; tre quarti dei lavorati impiegati nei cantieri vengono dalla Regno di Mezzo. Insomma, un progetto a marchio cinese, finanziato da istituti cinesi e realizzato da aziende cinesi. Data le costrizioni economiche attuali e l’avvicinarsi del termine del primo pagamento, a luglio 2021, il ministro delle finanze nel nuovo governo di coalizione montenegrino Milojko Spajic ha cercato il supporto dell’UE, definendo la situazione del proprio paese “drammatica da un punto di vista geopolitico”. Spajic ha altresì definito la partecipazione economica dell’Unione come una win-win cooperation, essendo la prima volta che una nazione dei Balcani occidentali si spinge, così apertamente, verso Bruxelles per controbilanciare la presenza cinese sul suo territorio. Allo stesso tempo, è da sottolineare come solo lo scorso dicembre fosse stato il ministro degli esteri montenegrino Radulovic a dichiararsi favorevole ad un maggior coinvolgimento di Pechino nell’economia. Sulla stessa lunghezza d’onda, il 13 Aprile il Ministro degli Esteri cinese Zhao Lijian ha sottolineato come esista una consolidata amicizia fra le due nazioni e che Pechino spera di poterne allargare ulteriormente la cooperazione “a beneficio di entrambi i popoli”. Se da una parte è indubbio l’opaco lascito del progetto, dall’altra vi è un apparente tentativo di dare una svolta europeista a un paese che dopo 30 anni ha scelto di cambiare marcia politica. Per tutta risposta, la Commissione europea ha rimbalzato le richieste di Podgorica, argomentando che l’Unione è il maggiore partner commerciale, investitore e provider di fondi assistenziali del paese e si rifiuta di ripagare prestiti fatti da nazioni con terze parti. Palazzo Berlaymont ha poi corretto il tiro confermando l’apprensione per gli scompensi macroeconomici che i prestiti cinesi rischiano di causare, aggiungendo che l’Unione potrebbe partecipare nel completamento dell’autostrada attraverso il Western Balkans Investment Framework. Un tentativo, sebbene tardivo, di bilanciare la BRI nella regione. La Bar–Boljare esemplifica infatti la dicotomia fra i ritorni finanziari richiesti dalle istituzioni occidentali e le necessità infrastrutturali della regione. Evidenzia come Pechino abbia riempito i vuoti lasciati dall’Europa in materia di politiche di sviluppo, mantenendo il proprio approccio strategico. Nell’intera regione Balcanica, 64 delle 102 attività cinesi sono nei settori dell’energia e dei trasporti. Il 14 Aprile il Parlamento ruropeo si è schierato a supporto di Podgorica e del processo di riforme. L’eurodeputata Von Cramon ha criticato la decisione non “strategicamente brillante” della Commissione, mentre il Segretario di Stato francese per gli Affari Europei Baune ha sottolineato la volontà di Parigi di lavorare a un “caso da manuale” alle porte dell’Unione. Le modalità con cui procedere sono tuttavia indefinite. Alcuni analisti hanno proposto il dirottamento dei €113 milioni previsti dal “EU package for the Western Balkans" destinati al Montenegro nelle sezioni “socio-economic recovery e macro-financial assistance” verso le tasche cinesi, così da dar parziale respiro all’economia montenegrina nell’ottica di una strategia di più ampio respiro. Altri evidenziano la spinosità di una lose-lose situation per Bruxelles, che da un lato si trova a dover prevenire l’allargamento a macchia d’olio della Cina nei Balcani – e la nascita di stati falliti alle porte dell’Unione – ma che allo stesso tempo è costretto a gettare salvagenti finanziari a chi ha ripetutamente ignorato gli avvertimenti, creando un complicato precedente. Bruxelles è chiaramente chiamata a dimostrare maturità geostrategica rispetto agli errori commessi in passato, vedi la presa cinese del porto del Pireo. Deve decidere se i Balcani occidentali saranno una perpetua buffer zone, oppure se sia il caso di alzare l’asticella delle proprie iniziative in quello che di fatto è, insieme alla Libia, il più fragile dei near abroad europei. Podgorica, dal canto suo, deve realizzare che “there is no such thing as a free lunch”. Definirsi ufficialmente “pronti a intensificare le proprie relazioni con la Cina”, oggi come non mai, ha un peso specifico maggiore. Soprattutto se si è candidati alla membership UE. E membri NATO. ![]()
A cura di Matteo Barbanera, Programma sulla politica estera italiana
Lo scorso 19 ottobre è finalmente approdata in Parlamento la proposta di legge A.C. 2313, che prevede l’istituzione di una Zona Economica Esclusiva (ZEE) italiana oltre il limite esterno delle 12 miglia delle acque territoriali. L’Italia infatti è rimasta indietro nella corsa all’istituzione di ZEE, tra le ultime rispetto a tutti i Paesi che si affacciano nel Mediterraneo, e con questa normativa cerca di rispondere alla necessità di maggior tutela delle proprie acque, visto anche l’attivismo in campo marittimo che sta caratterizzando i nostri vicini. Le dinamiche geopolitiche del Mediterraneo stanno cambiando rapidamente e gli spazi marini assumono un’importanza che il nostro Paese ha forse sottovalutato troppo a lungo. Le dispute tra Grecia e Turchia, il caso dell’Algeria nel 2018 o il recente sequestro dei nostri pescatori, sono tutti avvenimenti che dimostrano come il Mediterraneo sia ancora oggi al centro di forti tensioni ed è dunque arrivato il momento che l’Italia cerchi di assicurarsi un maggiore rispetto della propria sovranità marittima, seguendo quelli che sono i principi e le possibilità stabilite dal diritto internazionale. Nel XVII secolo Ugo Grozio parlava di piena libertà di circolazione nei mari. Nel tempo, però, questa libertà si è andata progressivamente riducendo fino a giungere alla Convenzione di Ginevra del 1958 e, successivamente, alla Convenzione delle Nazioni Unite di Montego Bay, le quali vanno a definire il regime di sovranità sugli spazi marittimi in maniera sempre più rigida. La Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del Mare (UNCLOS), sottoscritta a Montego Bay nel 1982, stabilisce la possibilità per gli Stati costieri di istituire la ZEE fino a un massimo di 200 miglia nautiche dalle linee di base. La zona prevede che lo Stato costiero possa esercitare la propria giurisdizione “sia ai fini dell’esplorazione, dello sfruttamento, della conservazione e della gestione delle risorse naturali, biologiche o non biologiche, sia ai fini di altre attività connesse con l’esplorazione e lo sfruttamento economico della zona, quali la produzione di energia derivata dall’acqua, dalle correnti e dai venti” [1]. Inoltre, lo Stato esercita la propria giurisdizione in materia di installazione ed utilizzo di isole artificiali, impianti e strutture, ricerca scientifica, protezione dell’ambiente marino. Dispone di poteri coercitivi verso le navi transitanti, come ispezione, abbordaggio, fermo e sottoposizione a procedimento giudiziario, senza tuttavia poter impedire la navigazione, il sorvolo, la posa di cavi e di condotte sottomarine da parte di Stati terzi. In un mare chiuso come il Mediterraneo si pone il problema della sovrapposizione dei confini marittimi tra i vari Stati che su di esso si affacciano: non è possibile infatti che la massima estensione della ZEE sia garantita per tutti. Proprio per questo motivo, la delimitazione della zona economica esclusiva tra Stati con coste opposte o adiacenti viene effettuata sulla base di un accordo tra gli stessi Stati, i quali cercano di giungere a una “soluzione equa”. Negli ultimi decenni si è assistiti a una sorta di “corsa alle ZEE” per trovare questi accordi, tra i vari Stati che si affacciano sul Mediterraneo: basti pensare ai recenti accordi tra Grecia ed Egitto, dello scorso agosto, e a quello tra Libia e Turchia nel dicembre 2019. L’Italia, come si è già detto, ne è rimasta praticamente al di fuori fino a questo momento. La Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del Mare (UNCLOS), venne resa esecutiva dall’Italia con la legge del 2 dicembre 1994 n. 689, alla quale però non è mai seguita alcuna Zona Economica Esclusiva. Ci si è limitati a istituire le Zone di protezione ecologica, entro le quali poter applicare le misure di protezione dell’ambiente, degli ecosistemi marini e del patrimonio culturale subacqueo, con la legge 61/2006 e a concordare, poi, con la Francia le frontiere marittime nel 2015. Ora, in attesa che la proposta di legge sulla ZEE venga approvata, l’Italia si sta portando avanti e sta cercando di trovare degli accordi con Croazia e Grecia per stabilire le proprie aree di influenza. La proposta di legge sull’istituzione di una Zona Economica Esclusiva italiana è al vaglio del Parlamento, dopo praticamente 25 anni dalla ratifica della Convenzione sul diritto del mare. L’iniziativa, della deputata Iolanda Di Stasio, nel novembre del 2020 è stata approvata all’unanimità alla Camera e il provvedimento ora è all’esame del Senato. L’iter per avere una ZEE italiana dunque non è ancora terminato, però dei grandi passi avanti sono stati fatti. C’è da tenere ben in mente che, secondo quanto dice l’art. 1 del disegno di legge, la proposta di legge non istituisce direttamente una ZEE ma ne “autorizza” l’istituzione, su proposta, presumibile, del Ministro degli Esteri. La UNCLOS ha ampliato i poteri degli Stati costieri sui mari adiacenti, confermando quel processo che viene definito “territorializzazione del mare”, in atto ormai da diverso tempo. La territorializzazione degli spazi marini va incontro alla sempre maggior importanza che sta assumendo il mare, sia dal punto di vista politico che economico, e di conseguenza gli Stati cercano di limitare il più possibile le zone marittime in cui non vi è alcuna legislazione (le cosiddette “acque internazionali”), rivendicando sempre più territori inizialmente estranei alla sovranità statale. Oltre a questo c’è un altro importante aspetto da aggiungere: la territorializzazione dei mari è la risposta che lo Stato nazione sta dando a un progressiva perdita di autorità sul proprio territorio, con confini terrestri sempre più porosi e autorità sovrastatali sempre più ingombranti. Lo stato postmoderno reinventa dunque la propria sovranità anche attraverso questo processo di territorializzazione del mare [2]. In conclusione, l’istituzione della ZEE sarà un passo importante e necessario per garantire all’Italia una maggiore sicurezza delle coste e, in generale, di tutto l’ambiente marino, aspetti che fino ad oggi sono stati troppo trascurati. Inevitabilmente però, solo attraverso una proficua e indispensabile collaborazione tra gli Stati mediterranei, il progetto di avere delle Zone Economiche Esclusive sarà vantaggioso per tutti e non sarà fonte di ulteriori tensioni. Il mare non rappresenta più uno spazio libero come ai tempi di Grozio ma sono gli Stati costieri che hanno il compito di valorizzarlo e custodirlo tramite la cooperazione. L’Italia, nel frattempo, sembra aver superato la sua Zee-fobia, e già questa è una buona notizia. [1] Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del Mare (UNCLOS), art. 56 [2] Cerreti C., Marconi M., Sellari P., Spazi e Potere. Geografia politica, geografia economica, geopolitica, Laterza, 2019, p. 74 a cura di Francesca Lenzi Definire la sicurezza è sempre stato un processo complesso e dibattuto, ma soprattutto in continua evoluzione, nelle Relazioni Internazionali. Se in termini di neorealismo waltziano la sicurezza è il fine più alto degli Stati, è discutibile come l’azione dell’uomo ha avviato, con la rivoluzione industriale, uno stile di vita moderno che sta minacciando direttamente la condizione di sopravvivenza della specie umana senza preservare l’interesse di sicurezza stesso. Come è stato dichiarato, in diverse occasioni, il nostro Pianeta si sta eccessivamente riscaldando a causa delle elevate emissioni di CO2 che le attività umane disperdono nell’atmosfera. Questa situazione comporta una serie di conseguenze; come la manifestazione di disastri ambientali e climatici che gli Stati stessi hanno difficoltà a gestire classificandoli come veri problemi di sicurezza per tutta la comunità internazionale. Determinante, quindi, è comprendere il nesso tra il cambiamento climatico e la sicurezza internazionale. Come è stato precisato in distinte sedi, l'ambiente deve sopravvivere. Nessuna questione come l’economia, la guerra o la politica sono rilevanti se prima non è presente un corretto equilibrio dell’ecosistema, caratterizzato dall’assenza di qualsiasi criticità climatica che minacci la vita degli esseri umani. Il settore ambientale è l’unico supporto essenziale da cui dipendono il successo delle imprese umane. In altre parole, se non è presente una condizione di sicurezza del sistema ambientale che sostiene il normale ciclo di vita della specie umana, viene a mancare la condizione stessa di esistenza e sicurezza dell’uomo. Nell’attuale epoca antropocenica, la risoluzione del cosiddetto paradosso del cambiamento climatico sta diventando più impegnativa, come sostenuto dalla comunità scientifica. Questo paradosso descrive il grado di rischio a cui siamo esposti per le conseguenze del riscaldamento globale che sono state direttamente provocate ed esacerbate dalle azioni dell'Homo Deus. Nella letteratura accademica sono stati indicati quattro ostacoli principali che impediscono la risoluzione del cambiamento climatico come minaccia della sicurezza internazionale. Il primo ostacolo è rappresentato dalla presenza di un elevato livello di combustibili fossili nell’atmosfera. La società moderna ha un'enorme difficoltà a rinunciare all'uso dei combustibili perché sono diventati l'essenza centrale del nostro modo di vivere. Di fatto, non c'è attività o oggetto di uso quotidiano che non sia stato prodotto con combustibili fossili (carbone, petrolio e gas naturale) e quindi fonte di emissione. Se consideriamo che il petrolio costa meno di una bibita di Coca Cola (rapporto di 0,26 $/l petrolio contro 1,50$/l Coca Cola) non è difficile comprendere il motivo economico che accentuano il loro utilizzo. Essi sono presenti in quantità abbondanti, facili da trasportare e, soprattutto, economici perché non si tiene conto del prezzo delle esternalità negative (ovvero il prezzo del danno che provocano). La produzione di combustibili fossili insieme alle cinque principali macro-attività che regolano la vita dell’uomo (coltivazione e allevamento, produzione industriale, erogazione di corrente elettrica, trasporti e, infine, fornitura di riscaldamento e condizionamento dell’aria) sono i principali fattori che generano 51 miliardi di tonnellate di emissioni mondiali ogni anno. Il secondo grande ostacolo nella vicenda è la questione economica. La relazione tra la sicurezza internazionale e il cambiamento climatico è considerata contraddittoria perché agire sul cambiamento climatico con un approccio ecologico richiederebbe la trasformazione della struttura su cui sono costruite le nostre economie, sfidando gli stili di vita contemporanei. Si consideri che l’industria energetica è uno dei giri d’affari economici più grandi al mondo con un valore di cinque mila miliardi di dollari l’anno. È scontato che grandi interessi economici nel settore pongano resistenza al cambiamento. In concomitanza, la sfiducia umana in tecnologie nuove e sconosciute accompagnata da un ridotto consenso da parte della società nel prendere coscienza che il cambiamento climatico è un pericolo presente e futuro, sono fattori che ostacolano il passaggio immediato alle energie pulite a emissione zero. L’ultimo punto che merita un’attenzione particolare riguarda la cooperazione internazionale e l’agenda politica. La comunità internazionale è composta da 196 Stati sovrani (riconosciuti) che coesistono seguendo il principio di non ingerenza. Il diritto internazionale stabilisce che uno stato sovrano non è né dipendente né sottoposto a nessun altro stato e, allo stesso tempo, sancisce l’obbligo in capo a tutti gli stati di non interferire negli affari interni di un altro. Questa norma consuetudinaria spiega il motivo per il quale le dinamiche della politica internazionale, che guidano i rapporti della cooperazione globale, sono così intrinsecamente complessi. Come si è notato durante i negoziati dell’Accordo di Parigi sul clima, risulta difficile coordinare interessi politici, economici e diplomatici dei singoli stati per preservare un sistema che non consideri la logica realista a somma zero. Riunire tutti gli Stati per preservare l'ambiente e il clima richiede sforzi che non tutti gli attori sono disposti a fare. Ciò è dovuto a tre fattori principali: il concetto di responsabilità, ostilità a nuovi investimenti a lungo termine e l’impegno nell’adesione continua ai trattati globali. In primo luogo, le grandi potenze economiche che hanno basato il loro veloce sviluppo industriale sull’uso di ingenti quantità di combustibili non vogliono essere ritenute responsabili delle emissioni globali. In secondo luogo, quasi tutti i paesi in via di sviluppo non hanno la disponibilità finanziaria per sovvenzionare una transizione ecologica che non presenta benefici immediati ma, anzi, che si basa su tecnologie che richiedono ancora tempo nella ricerca per essere veramente performanti. Infine, l’ultimo fattore riguarda l’adesione costante ai trattai globali. È risultato molto difficile a livello burocratico creare e mantenere l’impegno per la limitazione delle emissioni. Nel 2019 una potenza leader come gli Stati Uniti con l’uscita dall’Accordo di Parigi ha rimarcato la fragilità che la comunità internazionale possiede nel coordinamento per la risoluzione dei problemi globali. In aggiunta, Nationally Determined Contributions (NDCs), che sono alla base dell'Accordo di Parigi, non permettono un impegno equo da parte di tutti i membri, che decidono individualmente quanto sono disposti a ridurre le emissioni, e con quali mezzi. Il livello di urgenza contemporaneo per gli impatti del cambiamento climatico non è sufficiente. I progressi che si sono fatti finora hanno solo un impatto marginale sul futuro. La sostenibilità dovrebbe essere percepita come l'equivalente ambientale della sovranità dello Stato e dell'identità della nazione perché è il principio costitutivo dell’ambiente e della sicurezza che deve essere protetto. La logica dell’emergenza ambientale senza ritorno è difficile da contenere con un intervento dell’uomo, se il processo di devastazione è già avviato. La sicurezza ambientale e climatica è il nesso fondamentale per la sicurezza umana internazionale perché un clima instabile e minaccioso rappresenta il fallimento di tutti gli stati nel fornire sicurezza ai propri cittadini. E se non è l'essere umano ad occuparsi con urgenza di una questione che lo riguarda direttamente, la domanda giusta da porsi è: e se il vero ostacolo che ci separa dal raggiungimento di un mondo sostenibile e sicuro fosse l’egoismo umano stesso? ![]()
a cura di Ilaria Santini Nel 2017 la Cina ha prodotto 9.2 miliardi di tonnellate di CO2, il 46% proveniente dalla produzione di energia e calore, anche se si registra una riduzione dal 1990, con un trend in continuo miglioramento. Nel settore energetico ci sono numerose tecnologie che possono essere utilizzate per ridurre le emissioni di CO2 e mantenere una fornitura di elettricità comunque stabile ed a prezzi convenienti: l’energia solare fotovoltaica, gli impianti di energia eolica, lo stoccaggio di energia e la tecnologia a vuoto. Nel 2019 la Cina ha generato 224.43 TWh di elettricità solare, nove volte quella prodotta nel 2014, evitando 69 milioni di tonnellate di CO2, mentre la produzione di 405,7 TWh di energia eolica ha impedito l’emissione di 124 milioni di tonnellate di carbonio. Pechino sostiene l’importanza delle “green technologies” per lo sviluppo sostenibile, la strategia “Made in China 2025” si pone l’obiettivo di liberare la Cina dalla sua dipendenza dalle importazioni internazionali di tecnologie e migliorare quindi la capacità industriale, la qualità dei prodotti e incentivare l’innovazione in molti settori, tra questi il campo delle tecnologie avanzate, del risparmio energetico e delle energie alternative. I governi ad ogni livello in Cina finanziano e promuovono progetti per lo sviluppo delle “green technologies”, stabilendo aggiornamenti delle tecnologie sostenibili per le aziende, per gli istituti di ricerca e gli investitori. Alibaba è uno dei colossi del settore tech cinese promotori della tecnologia verde, la sua sussidiaria, Ant Financial, è co-fondatrice della “Green Digital Financial Alliance” cinese, un’alleanza che utilizza le tecnologie e le innovazioni digitali per incrementare i finanziamenti per lo sviluppo sostenibile a livello nazionale e internazionale. Ant Financial, fondata nel 2014 e originata da Alipay, ha lanciato l’applicazione “Ant Forest”, che monitora l’impronta del rilascio di carbonio degli iscritti all’app attraverso i dati delle loro transizioni finanziarie e ha creato un’esperienza social che permette agli utenti di confrontare la portata delle loro emissioni di carbonio sui social network; questo sistema nel febbraio del 2017 ha registrato un risparmio di 150 mila tonnellate di CO2. Per contribuire ad una maggiore sostenibilità, Alibaba è riscorsa anche all’utilizzo dell’intelligenza artificiale e del cloud computing, “Alibaba Cloud Intelligence Brain”, che sfrutta degli algoritmi per monitorare l’inquinamento, traccia l’impatto ambientale dei rifiuti delle aziende e monitora il trasporto di materiali pericolosi in tempo reale. Le aziende private, più di quelle statali, sono le protagoniste del settore delle risorse rinnovabili, come GEM, il più grande riciclatore di batterie e rifiuti, che ha prodotto più di 3 mila tonnellate di cobalto da batterie riciclate all’anno; tuttavia solo il 10% delle batterie viene raccolto da centri di riciclaggio come GEM. Mentre Gree Electric Appliances, uno dei principali produttori di elettrodomestici in Cina, ricicla gli elettrodomestici usati in centri operativi e promuove l’uso dei condizionatori inverter ad alta efficienza energetica e più rispettosi dell’ambiente. Nel 2019 la Cina deteneva il maggior numero di brevetti a livello mondiale nei settori del riciclaggio, acqua e trattamento dei rifiuti. Tuttavia, nonostante i traguardi raggiunti, l’efficienza della ricerca cinese nel campo delle tecnologie rinnovabili, in particolare in riferimento a quella eolica, è ancora inferiore rispetto a quella dei paesi OCSE, in quanto ancora alla ricerca di un equilibrio tra la necessità di progresso delle “green technologies” e il timore di minacciare la base industriale esistente, fortemente inquinante, ma anche mezzo di sussistenza di milioni di cinesi. Inoltre, lo spostamento delle industrie inquinanti dalle regioni settentrionali e costiere a quelle più interne, al fine di eludere i controlli internazionali, è un ulteriore prova che il processo di ecologizzazione industriale cinese ha ancora una lunga strada da percorrere. ![]()
A cura di Marco Monaco, Osservatorio sull’unione Europea
Nel corso dell’ultima riunione del Consiglio “Affari Esteri” dell’Unione Europea (UE), presieduto dall’Alto Rappresentante dell'Unione Josep Borrell, i membri del Consiglio hanno adottato una decisione per l’istituzione dell’European Peace Facility (EPF), uno strumento finanziario che sostituirà i preesistenti meccanismi di Athena e dell’African Peace Facility. [1] Concepito come un fondo off-budget per il periodo 2021-2027, il nuovo strumento europeo per la pace dovrebbe rappresentare un mezzo per acquisire una maggiore capacità di preservare la pace internazionale da parte dell’UE, fornendo un fondo unico e di respiro globale per il finanziamento dei costi comuni delle operazioni internazionali dell’UE ed integrando queste ultime con adeguate misure di assistenza. [2] Le spese a carico dello strumento saranno circoscritte alle missioni o agli strumenti con specifiche implicazioni militari e/o di difesa, con l’idea di fondo di donare all’Unione una maggiore flessibilità ed impatto nel supporto dei paesi partner per il mantenimento della propria stabilità, la gestione di potenziali crisi e la prevenzione di eventuali conflitti. [3] Come qualsiasi nuova variabile che vada ad inserirsi nel contesto della politica estera e di sicurezza europea, il neonato strumento dell’EPF solleva diversi temi centrali per l’evoluzione ed il percorso dell’UE come attore di sicurezza. Come già accennato, l’idea sottostante la creazione del nuovo strumento deriva dalla necessità dell’Unione di acquisire maggiori capacità e credibilità nella propria azione esterna di intervento (e soprattutto di supporto) nei teatri che lo richiedono. In questo contesto, uno degli elementi che da sempre ha caratterizzato, e spesso ostacolato, la conduzione di una politica estera e di sicurezza europea efficace è rappresentato dalla natura intergovernativa di quest’ultima. In altre parole, se da una parte molti elementi della politica europea vengono gestiti tramite un metodo comunitario, e dunque in una dimensione sovranazionale, con una forte influenza da parte delle istituzioni europee, quando si entra in ambito militare tale influenza viene meno. Nello specifico, ad essa si sostituisce un controllo pressoché totale degli stati membri, che detengono un potere decisionale e di veto, grazie all’influenza del Consiglio Europeo ed ai meccanismi di voto all’unanimità. [4] Il nuovo Strumento Europeo per la Pace sembra inserirsi proprio in quest’ultimo contesto, senza apportare alcuna modifica (o progresso, a seconda delle prospettive) alla conduzione della politica di sicurezza. Non è un caso che il bilancio e le operazioni dell’EPF verranno controllate, discusse ed approvate da un Comitato appositamente istituito, composto da un rappresentante per ciascuno Stato membro. Il Comitato, com’è prevedibile, deciderà all’unanimità, complicando il raggiungimento di un accordo rispetto al budget annuale dello strumento e allo stanziamento dei fondi per operazioni e misure di assistenza. [5] Sebbene alle riunioni del Comitato potranno partecipare gli altri addetti ai lavori, inclusi i comandanti di ciascuna operazione ed i rappresentanti del servizio europeo per l’azione esterna (SEAE) e dell’Agenzia Europea per la Difesa (AED), questi ultimi non avranno voce in capitolo al momento delle votazioni. Analogamente, il fatto che il fondo sia concepito come off-budget (dunque al di fuori dei costi compresi nel budget dell’UE) rappresenta un ulteriore sintomo di continuità con la dottrina intergovernativa degli affari militari. In ottemperanza all’articolo 41, paragrafo 2 del Trattato sull’Unione Europea, le spese derivanti da operazioni che hanno implicazioni nel settore militare o della difesa non possono essere a carico dell’Unione, a meno che il Consiglio non deliberi altrimenti all’unanimità. [6] Per tale motivo, l’European Peace Facility verrà interamente finanziato attraverso contributi diretti degli Stati membri, sulla base del loro prodotto nazionale lordo, consolidando un forte controllo dei governi nazionali. Ad onor del vero, risulta corretto spezzare una lancia in favore di alcuni accorgimenti inseriti nella decisione che istituisce l’EPF, i quali potrebbero fungere da attenuanti verso i poteri di veto. A quanto viene riportato, uno stato membro che si rifiuti di contribuire economicamente ad una specifica operazione o misura di assistenza non parteciperà alla votazione del Comitato, rendendo dunque più complessa l’opposizione da parte di un singolo governo contrario, il cui rappresentante potrà comunque partecipare alle riunioni. Inoltre, nel momento in cui il budget annuale è stato fissato, uno stato membro che non contribuisce ad un’operazione o misura di assistenza approvata dal resto del Comitato, dovrà contribuire con finanziamenti supplementari ad altre operazioni (già attive o future), compensando la mancata partecipazione e garantendo il rispetto del contributo inizialmente previsto. Infine, per le questioni procedurali il Comitato delibererà a maggioranza, invece che all’unanimità. [7] Elementi di questo tipo, seppur utili a limitare lo stallo in potenziali casi di attrito tra gli stati membri, non eliminano tuttavia l’ostacolo potenzialmente più gravoso, ovvero la necessità di raggiungere un voto unanime. Se la discrepanza di vedute tra gli stati membri emergesse successivamente all’approvazione di una misura di assistenza o operazione, è probabile il processo decisionale ne risulterebbe bloccato, o quanto meno fortemente rallentato. Un secondo tema sollevato dal nuovo strumento finanziario concerne il livello di rischio che si accompagna alla fornitura militare in favore di paesi terzi. Le misure di assistenza previste all’interno del meccanismo dell’EPF avrebbero lo scopo di rafforzare le capacità di risposta militare degli stati terzi e di organizzazioni internazionali che presentano richiesta in situazioni di crisi. Già alla fine dello scorso anno, una dichiarazione firmata da quaranta organizzazioni della società civile avvertiva riguardo ai rischi legati alla fornitura di assistenza militare nei confronti di Paesi terzi, i quali potrebbero utilizzare i fondi, strutture o materiali provvisti per reprimere con violenza le proteste civili, in violazione dei diritti umani e del diritto internazionale. [8] Non è complesso immaginare uno scenario simile in relazione all’attuale dibattito in sede del Consiglio Affari Esteri in merito alla necessità di “un partenariato più forte, più stretto e più efficace” [9] con gli stati del vicinato meridionale. La priorità europea di risolvere problemi legati a conflitti, migrazioni e terrorismo internazionale porta con sé un reale rischio di abuso nei confronti dei civili da parte dei governi coinvolti. Se ciò si verificasse successivamente allo stanziamento di fondi tramite l’EPF è probabile che l’Unione si troverebbe in grave difficoltà, sia al livello gestionale che diplomatico. Anche in relazione a ciò, il documento ufficiale approvato a fine marzo prevede la sospensione, da parte del Comitato Politico e di Sicurezza (CPS) dell’UE, di qualsiasi misura di assistenza concessa tramite l’EPF in casi di violazione degli obblighi contrattuali o del diritto internazionale, con particolare riguardo per il diritto internazionale umanitario ed il diritto internazionale dei diritti umani. In aggiunta a ciò, l’European Peace Facility è stato dotato di un duplice meccanismo di revisione, interna ed esterna, per garantire la qualità dei sistemi di gestione e controllo dei finanziamenti. [9] Se queste misure siano sufficienti ad impedire l’abuso dei fondi o del supporto materiale stanziato dall’Unione a beneficio di stati terzi in potenziali casi di crisi è certamente complesso da definire allo stato attuale. Ciò che si può sostenere con relativa sicurezza, tuttavia, è che il neonato strumento europeo per la pace, lungi dal rappresentare un’innovazione decisa nell’approccio dell’UE alle crisi internazionali, costituisce un ulteriore tassello nella serie di misure europee ben strutturate in prospettiva di tempi di armonia ed azione coordinata, ma potenzialmente molto fragili all’emergere di disaccordi interni o casi limite che mettano alla prova la credibilità dell’intera Unione Europea.
a cura di Giulia Calini Dopo essere stato eletto Primo Ministro dell’Ungheria nel 2010, Viktor Orbán ha guidato il suo partito “Alleanza Civica Ungherese” (Fidesz) su un percorso fatto di scelte discutibili. Il suo governo ha dimostrato più volte una grande mancanza di rispetto verso i valori europei fondamentali, compresi i diritti umani, la democrazia e lo Stato di diritto. Orbán fa tutto il necessario per realizzare la sua idea di ‘democrazia illiberale’, concetto che può suonare come un ossimoro e che si basa sulla difesa dei principi della cultura cristiana, come la dignità umana, la famiglia tradizionale e la Nazione. Qui risiede l’abissale contrasto tra ciò che l’Ungheria dovrebbe essere e quello che in realtà è: essendo parte dell’Unione europea, dovrebbe conformarsi alla ‘democrazia liberale’ fatta di multiculturalismo, politiche di integrazione e di accettazione di diverse forme di unità familiari. Al contrario, il sogno di 'democrazia illiberale' di Orbán dà priorità alla cultura cristiana, è anti-immigrazione e sostiene il solo modello di famiglia tradizionale. Caratteristiche allarmanti di questa forma di governo è l’incoraggiamento della violenza. A tal proposito, particolarmente controverso è stato il ritiro dell’Ungheria dalla Convenzione di Istanbul, contro la violenza sulle donne. L'Ungheria ha firmato la Convenzione nel 2014 ma Orbán ha cambiato idea nel maggio 2020. Il rifiuto di ratifica è ancora più significativo in questo particolare periodo, poiché è stato dimostrato che la violenza domestica è aumentata nel periodo di quarantena innescato dalla crisi sanitaria del Covid-19. Il principio di uguaglianza non può funzionare in un paese dove si cerca di realizzare una ‘democrazia’ basata sulle sole credenze cristiane tradizionali, dato che ciò andrebbe ad intaccare l'idea di famiglia e del ruolo delle donne all’interno di esse e di una società comandata da credenze religiose. Gli esponenti politici di destra, sostenitori di Orbán, rifiutano gli sviluppi del progresso liberale, concentrandosi invece sui concetti di Nazione, famiglia e religione. Strumentalizzando il concetto di genere con un’accezione negativa, il governo descrive le donne come elementi centrali delle famiglie più che come cittadine comuni titolari degli stessi diritti degli altri cittadini ungheresi: essere mogli e madri è l’unico è più importante ruolo di cui si devono preoccupare. Di conseguenza, il governo ha fatto marcia indietro sulla Convenzione di Istanbul in quanto questa articola il concetto di genere in modi che vanno a favorire l’uguaglianza e ad intaccare la visione tradizionale del ruolo delle donne e dunque la Convenzione risulta problematica a causa di come il genere è costruito nel suo testo. Negli ultimi mesi numerosi paesi in tutta Europa hanno segnalato un aumento significativo degli incidenti di violenza domestica, dove le donne sono le vittime più frequenti di abusi dal partner, ma questo non ha influenzato l'opinione di Orbán. Il 5 maggio 2020 il parlamento ungherese ha adottato una dichiarazione politica con 115 voti favorevoli, 35 contrari e 3 astensioni, che respinge la ratifica della Convenzione. Il rifiuto della Convenzione di Istanbul è uno dei tanti eventi sconcertanti riguardanti l'Ungheria e i diritti umani. Da quando è entrato al potere nel 2010, il partito Fidesz ha cambiato la costituzione nazionale per chiarire la definizione di matrimonio, limitandola all'unione tra un uomo e una donna. Ad aprile 2020, il governo di Orbán ha anche presentato una legge, il cosiddetto Omnibus Bill che porrebbe fine al riconoscimento legale delle persone trans e di genere diverso nel paese, poiché il paese cerca di definire il genere come il ‘sesso biologico basato su caratteristiche sessuali primarie e cromosomi’. Strumentalizzando lo stato di emergenza sanitaria Covid-19, il governo ha emanato centinaia di decreti, anche su questioni estranee alla salute pubblica, ad esempio lanciando un assalto ai membri della comunità lesbica, gay, bisessuale e transgender (LGBT) e minando i diritti delle donne. Inoltre, a maggio 2020, una nuova legge ha reso impossibile per le persone transgender o intersessuali cambiare legalmente il loro genere, mettendole a rischio di molestie, discriminazione e persino violenza nelle situazioni quotidiane in cui hanno bisogno di utilizzare documenti di identità, minando la loro dignità. Solo recentemente le persone transgender hanno ottenuto una piccola vittoria in mezzo a una discriminazione evidente: la Corte costituzionale ungherese ha infatti stabilito che il divieto legale di cambiare genere, introdotto lo scorso anno, non si applica retroattivamente. La sentenza significa che le persone che hanno iniziato un percorso di transizione di genere prima di marzo 2020, quando è stato introdotto il divieto, possono completare il processo. I legislatori non possono costringere i cittadini ad aspettare per intraprendere un percorso per essere riconosciuti nella maniera più appropriata, altrimenti un’ennesima violazione dei diritti umani è dietro l’angolo. Nonostante questo piccolo grande evento, la situazione in Ungheria rimane critica e la violazione di vari principi fondamentali europei continua a creare una tensione che non si allenterà fino a quando non vi sarà un cambio di rotta da parte del governo Orbán. ![]()
a cura di Giovanni Maggi Sono passati ormai quattro anni dall’elezione dell’ex Presidente americano Donald Trump. Una presidenza, quella del tycoon di Manhattan, basata su un uso intensivo dei social media e su una ricorrente manipolazione dell'informazione. A dimostrazione di ciò, il Washington Post ha pubblicato un database in cui le 30,573 “affermazioni false o ingannevoli” pronunciate dall’ex Presidente durante il periodo passato alla Casa Bianca vengono elencate e verificate. L’attitudine trumpiana verso i fatti rappresenta però un solo esempio di un processo culturale più ampio: quello verso la post-verità. Fin dal suo ingresso nello scenario politico americano, Trump e il suo staff hanno proiettato al pubblico una sua “versione alternativa dei fatti”. Il 22 Gennaio 2017 durante un’intervista rilasciata a NBC, Kellyanne Conway, consigliera dell’ex Presidente, usò per la prima volta il termine “fatti alternativi” in difesa del segretario della stampa della Casa Bianca. In seguito, Conway ha definito l’espressione come “fatti addizionali e informazioni alternative”. La costruzione di questa realtà controcorrente, particolarmente chiara nella narrativa trumpiana legata alle elezioni presidenziali del 2020, ha accelerato la transizione verso ciò che Hannah Arendt chiama “defattualizzazione” – l’inabilità di scindere i fatti dalla finzione. Il concetto di post-verità trova le sue radici nella filosofia di Nietzsche e Weber e fu poi ripreso dalla teoria critica di Foucault e Arendt nella seconda metà del ‘900. Come spiega il filosofo americano Lee McIntyre, la presidenza Trump ha rappresentato un avvicinamento alla post-verità e la defattualizzazione della politica ma non ha, in sé, costituito la nascita di un nuovo fenomeno. Già durante il corso del secolo scorso è possibile trovare esempi di negazionismo e di utilizzo di fatti alternativi riguardo a temi quali il cambiamento climatico, gli effetti negativi del fumo e i vaccini. MacIntyre afferma inoltre che l’ingresso in politica della post-verità è dovuto all’assunzione di un atteggiamento postmodernista rispetto alla scienza – nello specifico, l’idea è che non esita una verità oggettiva – da parte di alcuni attori politici. Il processo verso la post-verità, e l’inevitabile polarizzazione politica e sociale che ne consegue, può però essere analizzato da un altro punto di vista. Ci troviamo in un momento storico in cui la democrazia è in decadenza, e si trova a confrontarsi con l’ascesa dei regimi autoritari. I due sistemi hanno posizioni opposte per quanto concerne l’infosfera. Se da una parte i paesi democratici vedono l’informazione come uno strumento a disposizione della popolazione, i sistemi autoritari la percepiscono come una possibile minaccia all’integrità del regime. Tramite la combinazione di operazioni di hacking e la propaganda nei social media mirata alla manipolazione dell’opinione pubblica, tali autoritarismi – Russia e Cina in particolar modo – hanno fatto della sfera dell’informazione il nuovo campo di battaglia. L’uso di sorveglianza, censura, e controllo delle informazioni online, ha portato i sopracitati regimi ad essere in grado non solo di monitorare la popolazione domestica, ma anche di minare gli equilibri democratici oltreoceano. Un esempio dettagliato è contenuto nel primo volume del “Mueller Report”, redatto dall’ex direttore dell’FBI, R. Mueller. Il documento descrive le interferenze russe nell’elezione presidenziale del 2016 che portò all’insediamento di Donald Trump nella Casa Bianca il 20 Gennaio 2017. L’interesse russo in questo caso fu, tra le altre cose, quello di accelerare la transizione verso la post-verità e la defattualizzazione nella democrazia statunitense. A testimonianza del successo delle loro azioni si colloca la vicenda politica e legale che ha accompagnato l’uscita del documento stesso. La Casa Bianca, tramite la voce e i poteri dell’ex Attorney General William Barr, fu in grado di censurare al pubblico parte del report e riassumere impropriamente le conclusioni di Mueller in modo da distorcere la narrativa e dunque la credibilità del Report. Vedere le interferenze russe del 2016 come un episodio isolato porta però ad ignorare il processo macroscopico che le ha rese possibili: la nuova competizione tra stati in territorio digitale, in particolare nel campo dell’informazione. Russia e Cina hanno reso la manipolazione dell’infosfera un punto chiave delle strategie di sicurezza nazionale, andando così ad investire intensivamente nei settori tecnologici più avanzati – tra i quali riconoscimento facciale, computazione quantistica e intelligenza artificiale. Un report dell’intelligence americana rilasciato il 16 Marzo 2021 rivela che anche la campagna elettorale del 2020 è stata soggetta a influenze russe. In più, nei mesi di Febbraio e Marzo, una serie di cyberattacchi, provenienti da gruppi collegati al governo cinese, hanno sfruttato alcune debolezze per entrare nel sistema e-mail di Microsoft – utilizzato principalmente da piccole-medie imprese ma anche da figure militari. L’approccio dei paesi democratici al problema continua invece ad essere passivo. Nonostante abbiano risposto agli attacchi in modo efficace, le avance occidentali continuano a mancare nello sviluppo di una strategia in grado di competere con quelle sino-russe. La nuova frontiera del cyberspazio porta le democrazie davanti a un dilemma. Da una parte, la mancanza di una presa di posizione forte renderebbe le democrazie vulnerabili sia alla defattualizzazione della realtà descritta da Arendt, che alle interferenze da parte di potenze estere. Dall’altra, la repressione dell’informazione mirata a combattere questi fenomeni comporta il rischio di emulare la “mano pesante” usata dalle potenze autoritarie creando così il sistema rigido da esse ricercato. La posta in gioco è alta. La sfera dell’informazione è uno dei pilastri portanti del sistema democratico e la sua integrità e veridicità è fondamentale per la difesa dei valori e processi istituzionali. D’ora in poi, la competizione tra stati si giocherà tanto nei campi di battaglia e nei tribunali, quanto su smartphone, computer e le infrastrutture che li supportano. La nuova geopolitica dell’informazione sfida le democrazie a trovare una strategia efficace per competere con le potenze estere, per disintossicare l’infosfera domestica, e per rendere il cyberspazio sicuro per la democrazia. ![]()
Giovanni Maggi, Osservatorio sull'Unione europea
Con la presentazione del Digital Compass 2030, l’Europa torna a cavalcare l’onda dell’innovazione tecnologica. Infatti, il 9 Marzo 2021 si è aperto il decennio digitale dell’Unione Europea, che ha come obiettivo l’acquisizione della sovranità digitale. Per meglio comprendere cosa ciò significhi, facciamo prima un passo indietro. Il concetto di sovranità nasce nel sedicesimo secolo con il filosofo francese Jean Bodin, il quale lo definì come l’autorità di un leader politico di prendere decisioni definitive. In un secondo momento, Jean-Jacques Rousseau rielaborò questa definizione, introducendo la concezione di sovranità popolare, contrapposta a quella monarchica di Bodin. Oggi, il concetto ha due volti: una dimensione esterna – l’indipendenza dello Stato rispetto ad altri Stati – e una interna – il monopolio del potere statale entro i propri confini [1]. La rivoluzione digitale e l’avvento di internet hanno portato con sé diverse sfide per gli Stati e la loro sovranità. Due di queste minacce, particolarmente rilevanti all’epoca della loro concettualizzazione, sono state denominate “cyber exceptionalism” e modello di “multi-stakeholder internet governance”. La prima sostiene che la nascita delle reti digitali avrebbe portato alla fine della concezione territoriale di sovranità [2]. La seconda è l’ipotesi secondo cui internet sarebbe governato da una molteplicità di attori non sovrani [3], andando così a costituire una minaccia alla sovranità statale. Le previsioni legate a queste due teorie, entrambe sviluppate negli anni Novanta, si sono generalmente rivelate lontane dalla realtà [4]. La prima, infatti, rimane valida solo nel caso delle cripto-valute, fallendo quando applicata ad altri contesti. Nel caso della seconda, il controesempio più evidente è la tendenza alla regionalizzazione delle reti digitali portata avanti tanto da governi autoritari quanto da quelli democratici. Nel 2013, le rivelazioni di Edward Snowden hanno svelato le azioni di sorveglianza globale condotte dagli Stati Uniti e dai loro alleati [5], dimostrando come il potere egemonico possa essere esercitato anche tramite la raccolta, l’analisi e il controllo dei dati. In questo modo, il discorso politico intorno alla sovranità digitale, sia essa intesa come nazionale o regionale, si è riacceso. Il concetto è diventato così un potente strumento retorico in ambito politico. Come tale, la definizione specifica di “sovranità digitale” varia in base ai contesti in cui l’espressione viene utilizzata e al genere di autodeterminazione – statale, aziendale o individuale – che viene enfatizzata. Nello specifico, se l’attenzione viene posta sull’autonomia statale o regionale, la sovranità digitale sarà intesa come controllo delle infrastrutture digitali. Invece, se si prendono in considerazione gli ambiti statali e aziendali, per sovranità digitale si intenderà un’autonomia economica, cioè l’autonomia dell’economia nazionale da tecnologie e servizi esteri. Infine, l’autonomia individuale produce una definizione di sovranità digitale come autodeterminazione del cittadino nei suoi ruoli di impiegato, consumatore e utente di servizi o tecnologie digitali [6]. Nella comunicazione inviata dalla Commissione alle istituzioni europee lo scorso 9 Marzo, che ha dato vita alla “Bussola Digitale 2030”, le tre dimensioni della sovranità digitale sono sviluppate nella loro interezza. Il “decennio digitale” dell’UE sviluppa quattro aree principali: infrastrutture digitali sicure e sostenibili, trasformazione digitale delle imprese, competenze digitali dei cittadini e digitalizzazione dei servizi pubblici [7]. Al fine di raggiungere gli specifici obiettivi stabiliti dall’Unione, gli Stati membri si impegnano a destinare almeno il 20% dei piani per la ripresa e la resilienza nazionali alle questioni digitali [8]. L’ambizione della Commisione von der Leyen è di ridurre al minimo la dipendenza europea da infrastrutture, tecnologie e servizi prodotti o gestiti da enti al di fuori dei propri confini. Infatti, al momento l’infrastruttura di internet risiede per la maggior parte in Cina e Stati Uniti, così come principalmente cinesi e statunitensi sono le aziende che forniscono i servizi digitali. Per far fronte a questa dipendenza infrastrutturale, entro il 2030 verrà creata una rete interna all’UE tramite l’installazione di 10,000 nodi periferici a impatto climatico zero. Ciò permetterà di gestire direttamente le azioni di analisi e raccoglimento dei dati dei cittadini europei, riducendo così i rischi legati alla cyber security e permettendo alle PMI (Piccole e Medie Imprese) europee di beneficiare dall’uso di tali dati [8]. Inoltre, la produzione di microchip e semiconduttori avviene principalmente in Asia. L’UE punta a cambiare anche questo, ambendo ad acquisire una fetta di mercato equivalente al 20% della produzione mondiale – oggi ne detiene circa il 10%. Un terzo punto importante sviluppato nella comunicazione concerne la ricerca nel campo della computazione quantistica [10]. Oggi, la frontiera quantistica trova il suo maggior polo di ricerca in Cina, dove è sostenuta da investimenti pubblici e privati che superano i 10 miliardi di dollari – a fronte di 1,2 miliardi negli Stati Uniti e di un programma Europeo che si trova ancora agli inizi. Lo sviluppo di un proprio computer quantistico renderebbe l’UE indipendente dal know-how cinese e americano. Secondo la Commissione, la computazione quantistica rappresenta la nuova frontiera digitale, permettendo di risolvere in poche ore o minuti quei problemi che oggi richiedono mesi [11]. Ridurre la dipendenza da tecnologie e servizi esteri è necessario se il fine è quello di raggiungere una vera e propria sovranità in campo digitale. La proposta di iniziative come Gaia-X – il servizio cloud europeo – e la Schengen Routing idea – l’idea che mira a limitare il flusso dei dati entro i confini europei – sono tutti passi verso il raggiungimento questi obiettivi [12]. Ad ogni modo, è necessario anche prendere in considerazione il fatto che, oltre a ridurre la dipendenza dell’UE da altri stati, l’acquisizione della sovranità digitale implica la creazione di inevitabili infrastrutture di controllo – e possibile manipolazione. Le operazioni che porterebbero a raggiungere i traguardi dell’Unione hanno una natura invasiva. Dal punto di vista retorico, il raggiungimento della sovranità digitale non può quindi essere identificato con la difesa dei valori democratici, come viene invece spesso ripetuto in Europa. Il raggiungimento degli obiettivi UE non assicura automaticamente la creazione di una sfera digitale ordinata, sicura e guidata da valori democratici ma semplicemente l’acquisizione di un’autonomia Europea in questo campo. Questa autonomia non è un fine in sé e la sua implementazione deve essere guidata in modo da evitare un secondo caso Snowden. Al fine di creare una sovranità digitale che sia veramente democratica, è necessario un dibattito puntuale riguardo ai metodi e alle procedure, che rendano la trasparenza e la responsabilità delle potenze sovrane requisiti chiave in campo digitale. BIBLIOGRAFIA: [1] Grimm, Dieter (2015), “Sovereignty: the origin and future of a political concept”, Columbia University Press [2] Katz, J. (1997). Birth of a Digital Nation. In Wired. https://www.wired.com/1997/04/netizen-3/. [3] Klein, H. (2002). ICANN and Internet Governance: Leveraging Technical Coordination to Realize Global Public Policy. The Information Society, 18(3), 193–207. https://doi.org/10.1080/01972240290 074959 [4] DeNardis, L. (2012). Hidden Levers of Internet Control. Information, Communication & Society, 15(5), 720–738. https://doi.org/10.1080/1369118X.2012.659199 [5] Steiger, S., Schünemann, W. J., & Dimmroth, K. (2017). Outrage without Consequences? Post- Snowden Discourses and Governmental Practice in Germany. Media and Communication, 5(1), 7–16. https://doi.org/10.17645/mac.v5i1.814 [6] Pohle, J. & Thiel, T. (2020), “Digital sovereignty”. Internet Policy Review, 9(4) https://doi.org/10.14763/2020.4.1532 [7] “Europe’s Digital Decade: digital targets for 2030”, European Commission, https://bit.ly/3tPx00v (Accessed March 2021) [8] Communication of the European Commission (2021), “2030 Digital Compass: the European way for the Digital Decade”, p. 7 https://bit.ly/3vdjMuU (Accessed March 2021) [9] Communication of the European Commission (2021), “2030 Digital Compass: the European way for the Digital Decade”, p. 6 https://bit.ly/3vdjMuU (Accessed March 2021) [10] INRIA (16 Dec. 2020), Who are the main players in the world of quantum computing?, retrieved from https://bit.ly/2S4biYR [11] Communication of the European Commission (2021), “2030 Digital Compass: the European way for the Digital Decade”, p. 8 https://bit.ly/3vdjMuU (Accessed March 2021) [12] Pohle, J. & Thiel, T. (2020), “Digital sovereignty”, p. 8-12. Internet Policy Review, 9(4) https://doi.org/10.14763/2020.4.1532 |
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