a cura di Isabel Bianca A seguito dell’elezione del democratico Joe Biden a gennaio 2021, il neo Presidente aveva promesso una drastica inversione di rotta dalle politiche migratorie imposte da Donald Trump durante la sua permanenza alla Casa Bianca. Biden ha fin subito chiarito l’assoluta priorità dell’immigrazione nella sua agenda politica, e se da un lato ha concretizzato autonomamente una parte delle sue promesse elettorali, emettendo ordini esecutivi per invertire le politiche migratorie più controverse del presidente Trump il primo giorno stesso della sua presidenza, dall’altro, l’amministrazione Biden si è trovata a dover cedere all’ondata di critiche ricevute nelle ultime settimane e annunciare il 4 maggio l’innalzamento del tetto massimo di rifugiati ammessi negli Stati Uniti a 62.500, dopo che la decisione comunicata a metà aprile di mantenere il limite imposto nell’era Trump di 15.000 aveva provocato lo sdegno di progressisti e gruppi di advocacy. Stando alle affermazioni del Presidente, la precedente intenzione di confermare il tetto massimo dell’amministrazione Trump (storicamente il più basso mai fissato negli Stati Uniti) scaturiva dalle preoccupazioni dello stesso Biden per la situazione di tensione creatasi al confine con il Messico, dove nelle recenti settimane l’aumento del flusso di migranti al confine, soprattutto di minorenni non accompagnati che l’amministrazione Biden non respinge ma accoglie come rifugiati, a differenza della precedente linea Trump, ha aumentato la pressione sul sistema di gestione dell’arrivo di migranti e rifugiati degli Stati Uniti. Questa giustificazione merita tuttavia un ulteriore approfondimento. La pressione al confine meridionale è effettivamente alle stelle, avendo raggiunto il totale mensile più alto in 15 anni con oltre 170.000 migranti fermati al confine nel mese di marzo. Anche le organizzazioni non governative che aiutano a reinsediare i rifugiati negli Stati Uniti sono ancora in fase di ricostruzione, avendo visto i loro finanziamenti federali diminuire drasticamente durante l’amministrazione Trump a causa dell’abbassamento del tetto massimo di rifugiati, il che le aveva costrette a ridimensionare sostanzialmente infrastrutture e personale nel corso degli ultimi anni per tenere a galla i loro programmi di reinsediamento. Più di 100 uffici si sono trovati costretti a chiudere, e numerosi funzionari governativi incaricati di elaborare i casi di rifugiati all'estero sono stati licenziati o riassegnati ad altri dipartimenti. La pandemia Covid-19 ha ulteriormente aggravato il quadro, in particolare a seguito del blocco totale del programma per i rifugiati statunitense per diversi mesi l’anno scorso. Conseguentemente, gli Stati Uniti hanno reinsediato solo un totale di 11.814 rifugiati nell'ultimo anno fiscale, rimanendo ben al di sotto del tetto massimo previsto di 15.000 persone. A metà aprile, la portavoce della Casa Bianca Jen Psaki aveva suggerito che l'Ufficio per il Reinsediamento dei Rifugiati (parte del Dipartimento della Salute e dei Servizi Umani statunitense) avesse una capacità di azione limitata, dovuta al pesante carico di lavoro che si trovavano a fronteggiare i funzionari dell’Ufficio per occuparsi del numero record di minorenni non accompagnati arrivati al confine con il Messico nelle ultime settimane. Questa argomentazione è tuttavia stata respinta dai gruppi di advocacy, ribattendo come il programma di ammissione dei rifugiati sia distinto dal sistema di asilo per i migranti. A differenza dei migranti che arrivano al confine per poi richiedere asilo, i rifugiati sono sottoposti a un lungo processo di controllo mentre si trovano all’estero per poi essere autorizzati ad entrare negli Stati Uniti, e centinaia di persone che erano già state approvate hanno visto annullati i loro voli a causa del ritardo nell'innalzamento del tetto massimo imposto dall’amministrazione statunitense. Mantenere il limite imposto nell’era Trump avrebbe dunque significato lasciare oltre 35.000 rifugiati bloccati all’estero. Di fronte alle forti critiche degli attivisti per i diritti umani e dei membri dello stesso partito di Biden, tra cui il capogruppo di maggioranza al Senato Dick Durbin che aveva definito la decisione di bloccare il tetto massimo “inaccettabile”, e l’influente progressista Alexandria Ocasio-Cortez che lo aveva descritto come "xenofobo e razzista", la Casa Bianca ha bruscamente invertito la rotta, dichiarando che il limite imposto nell’era Trump “non rifletteva i valori dell'America come nazione che accoglie e sostiene i rifugiati”, e aumentando il numero massimo a 62.500, come precedentemente promesso a febbraio. Ciononostante, il tentennamento di Biden nel proseguire con l’innalzamento del tetto massimo di rifugiati riflette il timore della Casa Bianca delle conseguenti ricadute politiche di una tale decisione, in un momento in cui l’amministrazione si trova ad affrontare le critiche di repubblicani e democratici per la gestione dell’afflusso di migranti al confine USA-Messico nel mezzo di una pandemia, e lascia intravedere la preoccupazione del Presidente che gli elettori americani confondano le due questioni, nonostante siano determinate da circostanze nettamente separate. ![]()
a cura di Alessio Corsato, Osservatorio sull'Unione europea
Sei anni dopo il referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea (UE) del 23 giugno 2016, lo scorso 29 aprile il Consiglio dell’UE ha adottato la Decisione 5022/3/21 con cui si è conclusa definitivamente la separazione tra le due parti [1]. La Decisione ha seguito la ratifica da parte del Parlamento Europeo di due trattati: l’Accordo sugli scambi commerciali e la cooperazione tra l’UE e il Regno Unito, deliberata due giorni prima con 660 voti favorevoli, 5 contrari e 32 astensioni, con la quale si è scongiurato lo scenario del no deal, e l’Accordo sulle procedure di sicurezza per lo scambio e la protezione di informazioni classificate. L’Accordo commerciale, raggiunto in extremis il 24 dicembre 2020 dalle delegazioni guidate da Michel Barnier per l’UE e da David Frost per il Regno Unito, una volta ratificato dal Parlamento britannico e firmato da Charles Michel a nome del Consiglio e da Ursula Von der Leyen a nome della Commissione il 30 dicembre, era entrato in vigore provvisoriamente il 1 gennaio 2021. Tuttavia, vista l’imminente scadenza del periodo provvisorio, il 30 aprile 2021, gli scontri in Irlanda del Nord e, soprattutto, l’avvio di una procedura di infrazione contro il Regno Unito il 15 marzo [2], la seconda nell’arco di sei mesi, avevano fatto temere il peggio. Procediamo con ordine. Per cominciare, l’accordo commerciale ha un’importanza fondamentale perché rappresenta il pilastro delle future relazioni tra l’UE e il Regno Unito. Tratta numerosi aspetti, alcuni molto cari alla sovranità britannica recentemente riacquistata, ma il corpus dell’opera è incentrato indubbiamente sull’istituzione di un’area di libero scambio [3]. Molto sinteticamente, con l’Accordo vengono aboliti i dazi e le quote all’importazione per quei beni la cui origine, che dovrà essere certificata, è riconducibile a un paese europeo o al Regno Unito. Tuttavia, nonostante il riconoscimento della figura dei c.d. Authorised Economic Operators, il commercio risentirà sicuramente dei rallentamenti dovuti all’installazione delle dogane ai confini. Considerando l’elevato interscambio commerciale tra il blocco europeo e il Regno Unito - quest’ultimo è infatti il terzo partner commerciale dopo Stati Uniti e Cina per l’UE [4], mentre l’UE risulta essere il primo partner per il Regno Unito [5] – un eventuale scenario senza accordo sarebbe stato disastroso per i produttori e i consumatori poiché si sarebbero applicate le regole dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Ad esempio, certe tipologie di carne e latticini avrebbero visto applicarsi dazi del 40%, mentre il pesce in scatola del 25% e le automobili del 10% [6]. Per questo la ratifica del Parlamento Europeo del 27 aprile scorso è stata seguita con grande attenzione, soprattutto, come già anticipato, alla luce di due eventi strettamente correlati che trovano la loro origine nell’ottobre 2019, quando il Primo Ministro Boris Johnson accettò l’inserimento del Protocollo per l’Irlanda del Nord nell’Accordo di recesso dall’UE. Onde evitare la reintroduzione di un confine fisico tra la Repubblica d’Irlanda e l’Irlanda del Nord, rimosso nel 1998 a seguito dell’Accordo del Venerdì Santo, che pose fine al lungo conflitto interetnico nordirlandese, il Protocollo prevede la creazione di una frontiera interna al Regno Unito, precisamente nel Mare d’Irlanda, tra l’Irlanda del Nord e il resto del Regno. La peculiarità del Protocollo è quella di assegnare all’Irlanda del Nord uno status speciale. Infatti, essa rimarrà parte del Mercato Unico Europeo e sarà soggetta alle regole europee in materia commerciale, ad esempio riguardo i sussidi statali [7]. Il Protocollo si è rivelato uno degli elementi più spinosi da negoziare lungo tutto il processo ed è rimasto molto controverso e contestato dai conservatori, soprattutto da parte degli “unionisti”, che ne chiedono l’abolizione [8]. Ritornando agli ultimi avvenimenti, gli scontri della prima metà di aprile tra i manifestanti e le forze dell’ordine in diverse città dell’Irlanda del Nord, inizialmente considerati come risposta alla decisione della polizia di non avviare un’indagine sulla presunta violazione delle misure governative anti-Covid contro gli oltre 2000 partecipanti al funerale del repubblicano Bobby Storey del giugno 2020, tra cui 24 politici del Sinn Féin, sarebbero direttamente riconducibili agli sviluppi della Brexit e la separazione dal Regno Unito[9]. Inoltre, la decisione dell’UE di avviare una procedura di infrazione contro il Regno Unito è stata presa in risposta a quanto dichiarato dal Governo britannico a metà marzo, e cioè l’intenzione di prorogare unilateralmente fino al 1° ottobre il periodo di grazia per l’implementazione delle dogane con l’Irlanda del Nord. Questo periodo era stato accordato inizialmente fino al 1° aprile per dare tempo agli operatori economici di prepararsi [10], e riguarda solo alcune tipologie di importazioni, quali i rifornimenti per i supermercati e le consegne dei pacchi [11], mentre per altre, come il commercio di animali vivi, piante e cibo considerato ad alto rischio – regolato dai requisiti Sanitari e fitosanitari (SPS) – sarà necessario aspettare il 2022 [12]. Per la seconda volta da ottobre, Bruxelles in una lettera ha accusato Londra di aver violato il principio di buona fede, rischiando di compromettere l’equilibrio irlandese raggiunto con l’Accordo del Venerdì Santo. Nel primo caso fu una proposta di legge conosciuta come “Internal Market Bill” a far avviare a Bruxelles un’azione legale, poiché essa avrebbe apertamente violato il diritto internazionale. Mentre è in corso la valutazione da parte della Commissione della risposta del governo britannico alla lettera, ricevuta il 14 maggio [13], la situazione rimane molto delicata. Gli scontri nordirlandesi hanno dimostrato da una parte l’esistenza di una crescente tensione sociale, e dall’altra, ancora una volta, le crescenti difficolta nel mettere in pratica la Brexit. Ad esse si aggiungono le speculazioni sul futuro della Scozia, in cui il “remain” nel 2016 prevalse con il 62% contro il 46,6% nazionale, nonché riguardo una possibile riunificazione dell’Irlanda, sulla quale gli ultimi sondaggi registrano una maggioranza storica [14]. Le recenti elezioni per il rinnovo del Parlamento scozzese possono essere un vero turning point sulla futura permanenza della Scozia nel Regno Unito, in quanto la coalizione di maggioranza, apertamente indipendentista, composta dal Partito Nazionale Scozzese e i Verdi ha ottenuto 72 seggi su 129, e la sua leader, Nicola Sturgeon, è pronta ad avviare un secondo referendum dopo quello del 2014 [15]. Il Regno Unito rischia così di disgregarsi tra pressioni interne ed esterne, ed è importante tenere a mente come queste nuove realtà e i problemi che esse comportano sono solo le conseguenze della scelta del popolo britannico di uscire dall’UE. Quest’ultima rimane pronta ad utilizzare tutti gli strumenti in suo possesso per far rispettare l’Accordo, tra cui la possibilità di reintrodurre unilateralmente misure commerciali [16], tuttavia, secondo Michel Barnier è altresì importante che la vicenda Brexit sia un monito per l’Unione, ossia che impari la lezione nel comprendere le esigenze e i sentimenti popolari [17]. [1] Consiglio dell’Unione Europea, Decisione 5022/3/21, 28 aprile 2021. https://bit.ly/2SFdc2q [2] Commissione Europea, Comunicato stampa. Lettera di costituzione in mora al Regno Unito, 15 marzo 2021. https://bit.ly/3h8KPUp [3] Commissione Europea, L’accordo sugli scambi e la cooperazione tra l’UE e il Regno Unito. https://bit.ly/3xNN8SR [4] Parlamento Europeo, Note sintetiche sull’Unione Europea, ottobre 2020. https://bit.ly/2RyENlc [5] globalEDGE, United Kingdom: Trade Statistics. Data di consultazione 11 maggio 2021. https://bit.ly/33ql7CF [6] Commissione Europea, EU-UK Trade and Cooperation Agreement, Dicembre 2020. https://bit.ly/3f4K0Jy [7] Fox, B., “Uncertain” Brexit deal could see UK bound by EU subsidies rules, lawmakers warn, EURACTIV, 9 aprile 2021. https://bit.ly/3f1ctQv [8] Ibidem. [9] O’Carroll, L., Northern Ireland unrest: why has violence broken out?, The Guardian, 8 aprile 2021. https://bit.ly/3y0hzVY [10] Campbell, J., Brexit: What will happen when EU-GB grace periods expire?, BBC, 10 marzo 2021. https://bbc.in/3tpUad6 [11] O’Leary, N., Brexit: EU takes action against UK over extension of grace period, The Irish Times, 15 marzo 2021. https://bit.ly/2R13RS2 [12] Partridge, J., UK forced to delay checks on imports from EU by six months, The Guardian, 11 marzo 2021. https://bit.ly/3h5Brks [13] RTE, EU mulls 'next steps' as UK responds to Brexit lawsuit, 15 maggio 2021. https://bit.ly/3vta4Fj [14] Jefferson, R., It’s Me, Jack. My United Kingdom Is Fraying, 5 maggio 2021. https://bloom.bg/3uookP4 [15] Brooks, L., Carrell, S., SNP election win: Johnson sets up summit as Sturgeon pledges second referendum, The Guardian, 8 maggio 2021 https://bit.ly/3tFIQJH [16] Zalan, E., EU warns UK of using 'real teeth' in post-Brexit deal, EUobserver, 28 aprile 2021 https://bit.ly/3y3Kuby [17] Ibidem. Anna Rita Parisi e Matteo Buccheri (Elections Hub)
Il 18 giugno prossimo si terranno in Iran le tredicesime elezioni presidenziali. Sarà eletto a suffragio universale diretto il nuovo Presidente della Repubblica che sostituirà l’uscente Hassan Rouhani, esponente del fronte moderato-riformista in carica dal 2013. Il quadro normativo attinente alla Presidenza della Repubblica è disciplinato dalla prima sezione del capitolo IX della Costituzione iraniana, che non indica un numero massimo di mandati presidenziali (della durata di quattro anni) per ciascun candidato, ma impedisce l’immediata ricandidatura a coloro che abbiano ottenuto due mandati consecutivi. Per poter comprendere e seguire le vicende elettorali del gigante persiano, è necessario prima scomporre il sistema politico della Repubblica Islamica dell’Iran. Il sistema politico della Repubblica Islamica dell’Iran L’Iran contemporaneo affonda le proprie radici nel 1979, il turning point per eccellenza non solo per il Paese ma per tutto il quadrante mediorientale. Nel febbraio di quell’anno venne portata a definitivo compimento la rivoluzione iraniana, con la quale venne rovesciata la monarchia autoritaria di Mohammad Reza Shah Pahlavi, la cui dinastia regnava dal 1925. Gli intenti rivoluzionari furono confermati nel mese successivo in un referendum, il quale sancì la nascita della Repubblica Islamica con quasi il 99% dei voti a favore. La nuova Costituzione, approvata con un risultato simile nel dicembre dello stesso anno, sostituì quella ormai desueta del 1906 e delineò l’impalcatura politica del nuovo Iran. La Repubblica Islamica dell’Iran è un sistema ibrido all’interno del quale convivono istituzioni repubblicane e islamiche. Inizialmente, però, l’ambizione del grande ayatollah Khomeini, leader indiscusso della rivoluzione grazie ai grandi tratti carismatici e alle straordinarie abilità comunicative, era quella d'istituire un governo puramente islamico. La ritrattazione del chierico sciita verso una forma più moderata fu dovuta, da un lato, dall’eterogeneità del fronte interno che aveva condotto la rivoluzione e, dall’altro, dalla necessità di ottenere consenso internazionale. All’interno della Repubblica Islamica, la bilancia del potere pende verso le istituzioni islamiche che rappresentano la volontà divina dello Stato e derivano da una distribuzione del potere dall’alto verso il basso. Esse sono la Guida Suprema (attualmente l’ayatollah Ali Khamenei), il Consiglio dei Guardiani, l’Assemblea degli Esperti e il Consiglio per il Discernimento. La Guida Suprema, necessariamente un membro del clero sciita, è l’istituzione più importante della Repubblica Islamica e rimane in carica a vita. In qualità di capo di stato, è al comando delle forze armate ed esercita funzioni d'indirizzo politico, di nomina e giudiziarie. Il Consiglio dei Guardiani è composto da 6 teologi, nominati direttamente dalla Guida Suprema e 6 giuristi, nominati per via indiretta anch’essi dalla Guida Suprema. Al Consiglio spetta il compito di assicurare la conformità delle leggi alla shari'a islamica e alla Costituzione, verificare il rispetto dei requisiti delle candidature per la Presidenza della Repubblica e filtrare anche i candidati alle elezioni parlamentari, nonché esercitare il proprio controllo sulla regolarità delle elezioni e dei referendum. L’Assemblea degli Esperti elegge la Guida Suprema, qualora non venga individuata da una netta maggioranza del popolo, e ne revoca la carica se non è più in grado di svolgere le proprie funzioni. È costituita da 88 membri, prima preselezionati dal Consiglio dei Guardiani e poi eletti ogni 8 anni a suffragio universale. Il Consiglio del Discernimento è stato istituito con la revisione costituzionale del 1989 per redimere le controversie tra Parlamento e Consiglio dei Guardiani. Le istituzioni repubblicane sono il Parlamento (Majles) e la Presidenza della Repubblica. Detentore del potere legislativo, il Majles è eletto ogni 4 anni a suffragio universale diretto ed ha potere di controllo sull’esecutivo. L’istituzione repubblicana più importante invece è il Presidente della Repubblica, seconda carica nazionale e capo dell’esecutivo dopo la riforma del 1989 che ha abolito la carica di Primo Ministro. I candidati per entrambe le istituzioni repubblicane devono prima superare il filtro islamico del Consiglio dei Guardiani, che ha quindi una notevole influenza sia sul potere legislativo sia su quello esecutivo. Pertanto, nonostante le libere elezioni e la libertà di condurre la propria campagna elettorale, il sistema politico iraniano è definito ibrido, dal momento che l’omologazione dei candidati attuata dall’establishment islamico pregiudica la naturale competizione politica[1]. Il sistema elettorale iraniano Il sistema elettorale iraniano è basato sull’elezione diretta da parte dei cittadini aventi diritto di voto di tre organi dello Stato: il Majles, composto da 290 seggi, l’Assemblea degli Esperti (Majles-e Khobregān) e il Presidente. Secondo quanto stabilito dagli articoli 113 e 114 della Costituzione iraniana, il Presidente è la seconda carica più importante del Paese dopo la Guida Suprema (Rahbar) ed è eletto direttamente da tutti i cittadini maggiorenni per un mandato di quattro anni. Per una possibile rielezione sono consentiti due mandati consecutivi e un eventuale terzo mandato non consecutivo. I candidati alle elezioni presidenziali devono soddisfare una serie di qualifiche espresse nell’articolo 115 della Costituzione. Il Presidente può essere eletto solo tra illustri personalità religiose o politiche che abbiano i seguenti requisiti: essere di origine iraniane e in possesso della cittadinanza iraniana, essere competente e giudizioso, avere una buona reputazione, onestà e devozione, essere sincero e fedele agli elementi fondanti della Repubblica Islamica dell’Iran e alla fede ufficiale del Paese. Poche settimane fa, il Consiglio ha inoltre dichiarato che avrebbe preso in considerazione solo candidati tra i 40 e i 75 anni d’età, senza precedenti penali e con un’esperienza di almeno 4 anni di rilevante leadership dirigenziale. La lista dei candidati viene revisionata dall’Agenzia per il Monitoraggio delle Elezioni (EMA), sotto il controllo diretto del Consiglio dei Guardiani che gode del potere della “supervisione approvativa”. Le elezioni vengono vinte con una maggioranza assoluta e, qualora questa non venga raggiunta da nessuno dei candidati, è prevista la possibilità di un ballottaggio tra i due sfidanti con più voti il venerdì successivo alle elezioni. È interessante notare che il Consiglio non annuncia pubblicamente le ragioni dell’esclusione, ma afferma di spiegarle privatamente ai singoli candidati. In più, la partecipazione delle donne non è esclusa a priori, ma nella pratica, in più di quarant’anni di presidenziali, nessuna candidata è stata mai preselezionata dal Consiglio dei Guardiani. Una volta vinte le elezioni, il neo Presidente eletto deve ricevere l’appoggio e la fiducia del Parlamento e potrà poi espletare il suo potere esecutivo. Il Presidente risponde direttamente alla Guida Suprema e al Parlamento, e di quest’ultimo deve approvare le decisioni o gli atti referendari. Inoltre, è incaricato della nomina dei propri ministri, che non possono cambiare fino a fine legislatura. In più, nomina anche una parte dei membri del Consiglio per il Discernimento, un’assemblea amministrativa a supporto della Guida Suprema. Presiede il Supremo Consiglio per la Sicurezza Nazionale e sovrintende numerosi uffici governativi e organizzazioni. Dunque, il Presidente è la figura più nota e visibile del panorama politico iraniano, sia a livello nazionale che internazionale. Tuttavia, il suo potere è spesso giudicato fittizio, in quanto direttamente o indirettamente influenzato dalla Guida Suprema, che è estremamente influente sulla nomina di funzionari governativi e ha l’ultima parola sulle decisioni di politica estera, sul nucleare e sulle scelte militari e di sicurezza nazionale. [1] Cfr. P. Abdolmohammadi e G. Cama, L’Iran contemporaneo. Le sfide interne e internazionali di un paese strategico, Milano, Mondadori Università, 2015, pp. 44-62. Si consiglia la lettura di quest’opera per approfondimenti. Vittorio Ruocco, Programma sulla politica estera italiana
Alla citazione di “dematerializzazione” la mente di ciascuno viene rimandata allo scorso decennio, quando il processo di digitalizzazione dei documenti e delle comunicazioni incombeva, come una spada di Damocle, sulla Pubblica Amministrazione italiana. Oggi, nel 2021, è facilmente intuibile come tutte le risorse digitali “di valore” vadano protette da continui, piuttosto che episodici, tentativi di violazione di banche dati sempre più preziose. Non sono poche, infatti, le conseguenze che atti di pirateria informatica - tra i dieci rischi più pericolosi del pianeta secondo il World Economic Forum[1] - possono scatenare contro elementi sensibili della macchina statale: esponenti politici, dirigenti aziendali, comitati per brevetti, uffici contabili e così via. Episodi come il tentativo di hackeraggio dell’account Whatsapp dell’on. Raffaele Volpi, presidente del COPASIR[2] oppure come l’attacco hacker alla divisione aerostrutture e velivoli di Leonardo Spa[3], possono incutere timore e potenzialmente minare gravemente alla sicurezza nazionale. Scaramucce, queste, se accostate ai più noti e importati attacchi di cyber war come Wannacry[4] nel 2017, i cui effetti hanno prodotto milioni e miliardi di perdite, o il recentissimo attacco a Colonial Pipeline, la più grande rete di condutture petrolifere degli Stati Uniti. L’esigenza di rafforzare la protezione delle infrastrutture critiche di rilievo nazionale è diventata sempre più imperante ed è stata rilevata dai vari Esecutivi susseguitisi nell’arco degli ultimi vent’anni. Già nel 2002 l’allora Ministro per l’innovazione e le tecnologie Lucio Stanca riconobbe che “le informazioni gestite dai sistemi informativi pubblici costituiscono una risorsa di valore strategico per il governo del Paese”[5], postulato necessario per la successiva istituzione di un Comitato tecnico sulla sicurezza informatica e per l’avvio di una “rapida autodiagnosi” di tutte le pubbliche amministrazioni circa il livello di adeguatezza dell’infrastruttura ICT. Il taglio strategico, quasi allarmante, dato dall’allora governo Berlusconi II, non è stato sottovalutato da nessun Governo degli ultimi due decenni ed ha evidenziato sempre più il carattere geopolitico[6] della sicurezza cibernetica. Un caso eclatante, a dimostrazione di ciò, è la rimozione, nel luglio 2017, poi la messa al bando dell’azienda di cybersecurity russa Kaspersky Lab da parte dell’amministrazione Trump, motivata dalla necessità di “assicurare l’integrità e la sicurezza del sistema governativo e dei suoi network”. Per comprendere la natura più geopolitica che tecnica della sfera cibernetica, basti considerare che nell’ultima “Relazione sulla politica dell’informazione per la sicurezza 2020”, presentata annualmente dal DIS al Parlamento, il termine “cyber” ricorre oltre 70 volte. Nella sezione interamente dedicata alle minacce cibernetiche, si rileva come del 62,7% degli episodi di hackeraggio non si conoscano gli obiettivi, mentre solo il 2,5% di tali attacchi ha finalità di spionaggio. Gli attacchi, per quanto non manifestatamente volti a sottrarre informazioni strategiche, evidenziano come le istituzioni pubbliche siano prevalentemente coinvolte (83% verso sistemi IT di soggetti pubblici) rispetto ai soggetti privati, esposti in misura maggiore sul lato bancario e delle infrastrutture digitali. Sebbene la caratteristica geopolitica della minaccia cibernetica lasci intendere l’esistenza di approcci politici e nazionali al settore, l’azione di contrasto si rivela essere da un lato non più relegata al solo livello ministeriale ma affiancata anche dall’apparato dei servizi segreti; dall’altro, supportata dall’attivismo essenzialmente europeo piuttosto che nazionale. L’apparato istituzionale italiano deputato al contrasto delle minacce cibernetiche è individuato sia in alcuni ministeri, definiti “autorità competenti NIS”, sia nel Dipartimento per le Informazioni e la Sicurezza (DIS), unico punto di contatto tra le autorità italiane e il meccanismo di coordinamento europeo. Di fatti, l’organizzazione nazionale è stata predisposta in attuazione della famosa “direttiva NIS”[7], con la quale l’Unione Europea ha individuato alcuni settori di applicazione della disciplina normativa, settori che il Governo italiano non ha ritenuto opportuno estendere. Non solo, la procedura di “listing” di sanzionamento dei soggetti coinvolti in operazioni di hackeraggio attiene al livello europeo e permette a ciascuno Stato membro di introdurre soggetti e/o entità ritenute pericolose, situate al di fuori – e non all’interno – del territorio comunitario. Ciononostante, è tutto italiano lo strumento che nel corso dell’ultimo decennio ha acquisito sempre più importanza nella tutela degli interessi nazionali: il golden power. Sebbene la normativa sia stata rivista a seguito di una procedura d’infrazione europea, già nel 1994 l’Italia si era dotata di quest’istituto giuridico dedicato alla tutela dell’interesse pubblico nelle aziende statali in corso di privatizzazione, i cui effetti consistevano in poteri speciali e di veto su operazioni aziendali rilevanti. L’imposizione di condizioni specifiche, il veto su deliberazioni assembleari, l’opposizione all’acquisto di partecipazioni, obblighi di notifica. Questi erano, sommariamente, i margini d’azione governativi, ulteriormente ampliati dal governo Monti nel 2012 e dal governo Conte in occasione dell’emergenza pandemica [8]. In quest’ultimo caso, è proprio la cybersecurity a rientrare nei campi di applicazione del golden power governativo, risultato di quanto i disagi socioeconomici provocati dal COVID abbiano avuto l’effetto di dover estendere ed accrescere il perimetro di sicurezza nazionale. Consci di tutto ciò, è salita alla ribalta la proposta di creazione di un’agenzia interamente dedicata alla cybersicurezza. Durante l’intervento ad un convegno su “Le Nuove Reti per la crescita, l’industria italiana, i cittadini” organizzato da Fratelli d’Italia l’8 aprile scorso, il Sottosegretario con delega all’intelligence, Franco Gabrielli [9], ha lanciato l’idea di creare “un’agenzia che tratti in maniera olistica il tema della sicurezza cibernetica” e che riporti le competenze su cyber intelligence, cyber defense e cyber investigation nell’ambito strettamente pubblico. Dopo il naufragato progetto dell’Istituto italiano di Cybersicurezza (IIC) pensato da Conte, questa struttura dovrebbe alleggerire il carico dei Servizi su questo tema e contrastare i tentativi di infiltrazione nel tessuto politico-istituzionale nazionale. Un chiaro esempio recente è l’allarme lanciato da un tweet del presidente dell’AIAD[10], Guido Crosetto – rilanciato da un articolo dal titolo piuttosto provocatorio: “Pronto, polizia? Risponde la Cina…” – con il quale evidenzia l’assenza di adeguate misure di prevenzione nel bando di gara per le telecomunicazioni delle forze di polizia. Sicurezza nazionale o coordinamento internazionale? In un’oscillazione costante tra questi due estremi, è un bivio di fronte al quale il governo Draghi si trova, con una leggera inclinazione alla prima scelta piuttosto che alla seconda. [1] Nel The Global Risk Report 2021, i guasti delle infrastrutture ICT sono posizionati al 10° posto tra i top risk per impatto, mentre la vulnerabilità della sicurezza cibernetica è al 9° posto tra i top risk per probabilità. (World Economic Forum 2021) [2] Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica. Istituito dall’art. 30 della Legge 3 agosto 2007, n. 124, il COPASIR ha funzioni consultive e di controllo dell’operato governativo nell’ambito del segreto di Stato e delle attività di intelligence. [3] Leonardo S.p.A. è un’azienda con base in Italia ma operativa a livello globale attraverso joint venture e imprese sussidiarie, protagonista mondiale nell’aerospazio, nella difesa e nella sicurezza. [4] WannaCry è un malware ransomware che, nel 2017, ha violato la sicurezza dei computer di diversi atenei in 74 nazioni, tra cui Russia, Cina, India, Egitto, Ucraina, Italia e, soprattutto, il Regno Unito. [5] Direttiva del Ministro per l’innovazione e le tecnologie, d’intesa con il Ministro delle comunicazioni, del 16 gennaio 2002 [6] A tal fine, per «geopolitica» s’intende «la disciplina che lega le caratteristiche di un luogo fisico e il rapporto fra spazio e politica di quel luogo». La definizione è stata enunciata dalla prof.ssa Elisabetta Trenta, già Ministro della Difesa, in un’intervista al giornale online StartupItalia. [7] Network and Information Security (NIS) [8] Con il decreto-legge 8 aprile 2020, n. 23, convertito con modificazioni dalla legge 5 giugno 2020, n. 40 (c.d. “decreto liquidità”), il Governo ha esteso lo “scudo”, già previsto per sicurezza nazionale, energia, trasporti e comunicazioni, a nuovi settori strategici quali: alimentare, assicurativo, sanitario, finanziario e sicurezza cibernetica. [9] Autorità Delegata per la sicurezza della Repubblica, nominato ex L. 124/2007. Già direttore di SISDE, AISI e Capo della Polizia. [10] Federazione aziende italiane per l’aerospazio, la difesa e la sicurezza a cura di Mario Ghioldi, Osservatorio sull'Unione europea
In linea con il Green Deal europeo e con il recente Next Generation EU, fortemente incentrato sulla transizione ecologica, lo scorso 24 febbraio la Commissione Europea ha annunciato la nuova “Strategia di adattamento ai cambiamenti climatici” (The EU Strategy on Adaption to Climate Change)1. Basato sui principi della precedente Strategia adottata nel 2013, il nuovo progetto sposta l’attenzione dalla pianificazione all’implementazione delle misure di adattamento climatico. Le conseguenze del cambiamento climatico, oltre ad avere un forte impatto sulla salute ed il benessere delle popolazioni mondiali ed europee, portano ad un deciso rallentamento della crescita economica dell’Unione Europea (UE), i cui impianti produttivi e finanziari sono già stati messi a dura prova dall’emergenza sanitaria. Secondo il documento strategico, il surriscaldamento globale potrebbe portare ad una perdita annuale del PIL europeo di 1.36%, pari a 170 miliardi di euro2. Inoltre, la Strategia ha sottolineato come il cambiamento climatico abbia portato ulteriori effetti che influenzano indirettamente la vita degli europei, tra essi, il piano strategico pone una particolare attenzione sull’aumento dei flussi migratori e sulle maggiori difficoltà degli scambi commerciali a livello globale e regionale. In tale contesto, la Strategia evidenzia la necessità di adottare ed implementare politiche di adattamento climatico sia a livello locale che nazionale, includendo gli attori pubblici e privati dei vari paesi membri. Difatti, secondo il documento, al fine di costruire una società resiliente al clima, tutte le parti della società hanno il compito di migliorare e condividere la propria conoscenza sugli impatti del cambiamento climatico e le conseguenti soluzioni di adattamento. In questo ambito, la Strategia dovrebbe seguire quattro macro-obiettivi: l’adattamento climatico deve essere capace e intelligente (smarter), rapido (swifter), più sistematico (more systemic) e deve essere in grado d’intensificare l’azione internazionale sull’adattamento ai cambiamenti climatici3. Al fine di conseguire un adattamento efficace, la Strategia invita i policy makers ad adottare politiche che stimolino ed incentivino ricerche sull’adeguamento climatico con l’obiettivo di raccogliere maggiori dati sui rischi, le perdite e le conseguenze legate alle mutazioni climatiche. All’interno di tale contesto, rientra anche il miglioramento della piattaforma europea Climate-ADAPT. Difatti, tale strumento digitale, nato attraverso la partnership tra la Commissione Europea e l’Agenzia europea dell’Ambiente (AEA), nel corso degli anni è diventato un importante mezzo per attori pubblici e privati nel condividere dati ed informazioni inerenti all’adattamento al cambiamento climatico. Il secondo obiettivo riguarda la rapidità di azione da parte degli attori pubblici e privati al fine di adottare misure e soluzioni per l’adattamento climatico. Oltre a ridurre i rischi legati al cambiamento climatico (come ad esempio quelli riguardanti i disastri naturali), lo scopo di tali provvedimenti è quello di aumentare la protezione degli ecosistemi presenti nell’Unione Europea. In particolare, tra i vari elementi, la Strategia sottolinea l’importanza di proteggere e salvaguardare le acque dolci del continente europeo. Un punto cardine della Strategia riguarda il terzo obiettivo, il quale segna una sostanziale differenza con il piano precedente in quanto evidenzia l’importanza dell’implementazione ad ogni livello di governance delle politiche e misure di adattamento climatico adottate dagli attori pubblici e privati. A riguardo, il documento strategico sottolinea come ci siano le seguenti priorità trasversali:
Infine, la Strategia dev’essere in grado di coordinare ed intensificare le varie azioni internazionali sull’adattamento ai cambiamenti climatici. A riguardo, l’UE aumenterà il supporto alla resilienza climatica internazionale facilitando la fornitura di risorse, gli scambi commerciali ed incentivando la finanza internazionale ad allocare le proprie risorse per le politiche, le misure ed i progetti inerenti all’adattamento ai cambiamenti climatici. La Strategia è stata accolta in maniera positiva dagli stati membri ed è stata fortemente sponsorizzata dal Vicepresidente della Commissione e Commissario europeo per il clima Frans Timmermans. Difatti, secondo l’olandese, di fronte ad un cambiamento climatico irreversibile, i cui effetti si fanno già sentire all’interno ed all’esterno dell’Unione Europea, la nuova Strategia è un utile strumento per preparare i governi europei alle future sfide portate da nuovi contesti ambientali. Timmermans inoltre sostiene che solamente attraverso una preparazione dettagliata e coordinata, come suggerito dalla stessa Strategia, il continente europeo avrà la possibilità di costruire un futuro resiliente ai cambiamenti climatici4. Proprio queste motivazioni e necessità, che uniscono i governi di diverso colore e credo politico degli stati membri, dovrebbero portare all’approvazione della Strategia che verrà discussa dalla Commissione con i vari paesi nel prossimo giugno durante il prossimo Consiglio “Ambiente”, il quale è responsabile della politica ambientale dell’UE, compresa la protezione dell’ecosistema e l’uso prudente e sostenibile delle risorse. Attraverso l’approvazione della Strategia, l’Unione Europea entra in una nuova dimensione. Adottando il documento infatti, sia la Commissione che i governi degli stati membri riconoscono come le conseguenze derivate dal cambiamento climatico siano irreversibili o difficilmente modificabili. Di conseguenza, la stessa Unione cambia la propria prospettiva, non focalizzandosi solamente sulla lotta al cambiamento climatico ma riconoscendo come questo processo sia ormai incontrastabile e possa essere solamente mitigato attraverso politiche di adattamento. In questo contesto, il richiamo alla partecipazione degli attori locali, sia di carattere pubblico che privato, assume un ulteriore significato. Infatti, di fronte alla consapevolezza dell’irreversibilità del cambiamento climatico, la Strategia inclusiva della Commissione Europea sembra invitare i decisori politici di tutti livelli ad acquisire una maggiore cognizione di come le conseguenze derivate dalle mutazioni degli ecosistemi non siano delle nozioni astratte ma stiano già portando dei cambiamenti rilevanti all’interno delle società europee. In tale contesto, solo misure intelligenti, rapide, sistematiche e soprattutto coordinate tra i differenti livelli decisionali potranno essere efficaci per la sfida all’adattamento climatico, la quale è ormai diventata una realtà con cui tutti noi dobbiamo avere la consapevolezza di dover convivere ed interagire.
Un riavvicinamento all’Occidente? Il caso delle relazioni commerciali ucraine con Francia e Giappone21/5/2021
a cura di Italo Durante, Osservatorio sull'Unione europea
Negli ultimi anni, a partire dall’inizio del mandato di Zelensky nel 2019, l’Ucraina si è resa protagonista di un progressivo riavvicinamento alll’Unione Europea e alle entità atlantiche. L’approccio ucraino si concentra sull’aspetto economico, richiedendo uno sforzo sul lungo termine. Per rendere possibile questa inclusione, Kiev ha dovuto vagliare riforme di natura economica e adattare il paese ai flussi del libero mercato internazionale. Questo processo, caratterizzato da un marcato approccio filo-europeista, è stato reso possibile anche grazie agli sforzi della presidenza Poroshenko, precedente a quella dell’attuale presidente Volodimir Zelensky. Il mandato Poroshenko si contraddistinse, infatti, per la firma dell’Accordo di Associazione tra l’Unione Europea e Kiev, entrato in vigore nel 2017. Recentemente si è tenuto il settimo meeting del Consiglio di Associazione tra Bruxelles e Kiev. Proprio in questa occasione, l’Unione ha riaffermato la sua volontà di sostenere l’indipendenza economica e territoriale dell’Ucraina, notando, nonostante le difficoltà e il momento di crisi economica globale, gli sforzi ucraini nell’attuare una concreta riforma economica nel Paese. Si noti che, in occasione del incontro avvenuto l’11 febbraio 2021, proprio Bruxelles ha ribadito la sua intenzione di instaurare rapporti più profondi con l’Ucraina, firmando l’Accordo di Associazione e l’inerente DCFTA come punto di partenza. [1] Le relazioni con l’Unione Europea non sono l’unico segnale di avvicinamento ucraino ai framework occidentali. Dal 2008, infatti, Kiev è un membro dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, grazie alla quale l’Ucraina ha ampliato esponenzialmente i propri orizzonti economici, sempre al fine di corroborare il processo di indipendenza economica dopo il periodo sovietico. In questo senso, Kiev ha avviato un percorso di potenziamento globale delle proprie azioni commerciali arrivando ad instaurare rapporti di libero scambio bilaterale con Israele e ad intraprendere trattative analoghe con il Giappone. Oltre alla pur centrale questione del profitto economico, è possibile rintracciare in questo approccio una strategia geopolitica votata alla occidentalizzazione dell’Ucraina, ormai esausta della sfera di influenza esercitata dalla Russia e volenterosa di ottenere una possibilità di crescita nazionale come è accaduto per altri Paesi del blocco post-sovietico. Lo dimostra l’accelerazione ucraina sul processo di adesione alla NATO, seppure le relazioni tra le parti siano attive dal 1994. Anche in questo caso, il processo di occidentalizzazione del Paese è graduale e l’ufficializzazione della richiesta di adesione alla NATO arriva soltanto nel 2008. Nell’ultimo anno, anche a causa dell'atteggiamento russo in Crimea e Donbass, Kiev ha cercato di velocizzare il processo di finalizzazione dell’adesione. Francia e Ucraina: la significativa presenza ucraina nel mercato europeo Per analizzare il potenziale ucraino sul mercato europeo, consideriamo gli scambi commerciali tra Kiev e Parigi. Questo permette una visione ad ampio spettro della natura della strategia commerciale ucraina, testata nei suoi rapporti a lungo termine con un Paese europeo economicamente solido come la Francia. L’Unione Europea è il primo partner commerciale per l’Ucraina con il 40% di esportazioni. Viceversa, Kiev è il 18esimo miglior partner commerciale europeo, e rappresenta l’1,1% del commercio totale dell’Unione[2]. L’Ucraina esporta principalmente materie prime di natura chimica, mineraria, siderurgica oltre che agricola. Kiev è quindi protagonista nel settore primario e secondario, come dimostrano le sue relazioni commerciali con Parigi. La Francia rappresenta il quarto partner commerciale europeo per Kiev, per un valore complessivo, nel 2020, di 2,1 miliardi di dollari. La solidità del rapporto commerciale, che non ha duramente sofferto la recessione globale, si fonda proprio sullo scambio di merci per il settore primario e secondario. Parigi esporta verso Kiev principalmente prodotti farmaceutici, autoveicoli e vino. Viceversa, l’Ucraina esporta alti volumi di grano e frutta secca. Tra i prodotti esportati da Parigi, acquisisce notevole rilevanza il settore delle automotive. In territorio ucraino, il Groupe Renault, già ben avviato nell’area regionale grazie all’asse Renault-Dacia, si è ritagliato il 17% del mercato automobilistico nazionale. Sempre nel settore della mobilità, la Francia è risultata essenziale per Kiev nel 2020. Dopo l’annessione russa della Crimea, mai riconosciuta dall’Unione, , l’Ucraina ha visto Mosca appropriarsi di circa il 75% della propria flotta navale. Nel 2020, la Francia è venuta in soccorso del fabbisogno navale ucraino, siglando un accordo di fornitura navale del valore di 136 milioni di Euro[3]. L’importanza dell’asse Kiev-Parigi non si ferma agli scambi commerciali. Infatti, il reale valore cooperativo tra i due Paesi va analizzato dal punto di vista dei fondi diretti di investimento. Ad oggi, 180 aziende francesi hanno affari di natura commerciale in Ucraina. Nel 2020, il valore degli investimenti diretti francesi in Ucraina ha raggiunto il valore di 1,1 miliardi di dollari. La chiave di questa prosperità risiede al momento negli investimenti nel settore primario e in quello informatico, i quali permettono a Kiev di ampliare la propria capacità d’azione nel settore terziario. Kiev e Tokyo: un potenziale accordo che piace a Bruxelles A seguito del recente incontro tra i rappresentanti governativi giapponesi e ucraini è stato ribadito l’interesse reciproco nel continuare le trattative per un accordo di libero scambio. Nello specifico, in data 22 marzo, il Ministro degli Affari Esteri giapponese ha dichiarato la sua intenzione di intrattenere nuovi round di trattative con la controparte ucraina. Come nel caso della Francia, l’Ucraina mantiene già relazioni commerciali con Tokyo per quanto riguarda l’esportazione di materie prime e di beni dallo scarso valore aggiunto. Questa importante occasione commerciale tra Kiev e Tokyo è in linea con gli interessi europei. Nel 2019, Giappone e Unione hanno firmato il memorandum “Il partenariato sulla connettività sostenibile e le infrastrutture di qualità tra l'Unione Europea e il Giappone" con l’obiettivo di prioritizzare gli investimenti atti ad intensificare la connettività tra Asia Centrale, Balcani Occidentali ed Europa Orientale. D’altra parte, il preesistente e vigente Accordo di Associazione tra Bruxelles e Kiev getta ottime basi per il governo giapponese, tradizionalmente cauto. Il patto accelera il processo della riforma economica ucraina, che a sua volta rilancia il fatturato commerciale ucraino e la possibilità di investimenti diretti giapponesi. E’ possibile prevedere un graduale aumento del commercio tra Kiev e Tokyo durante i futuri round di negoziazione, ma sarà difficile vedere investimenti diretti giapponesi sino alla sigla del patto di libero scambio. Ciò non deve essere preso come un atto di sfiducia, bensì si tratta di una pratica in linea con l’approccio commerciale giapponese. Tokyo, infatti, a partire dalla sua rinascita durante il mandato Ikeda, Primo Ministro dal 1960 al 1964, ha promosso gli interessi commerciali interni. Questo ha portato a un forte aumento delle esportazioni, offrendo allo stesso tempo dazi commerciali ridottio del tutto inesistenti per l’importazione di materie prime e beni intermedi; una pratica/approccio che si combina perfettamente con la natura produttiva di Kiev. Questa panoramica delle relazioni commerciali ucraine evidenzia il progredire del riorientamento economico in atto a Kiev. Negli ultimi cinque anni, l’Ucraina si è allontanata progressivamente dalla Russia, proprio partner commerciale storico. Questo processo è avvenuto dopo diversi tentativi russi di bloccare la firma ucraina dell’Accordo di Associazione con l’Unione, facendo leva su pressioni economiche e politiche, oltre che sul fabbisogno ucraino di gas russo. Ora che Kiev è riuscita a ridurre la propria dipendenza dai gasdotti russi, grazie ad una riforma sul gas e ad un asse di scambio creato all’interno dell’Unione Europea, l’Ucraina sembra pronta a finalizzare l’allontanamento economico da Mosca. La stipulazione dell’Accordo rappresenta una possibilità unica per Kiev: entrare nel mercato globale, costruendo una solidità commerciale indipendente, e svilupparsi come paese autonomo, una possibilità negata sin dalla creazione del blocco sovietico. L’avvicinamento all’Unione Europea, infatti, non comporterebbe l’applicazione di una nuova sfera di influenza, come nel caso russo, ma permetterebbe all'Ucraina di prendere in mano il proprio futuro, in ottica ampiamente democratica, e stabilirsi, coadiuvata dal supporto europeo, come una solida forza commerciale nel mercato globale. [1] "EUR-Lex - 22014A0529(01) - EN - EUR-Lex". 2021. Eur-Lex.Europa.Eu. https://bit.ly/2RPJHuh. [2] "Ukraine - Trade - European Commission". 2021. Ec.Europa.Eu. https://ec.europa.eu/trade/policy/countries-and-regions/countries/ukraine/. [3] Natalia Datskevych [Online]. "Trade Between Ukraine, France Remains Robust Despite Crisis | Kyivpost - Ukraine's Global Voice".09-04-2021. Kyivpost. https://bit.ly/3bt8ifc. a cura di Maria Alessandra Citro L’idea del Presidente Biden rispetto alla presenza degli Stati Uniti in Afghanistan si è evoluta nel corso degli anni, tanto quanto la guerra stessa. Nei giorni successivi agli attentati dell'11 settembre 2001, Biden si è professato favorevole all’uso della forza militare per combattere al-Qaeda e i talebani in Afghanistan. Come Vicepresidente, si è opposto all’aumento delle truppe nel paese voluto dall’amministrazione Obama, propendendo per operazioni mirate maggiormente all’antiterrorismo. Più recentemente, da presidente, attraverso le parole “Sono il quarto Presidente a decidere sulla presenza delle truppe americane in Afghanistan. Due repubblicani. Due democratici. Non passerò la responsabilità a un quinto”, si è impegnato a portare a casa le truppe americane in Afghanistan nel corso del primo mandato, mantenendo fede alla promessa fatta durante la campagna elettorale. Il ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan avverrà dunque entro l’11 settembre – 20 anni dopo gli attacchi terroristici a New York e Washington - e segna la conclusione di due lunghi decenni di guerra caratterizzati da innumerevoli vittime e feriti su entrambi i fronti. In Afghanistan, Joe Biden ha ricevuto in eredità un percorso pressoché incontrovertibile, la sua decisione riprende infatti l’accordo siglato a Doha nel 2020 dall’amministrazione Trump che prevedeva il ritiro delle truppe americane dal paese, in cambio della rinuncia dei Talebani ai legami con il terrorismo transnazionale di matrice jihadista. La decisione di Biden, risultato di quasi tre mesi di analisi della Casa Bianca, ha rimandato inoltre la scadenza fissata al 1° maggio, precedentemente negoziata tra l'amministrazione Trump e i Talebani. Egli tuttavia ha scelto di farlo “senza condizioni”, allontanandosi dall’approccio “condition based” della precedente amministrazione. La scelta “senza condizioni” di Biden si configura come una reale volontà di porre fine al coinvolgimento nel conflitto più lungo della storia americana e come una mossa razionale e coerente con l’idea che non esiste più una soluzione militare per l’Afghanistan. L’intelligence americana ritiene che la motivazione principale dello scoppio della guerra in Afghanistan – prevedere eventuali attacchi terroristici dei gruppi come al-Qaeda ai danni degli Stati Uniti – è ormai limitata e non richiede dunque una presenza militare americana nel paese. Col ritiro annunciato delle 2.500 truppe statunitensi e oltre 7.000 forze NATO attualmente presenti sul territorio afgano, il quadro del paese non differisce molto da quello del 2001. Dopo due decenni, la data emblematica dell’11 settembre 2021 segna una svolta memorabile per la storia americana, ma una svolta non esattamente vincente: l’Afghanistan rischia di essere lasciato nelle mani proprio dei Talebani che esattamente venti anni prima venivano cacciati grazie all’operazione “Enduring Freedom”. La differenza sostanziale è la sconfitta di al-Qaeda, sostituita in ogni caso dalle cellule affiliate all’ISIS. In Afghanistan, la presenza americana ha di fatto per due decenni assicurato alle forze governative locali la possibilità di mantenere il controllo e di restare al potere, finanziando e addestrando l’esercito locale, che si troverà a fare i conti con capacità e risorse fortemente limitate. La corruzione dilagante a livello governativo e l’escalation di violenza della preponderante presenza talebana, che attualmente controlla una porzione di territorio maggiore rispetto al 2001, minacciano la flebile stabilità di un paese che appare già fortemente diviso in: un’area, costituita da Kabul e le città centrali, meno controllata dal governo di Ashraf Ghani, ma obiettivo sensibile degli attentati Talebani e dell’ISIS; un’area a sud, comprese le città di Khandhar e Helmand, sotto il controllo talebano; i regni del nord dei tagiki e uzbeki nelle mani dei signori della guerra locali che fanno riferimento ad Abdullah Abdullah ed infine l’area del centro occupata dagli Hazara sciiti. Negli ultimi mesi, l'aumento della violenza dei talebani nei confronti del governo afgano ha inoltre bloccato i colloqui di pace in corso dal 2020 tra le parti. In tal senso, il ritiro delle truppe “senza condizioni” potrebbe rivelarsi disastroso per la popolazione afghana sistematicamente vessata dai talebani. L’Onu stima che una media di otto afgani sono rimasti uccisi quasi quotidianamente negli ultimi due anni, a causa dei combattimenti aumentati nonostante i negoziati. La United Nations Assistance Mission in Afghanistan ha documentato 8.820 vittime civili, identificando così l’Afghanistan come uno dei luoghi più letali del mondo, con gran parte della popolazione che non conosce il paese prima della guerra e la violenza di genere preponderante, in particolare ai danni delle donne, un target sempre più sensibile. A ciò si aggiunge che mentre USA e Kabul sembrano concordare sul fatto che una soluzione politica, piuttosto che una vittoria sul campo di battaglia, sia l'unica via percorribile per la pace, i Talebani restano fermi sulla decisione di non partecipare al summit previsto tra il 24 aprile e il 4 maggio prossimi a Istanbul, indispensabile per il raggiungimento dell’accordo secondo cui gli USA premerebbero per un governo ad interim formato dai Ghani e dai Talebani, proposta respinta finora dai leader talebani. Il punto è che con le truppe statunitensi e quindi anche della NATO fuori dal paese, i Talebani non hanno alcun incentivo a scendere a compromessi con il governo afgano. È infatti altamente improbabile che gli sforzi diplomatici americani senza la leva di una presenza continua di truppe abbiano successo. Ritirare le truppe senza condizioni potrebbe concretizzare l’idea che il paradigma della guerra globale al terrore dopo due decenni si è rivelata una strategia tutt’altro che vincente. Daniel Davis, un senior fellow del Defense Priorities Think Tank sostiene che il "ritiro delle truppe è da intendersi come una presa di coscienza realista da parte dell’amministrazione USA che la guerra perpetua non assicura alcuna protezione né per la sicurezza né per la tutela degli interessi. Per concludere, la decisione di optare per una strategia senza condizioni potrebbe voler dire che la visione strategica degli USA è cambiata ed è ormai orientata verso il quadrante Indo Pacifico, ruotando intorno all’orbita cinese e indiana, tuttavia restano ancora poco chiare le scelte che l’amministrazione americana intende perseguire dopo l’11 settembre 2021. Non si può escludere inoltre che attualmente altre potenze in Afghanistan subentrino agli USA per impedire la totale presa di potere dei Talebani. L’India in passato, ad esempio, ha già fornito aiuti militari ed economici a Kabul, e la sua presenza nel paese potrebbe oltretutto mitigare l’influenza del Pakistan, che propende per un governo talebano. Nel caso specifico cinese, resta da capire se i legami economici e militari tra Cina e Pakistan, nell’ambito dell’ingente progetto infrastrutturale China–Pakistan Economic Corridor, influiranno sulle decisioni del governo di Pechino. La resa statunitense rappresenta infatti una minaccia per la sicurezza nella zona, che potrebbe riflettersi sulla provincia autonoma dello Xinjiang, ma allo stesso tempo potrebbe rivelarsi un’opportunità fondamentale per estendere la sfera di influenza cinese in tutto il paese, alleandosi con quest'ultimo nella lotta all’estremismo islamico. ![]()
Lorenzo Repetti, Osservatorio sull'Unione europea
“Da secoli ormai, i tedeschi sono la più europea di tutte le nazioni europee”1 affermava lo storico Stürmer negli anni in cui si rendeva tra i problematici protagonisti del Historikerstreit, un dibattito sulla memoria del terzo Reich nella ancora acerba Repubblica Federale di Germania. Queste parole accorrevano in realtà a conferma di un eccezionalismo tedesco radicato nella storia del continente e veicolato da portavoce al contempo illustri e controversi quali Nietzsche e Heidegger. La catastrofe hitleriana aveva certo indelebilmente macchiato questa pretesa di supremazia filosofico-culturale. Ne era scaturita una Germania rifondata in chiave ordoliberale, in cui lo Stato rinunciava a qualsiasi ambizione identitaria per portarsi a garante di una libertà economica elevata a fondamento democratico primo ed irrinuciabile2. L’Europa seguì la metamorfosi necessaria di uno Stato del quale per secoli si era percepita come l’emanazione diretta in un rapporto di stretta corrispondenza che Glendinning descrive in questi termini: “la Germania […] ha sempre pensato sé stessa in un orizzonte essenzialmente europeo, un orizzonte europeo che essa inventa e proietta come il contesto del proprio destino spirituale”3. I sedici anni di cancellierato di Angela Merkel non sono quindi significativi solo alla luce della sua longevità politica, ma anche in riferimento ad una storia che fa della Germania il fulcro inaggirabile dell’intero progetto europeo. Capire cosa attendersi da un avvicendamento al governo tedesco diventa allora indispensabile per intuire gli orientamenti futuri dell’Unione Europea (UE). Gli ultimi sedici anni di cancellierato sono stati contraddistinti da un’estrema mutevolezza politica. Occorre certo sottolineare che Merkel, affettuosamente soprannominata die Mutti (mamma), ha saputo rappresentare un polo di stabilità in un contesto politico quanto meno volubile. In Germania, Merkel rimane figura di garanzia alla guida di ben quattro governi che portano la coppia CDU-CSU ad allearsi alternativamente con liberali e socialdemocratici in un contesto marcato dall’approdo dell’estrema destra AfD in Parlamento e dall’emergere dei Grüne (Verdi) come principale contendente politico di opposizione. A livello europeo, die Mutti sopravvive a tre diversi Presidenti francesi ed a ben otto Presidenti del Consiglio italiani. Merkel resiste dapprima agli attacchi della sinistra del greco Tsipras e successivamente alle invettive delle destre estreme europee di cui Salvini non rappresenta che il volto più recente. A garantire la solidità della cancelliera tedesca è quindi una questione più di carisma personale e metodo che di coerenza politico-ideologica. Convinta sostenitrice di una politica “al centro del centro”4 e senza mai rinunciare ad una difesa strenua dei valori di mercato come fondamento retorico e fattuale della legittimità democratica5, la cancelliera ha, nel corso degli anni, sostenuto iniziative di segno radicalmente opposto ma spesso capaci di intercettare il sentire comune dei propri connazionali e di una parte consistente degli europei. Se nel 2015 Merkel accoglie svariate centinaia di migliaia di profughi facendo suo lo slogan Wir schaffen das (ci riusciremo), il suo ravvedimento non tarda a manifestarsi negli anni successivi, come testimonia il suo silenzio di fronte ai disastri umanitari registrati nei Balcani e nel Mediterraneo6. Cambi repentini si registrano anche sui fronti dell’energia nucleare e dei diritti civili. Ancora più radicale è il ribaltamento del posizionamento tedesco a livello europeo con Merkel che, da falco rigorista in occasione della crisi del debito sovrano (2010-2012), diventa uno dei principali sponsor politici dell’espansionistico Next Generation EU su cui i voti decisivi intervengono nel corso della sua presidenza rotante7. La cancelliera incarna quindi perfettamente il ruolo di egemone riluttante che la Germania ha assunto in Europa e per cui il sociologo Urlich Beck coniò il termine Merkiavelli8. Merkel sarebbe allora sinonimo di una leadership temporeggiatrice e flessibile votata a rincorrere gli eventi per proporre soluzioni di mediazione che impediscano ad una crisi di risolversi in un esito catastrofico. Se tracciare un bilancio dell’azione politica di Merkel non è certo banale, definirne il lascito sembra essere ancora più complicato. Il dibattito interno alla storica Unione tra i cristiano-democratici e i social-democratici bavaresi rispetto alla designazione del suo successore alla cancelleria è un chiaro sintomo di quanto sia ambigua l’eredità politica di Merkel. A uscirne vincitore è stato il delfino di Merkel, il centrista e presidente della Renania Settentrionale – Vestfalia Armin Laschet. Tuttavia, la popolarità del Presidente del Land di Baviera Markus Söder, saldamente ancorato ad una destra conservatrice e recentemente riconvertita all’ecologismo, e le sue recenti pretese di guidare la coalizione in vista delle prossime elezioni nazionali sono la prova tangibile di come la politica altalenante di Merkel abbia dato vita ad un fondo ideologico indefinito su cui si potrebbero innestare scenari marcatamente diversi. Questo scontro interno si inserisce in un momento di crisi per la cancelliera che, pur avendo spinto per l’utilizzo anche in sede europea del vaccino russo Sputnik V9, è stata costretta a scuse pubbliche di fronte ad una gestione approssimativa delle restrizioni pasquali ed al rischio di collasso del sistema sanitario nazionale in occasione della terza ondata di COVID-1910. Se i Grüne minacciano allora di imporsi come primo partito ai danni dell’Unione CDU-CSU, ci si avvierà molto probabilmente ad un governo di coalizione tra questi due attori. Anche in questo caso, sebbene si aprano ancora una volta una moltitudine di scenari, non si dovrebbero registrare scostamenti importanti rispetto alla linea politica gestionale di Merkel. Già in occasione della precedente esperienza di governo al fianco della SPD (1998-2005), i Grüne avevano mostrato un allineamento sostanziale rispetto ai principi classici dell’ordoliberalismo tedesco arrivando ad affermare: “Nessuno può fare politica contro il mercato”11. Rispetto a Söder, Armin Laschet rappresenta sicuramente il volto più morbido e meno rigorista della CDU in chiave europea e, in continuità con Merkel, dovrebbe perseguire un consolidamento senza eccessi retorici dell’autonomia strategica EU e un rapporto di maggiore distensione nei confronti di Cina e Russia12. Se i Grüne dai banchi dell’opposizione hanno spesso dato prova di un euroscetticismo moderato e sostenuto la necessità di rivedere i trattati, la precedente esperienza di governo ha visto questa anima contestataria soccombere di fronte a toni più concilianti e contenuti meno radicali13. Nessuno stravolgimento consistente dell’equilibrio europeo dovrebbe quindi provenire da una Germania post-Merkel. Si aprirebbe quindi uno spazio per altri leader europei e per le loro aspirazioni a livello continentale. Replicare il successo di Merkel sarà però difficile. In questi anni, Merkel non ha certo dimostrato qualità da visionaria o da fervente ideologa ma ha saputo garantire la compattezza dell’UE facendosi promotrice di un multilateralismo senza fasti chiaramente orientato al compromesso e al ripristino di una situazione di seppur precario equilibrio14. L’improbabile maggioranza parlamentare a sostegno di Draghi fa dell’autorevole Presidente del Consiglio italiano un candidato debole. Pur avendo inspirato buona parte delle misure che hanno rilanciato l’azione dell’UE negli ultimi anni risvegliandola da un insostenibile immobilismo, il Presidente francese Macron è una figura troppo dirompente e divisiva le cui idee non si sarebbero affermate senza la necessaria edulcorazione offerta dalla sua controparte tedesca15. Come suggerito dall’ambivalenza semantica del termine tedesco nach, l’Europa dopo Merkel rischia quindi di essere anche un’Europa secondo Merkel. In Merkel abbiamo trovato un’interprete fedele del ruolo costitutivamente ambiguo di leader tedesca e continentale. Se Merkel si è quindi inserita in una storia che le preesisteva, la sua credibilità e le sue capacità politiche hanno rafforzato l’idea di un’Europa come sede (a)politica della mediazione. I prossimi sviluppi ci diranno se è in un approccio dal basso e non nella ricerca di un nuovo tutore (a)politico che, con la Conferenza sul Futuro dell’Europa, si registrerà un ripensamento complessivo della natura e della missione dell’UE.
a cura di Giulia Calini Sulle orme di Turchia e Ungheria, anche la Polonia ha intrapreso azioni per ritirarsi dalla Il governo accusa la Convenzione di essere dannosa per le famiglie a causa della presenza di elementi ideologici e per il conseguente obbligo di insegnare le teorie di genere nelle scuole per farne comprendere il contenuto. Di fronte alle critiche, il governo si difende affermando che la Convenzione di Istanbul non è così necessaria in quanto la legislazione interna offre garanzie costituzionali, sia in materia di violenza contro le donne sia di uguaglianza di genere, dunque ulteriori obblighi internazionali risulterebbero superflui. Il PiS suggerisce di accontentarsi delle norme interne, rinunciando agli strumenti internazionali di protezione e implementazione dei diritti. Come in Turchia, anche in Polonia la costante religiosa è un fattore predominante in quanto in teoria lo stato dovrebbe riconoscere nell’ordinamento giuridico reati quali ad esempio le mutilazioni genitali, lo stalking, il femminicidio. La realtà è però un’altra: infatti in Polonia si preferisce girare intorno alle questioni di genere attribuendo la violenza domestica ad altre cause di natura patologica quali l’abuso di alcool e droghe, dipendenza dal sesso o sessualizzazione dell'immagine delle donne nei mass media. Vi sono però altre ragioni per questa profonda ostilità verso la protezione dei diritti di determinate categorie di individui. Di sicuro l’adesione alla Convenzione crea qualche intralcio per un governo che cerca di centralizzare il potere sempre più in quanto questa istituisce un comitato indipendente, chiamato Grevio (Group of Experts on Action against Violence against Women and Domestic Violence), che si occupa di controllare, attraverso periodiche revisioni, l’insieme delle legislazioni e provvedimenti che ogni stato membro adotta per implementare i diritti previsti dalla Convenzione. Questo tipo di scrutinio è di certo scomodo all’interno di Stati che desiderano consolidare la propria esclusiva visione su questioni quali la famiglia. Infatti, la Polonia è carente sulle politiche nazionali riguardanti la violenza contro le donne: basti pensare che non vi è un organo di coordinamento per integrare le azioni dello Stato contro la violenza sulle donne e nemmeno un budget apposito per contrastarla, rendendo le misure presenti nell’agenda di governo dedicate al genere inesistenti. Per non parlare delle gravi carenze nella legge e nella pratica che impediscono una protezione efficace contro la violenza domestica: queste non presentano cooperazione tra il governo e gli enti locali che si occupano di violenza domestica; mancano di una definizione di violenza e di strumenti legali per affrontarla; presentano lacune nella raccolta dei dati e scarsi programmi rieducativi per i colpevoli. La Polonia ha presentato il suo primo rapporto di fronte al Grevio nel marzo 2020 e presto quest’ultimo dovrebbe rendere pubblica la propria valutazione a riguardo, anche se già ci si potrebbe fare un’idea sull’esito, dato che nel rapporto dello Stato il problema della violenza contro le donne è ridotto alla violenza domestica. Questa è l'unica forma di violenza, tra quelle coperte dalla Convenzione, che riceve attenzione dallo Stato. Altra domanda che emerge in questa crisi dei diritti umani è: come mai, nonostante il testo della Convenzione sia esattamente lo stesso da quando è stata adottata, solo ora emergono tante lamentele a riguardo? Semplicemente perchè gli atteggiamenti all'interno dei paesi e le correnti politiche sono cambiati. Se prima la questione era più incentrata sulla violenza piuttosto che sul genere, la Convenzione viene ora strumentalizzata per fare propaganda politica e per ottenere consenso demonizzando i diritti delle donne e i diritti LGBT. Oggi il governo polacco ne descrive il contenuto in maniera distorta così da creare panico e facendo credere che le famiglie siano sotto attacco così come i valori nazionali. Viene promossa la disinformazione su ciò che la Convenzione rappresenta e su ciò che prevede, senza mai accennare al fatto che la realtà è che questa è nata con il solo fine di proteggere le donne da ogni forma di violenza, il tutto per piantare il seme della perplessità e spingere per un atteggiamento negativo. Dunque, in Polonia la violenza domestica è vista principalmente come danno alla famiglia e ai suoi membri, senza riconoscere la posizione vulnerabile delle donne come sue principali vittime. In linea con questa visione, il disegno di legge chiesto dal Presidente Andrzej Duda, che andrebbe a sostituire la Convenzione di Istanbul, chiede di istituire un organo consultivo che, nei prossimi tre anni, inizierà un lungo e ampio processo per sviluppare i principi fondamentali di una convenzione internazionale sui diritti della famiglia. La richiesta è stata inviata alle commissioni parlamentari di giustizia, diritti umani e affari esteri per essere esaminata. La valutazione della proposta non è ancora stata pubblicata ma ci si può iniziare a fare un’opinione considerando che il nuovo trattato andrebbe a bandire i matrimoni tra persone dello stesso sesso e anche il diritto all’aborto. La nuova Convenzione Internazionale dei Diritti della Famiglia mette in discussione i diritti delle donne e della comunità LGBT, rispecchiando perfettamente la risposta conservatrice contro la Convenzione di Istanbul. La sofferenza delle donne viene oscurata dal problema della violenza contro la famiglia e le questioni di genere vengono dimenticate per favorire le questioni familiari. Tutto questo quadro dipinge perfettamente il conflitto tra un governo tradizionalista che si scontra con il progressismo europeo. L’Unione europea ha reagito a questa crisi, che va contro i principi base del sistema comunitario, dando in mano le redini alla Commissione europea che ha recentemente annunciato il lancio di una nuova proposta legislativa per combattere la violenza di genere entro la fine dell'anno. L'Ue potrebbe quindi, potenzialmente, adottare un nuovo testo vincolante a maggioranza qualificata, evitando la necessità di un'approvazione unanime. ![]()
Carlo Comensoli, Elections Hub
Il Super Thursday, così è stato ribattezzato dai media l’appuntamento elettorale in Gran Bretagna dello scorso 6 maggio, ha per certi versi soddisfatto le aspettative della leadership conservatrice e del Primo Ministro Boris Johnson. Infatti, nonostante la riconferma a Londra del sindaco uscente Sadiq Khan, il voto nel suo complesso ha palesato il fallimento della linea politica del nuovo Leader laburista, Keir Starmer, alle elezioni per i Local Councils in Inghilterra. La disfatta è stata poi rimarcata anche dalla clamorosa sconfitta alle elezioni suppletive per il seggio di Hartlepool, un collegio tradizionalmente laburista. Così se da un lato in Galles le elezioni per il Senedd Cynru, il Parlamento locale, hanno riconfermato il leader del Partito laburista gallese, Mark Drakeford, i risultati in Inghilterra segnano un'ulteriore sconfitta per il principale partito all’opposizione. All’indomani delle elezioni e dopo il fallimento di Starmer alla sua prima sfida elettorale come leader, all’interno del Labour si profila un nuovo scontro. Tuttavia, tra gli appuntamenti della settimana scorsa quello che ha maggiormente attirato l’attenzione dell’opinione pubblica anche all’estero è stato il voto per il rinnovo del Parlamento scozzese. I risultati in Scozia erano infatti attesi in vista di un possibile nuovo referendum sull’indipendenza da Londra, promosso dalla leader dello Scottish National Party (SNP) Nicola Sturgeon. Le elezioni scozzesi hanno registrato un ottimo risultato per l’SNP di Sturgeon che ha ottenuto ben 64 seggi sui 129 totali; tuttavia, il principale partito indipendentista non ha ottenuto la maggioranza assoluta per solo un seggio. Questo ovviamente rappresenta un ostacolo per la prospettiva di un voto sull’indipendenza, soprattutto alla luce dei risultati dell’Alba Party di Alex Salmond, ex leader e ora rivale dell’SNP nonché promotore del referendum del 2014, che non ha ottenuto nemmeno un seggio al Parlamento locale di Holyrood. L’idea di un referendum per l’indipendenza della Scozia non è comunque sfumata del tutto: il fronte indipendentista comprendeva infatti anche il Green Party, che il 6 maggio è riuscito a ottenere otto seggi. Sebbene il focus principale del programma del partito sia la transizione ecologica e la lotta al cambiamento climatico, all’indomani del voto la Leader Lorna Slater ha rivendicato l’incremento di consensi per il partito e ha ribadito che saranno proprio gli Scottish Greens a garantire una maggioranza pro-indipendenza a Holyrood. Ad accomunare le due leader sulla questione è comunque la ricerca di un’intesa con Londra: se da un lato, infatti, l’Alba Party di Salmond insisteva su un referendum da tenersi all’indomani del voto senza dover ottenere a tutti i costi l’approvazione di Downing Street, sia Sturgeon che Slater hanno più volte fatto intendere che sarebbe stato necessario ottenere un atto ad hoc del Parlamento locale grazie a un accordo col Governo centrale, come del resto avvenne sette anni fa. Il voto in Scozia, quindi, ha nel complesso rappresentato una forte riconferma per la leadership di Nicola Sturgeon, succeduta proprio a Salmond nel 2014 quando l’ex leader dell’SNP si dimise in seguito alla vittoria del No al primo referendum sull’indipendenza. Sturgeon ha comunque guidato il Governo locale e il principale partito del fronte indipendentista negli anni della Brexit: fu infatti proprio la vittoria schiacciante del Remain in Scozia, in netto contrasto col risultato generale, a fare in modo che la First Minister chiedesse un nuovo voto sull’indipendenza già nel 2016. Questo tema ha accompagnato la leadership di Nicola Sturgeon fino alle elezioni di quest’anno e, insieme al consenso dell’elettorato per la gestione della pandemia e della campagna vaccinale, ha contribuito alla riconferma e all’ottimo risultato dell’SNP. L’uscita dalla pandemia è stato anche l’argomento su cui ha deciso di puntare il Primo Ministro Boris Johnson in una lettera di congratulazioni a Nicola Sturgeon per la riconferma. Il capo di governo e leader del Partito Conservatore (che in Scozia ha ottenuto trentuno seggi riconfermandosi all'opposizione) ha parlato di “spirito di cooperazione e di unità” e di “responsabilità condivise”, aggirando però del tutto la questione del referendum. Dal canto suo Sturgeon, nel discorso per la vittoria dell’SNP, ha comunque invocato un nuovo referendum, che dovrebbe tenersi necessariamente nei prossimi cinque anni entro la scadenza della legislatura locale che si insedierà ora a Holyrood. Tra le reazioni all’indomani del voto si profilano quindi due narrazioni opposte, ma il prossimo passo dovrà indispensabilmente essere il raggiungimento di un’intesa tra Edimburgo e Londra. È ancora difficile dire come procederà il dialogo con il Governo centrale: come sottolineato da Lorna Slater, fu David Cameron a concedere lo scorso referendum, visto il chiaro risultato delle elezioni locali che si tennero proprio dieci anni fa. Anche stavolta la maggioranza alle urne sembra confermare l’ipotesi di un nuovo referendum, eppure è difficile dire quale sarà la posizione di Downing Street. Inoltre dato che l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea sarebbe il motivo che ha portato gli indipendentisti a chiedere che i cittadini scozzesi potessero tornare a esprimersi sulla questione, anche la posizione di Bruxelles sull’eventuale riconoscimento dei risultati di un possibile nuovo referendum giocherà un ruolo importante nei prossimi anni. La questione dell’indipendenza scozzese, quindi, non si è risolta con il voto dello scorso 6 maggio, e molto dipenderà da come si evolverà la situazione interna nei prossimi anni. Intanto, Johnson ha con sé un governo forte che dovrebbe permettergli di rimanere in carica presumibilmente fino alla normale scadenza prevista per il 2024. In Inghilterra, la vittoria dei Tories ai Local Councils segna comunque un successo per la linea tenuta dal Partito al Governo, e questo rafforza la posizione di Londra anche in merito alla possibilità di concedere un nuovo referendum. Molto dipenderà da come e quando Nicola Sturgeon deciderà di affrontare la questione, e da che ruolo giocherà il dialogo con l’Unione europea. |
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