a cura di Giovanni Maggi Nella costruzione di una narrativa, la scelta del linguaggio veicola anche messaggi impliciti, che plasmano direttamente il nostro modo di percepire un evento, una situazione complessa, un momento storico. Come riporta Al Jazeera, nel caso della questione palestinese, le espressioni tradizionalmente utilizzate – soprattutto dai media di lingua inglese – tendono a equalizzare le due parti coinvolte, oscurando così la natura asimmetrica degli scontri. Un esempio delle conseguenze che ciò può avere è la vicenda che ha portato al licenziamento della giornalista Emily Wilder. Riferendosi ai recenti eventi in un tweet pubblicato sul suo account privato, la Wilder avrebbe preso un “posizione chiara in public forum” – una mossa vietata dalla politica aziendale della Associated Press – utilizzando termini come “occupazione” invece che “guerra”. Complice, tra le altre cose, la predominanza di commentatori e giornalisti pro-Israele, la narrativa occidentale – specie quella in lingua inglese – è stata dominata a lungo da un doppio standard giornalistico che ha sfavorito la comunicazione di posizioni pro-Palestina. A ostacolare lo sviluppo di una contro-narrativa degli eventi è stata anche l’applicazione di misure di censura da parte delle più grandi piattaforme social – Facebook, Instagram e Tik Tok in particolare. Secondo l’analisi di BuzzFeed, i ‘problemi’ di censura avrebbero preso di mira i contenuti pro-Palestina in modo sistematico, penalizzando i post pro-Israele soltanto in minor parte. La vicenda più significante è quella della rimozione da Instagram e Facebook dei post contrassegnati con l’hashtag “#AlAqsa” – e il suo equivalente arabo #الأقصى – perché associati a “violenze o pericolose organizzazioni”. La moschea di al-Aqsa è il terzo sito islamico per importanza ed è stato teatro di violenti scontri durante le giornate conclusive del sacro mese del ramadan. Facebook ha spiegato pubblicamente che si è trattato di un semplice errore, ma una comunicazione interna ottenuta da BuzzFeed spiga che la svista sarebbe dovuta alla presenza di organizzazioni terroristiche omonime alla moschea sulla “SDN list” dell’OFAC (Office of Foreign Assets Control) – ad esempio la al-Aqsa Martyrs’ Brigade. Episodi simili sono stati registrati riguardo agli eventi di Sheikh Jarrah. I contenuti sono stati ripristinati in un secondo momento – anche grazie a una petizione firmata da diverse organizzazioni per i diritti digitali – ma come spiega un impiegato “la percezione è che Facebook silenzi momentaneamente i contenuti politici e si scusi in un secondo momento”, andando così ad alienare ulteriormente minoranze come quella palestinese. Alle critiche si aggiunge anche Ashraf Zeitoon, ex-responsabile dell’azienda per la politica verso il Medio Oriente e il Nord Africa. Zeitoon spiega che Facebook dispone di rinomati esperti di terrorismo e traduttori che hanno il compito evitare vicende come quella di al-Aqsa e che sarebbe quindi improbabile la confusione della moschea con un’organizzazione terroristica. Piuttosto, come nota Nadim Nashif, direttore dell’organizzazione per i diritti digitali 7amleh, è presente una cooperazione tra il governo israeliano e le piattaforme social. In seguito allo scoppio delle violenze, il 13 maggio il Ministro della difesa israeliano Gantz e gli esecutivi di Facebook e Tik Tok hanno tenuto una chiamata su Zoom per discutere della gestione – e rimozione – dei contenuti ‘fuorvianti e di incitamento alla violenza’. Il ministro ha enfatizzato la necessità da parte delle piattaforme di agire velocemente in risposta alle segnalazioni della cyber bureau israeliana, basando la legittimità delle misure sulla presenza dello stato di emergenza. Gli esecutivi avrebbero garantito il loro impegno a procedere in questo modo. Secondo un rapporto di 7amleh, Facebook ha accolto le richieste del cyber bureau di rimozione di contenuto nell’81% dei casi. Inoltre, complice la sorveglianza israeliana sui social – dovuta anche alla collaborazione delle piattaforme – due terzi dei giovani palestinesi si auto-censurano e non esprimono opinioni politiche per timore delle conseguenze. Il pericolo è che, almeno per quanto riguarda la questione palestinese, i social si trasformino da strumenti per la libertà di parola a congedi per la persecuzione e la repressione, silenziando parte della narrativa palestinese. Generalmente, in situazioni di rapida evoluzione degli eventi, monitorare l’infosfera per evitare eccessiva disinformazione risulta particolarmente complesso. Come già accaduto con le proteste di Black Lives Matter, l’utilizzo di contenuti multimediali come strumenti di comunicazione è stato fondamentale per portare sui social il conflitto israelo-palestinese. La percezione di un’immagine dipende come è contestualizzata, solitamente tramite una descrizione tanto breve tanto semplicistica che spesso si rivela essere fuorviante o completamente errata. Viene dipinta una figura parziale della realtà, un contenuto politico che, nei social media feed degli utenti, viene preceduto e seguito da contenuti di tutt’altra tipologia. Ciò impedisce all’utente di andare nel dettaglio, perdendo così gran parte della capacità critica di analizzare ciò che viene mostrato. La reazione è basata sull’emozione, sull’empatia, su una risposta impulsiva più che razionale, non solo a ciò che viene mostrato ma soprattutto al modo in cui viene presentato. Questo permette di strumentalizzare delle cornici vuote per promuovere una certa narrativa, portando inevitabilmente alla polarizzazione dell’opinione pubblica e alla repulsione del dialogo. Nel contesto del conflitto, sui social sono circolate immagini vecchie o prese da altri conflitti, insieme a video e foto reali presentati come fasulli o decontestualizzati e presi come prove di teorie false. Al riguardo, una narrativa particolarmente influente è quella di “Pallywood” – crasi di ‘Palestina’ e Hollywood. Il termine, coniato durante in seguito al conflitto del 2000 e al cosiddetto “affare al-Durrah”, propone una visione secondo cui i palestinesi inscenerebbero per fini propagandistici anti-israeliani la maggior parte delle scene drammatiche che circolano sui media. Ciò porta a dubitare a priori le immagini presentate, oltre che le accuse di violenza verso le forze israeliane. Il fatto che la violenza sia documentata non è più vista come prova dell’accaduto ma come incentivo a dubitarne. Tutte queste narrative sono poi amplificate dalle interazioni con i contenuti. Per fare ciò, Israele impiega una troll army – un esercito di utenti pagati per commentare, postare e condividere post e promuovere una certa narrativa. Il governo ha infatti promosso la creazione di quest’organo con Act.IL nel 2017, un progetto da 1.1 milioni lanciato in partnership con il ministero degli affari strategici e definito come una ‘Iron dome della verità’. Le principali narrative promosse enfatizzano il diritto alla difesa, vittimizzano lo stato di Israele e incolpano la Palestina. Dal lato palestinese le interazioni con i post sono state principalmente in risposta alle testimonianze di violenza che la narrativa Israeliana screditava. Complice anche la vicinanza con le proteste BLM e la lotta contro le violenze della polizia, figure social di spicco come Gigi e Bella Hadid hanno preso a cuore la causa palestinese dando risonanza a testimonianze e opinioni.
a cura di Antonio Di Casola Nel primo discorso di Joe Biden al Congresso, mercoledì 28 aprile, c’è stato spazio anche per un accenno all’Iran. “Lavorerò con i nostri alleati per contrastare le minacce dell’Iran”, ha dichiarato il Presidente, con evidente riferimento alla complessa situazione in materia di nucleare che, oramai da settant’anni, ha visto l’alternarsi di successi ed insuccessi. Fin dagli anni '50, infatti, l’Iran ha manifestato verso le tecnologie legate all’energia atomica un interesse particolare che, dopo la Rivoluzione Islamica del 1979, ha cominciato a destare rilevanti preoccupazioni nella parte occidentale del mondo, in special modo in Israele e negli stati della NATO, Stati Uniti in primis. Le lunghe trattative diplomatiche per raggiungere un accordo hanno visto una potenziale soluzione nel 2015 con la stipulazione del Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA). Con l’avvento della presidenza Trump, tuttavia, l’uscita degli USA dal piano e la reintroduzione delle sanzioni economiche verso l’Iran hanno nuovamente incrinato in modo drastico i rapporti con il Paese, che ha ripreso, anche ampliandolo, il programma nucleare iniziale. L’approccio della presidenza Biden sembra mirato, attualmente, a ricucire gli strappi, ma le difficoltà sono notevoli e le relazioni oramai ad un punto estremamente critico. Dopo la crisi internazionale innescata da Teheran tra il 2005 e il 2006, il Consiglio di Sicurezza ONU si era trovato costretto ad emanare una serie di risoluzioni che comminavano sanzioni economiche verso individui e organizzazioni coinvolti nel programma nucleare iraniano. La lunga guerra diplomatica conseguita ha cominciato a vedere qualche risultato solo dopo l’elezione di Hassan Rouhani nel 2013. Nello stesso anno, infatti, grazie al diverso approccio del neoeletto, hanno avuto inizio le negoziazioni per un nuovo accordo e, il 14 luglio 2015, a Vienna, il Piano d’Azione Congiunto Globale ha visto la luce. Con il JCPOA, sottoscritto insieme ai cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza ONU, alla Germania e all’Ue, l’Iran si impegnava, dietro la promessa dell’abolizione delle sanzioni vigenti, a limitare i programmi di arricchimento dell’uranio, a ritornare sotto il controllo dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica – ai funzionari della quale, dopo la sottoscrizione nel 1970 del Trattato di non proliferazione nucleare, era stato garantito il diritto, poi soppresso, di visitare e monitorare i siti nucleari – e a fornire informazioni su tutte le attività nucleari condotte, passate e presenti. Nel maggio 2018, il presidente Trump, con il plauso dell’alleato Netanyahu ma con la disapprovazione della maggioranza delle Nazioni Unite, prendeva la decisione di uscire dal JCPOA e di imporre contro l’Iran nuove sanzioni. Nonostante la volontà degli altri firmatari a rimanere nell’accordo e a rispettarne i termini, il continuo incremento delle sanzioni statunitensi ha spinto Rouhani, in risposta, a ritirarsi gradualmente dall’accordo a sua volta e ad annunciare un ripristino dei programmi di ricerca e di arricchimento dell’uranio, superando i limiti concordati. Le tensioni si sono acuite esponenzialmente tra il 2019 e il 2020. Da un lato, l’Iran ha proceduto nei propri piani in costante violazione del JCPOA, dall’altro, gli USA hanno continuato ad incrementare le sanzioni, mentre gli Stati europei, rimasti nell’accordo, hanno tentato invano di mediare tra le due parti. Ad inizio 2020, l’escalation di reciproche provocazioni, anche di stampo militare, ha trovato il culmine nell’uccisione, rivendicata dall’intelligence statunitense, del generale Soleimani, a cui ha fatto seguito l’annuncio di Teheran di riprendere i propri piani senza più rispettare le limitazioni esterne, in base alle proprie esigenze. Pur continuando a ritenere Teheran una minaccia, le forti prese di posizione dell’amministrazione Trump non sono state condivise e, conseguentemente, mantenute, dall’amministrazione Biden. Al contrario, la strategia di quest’ultimo sembra essere di riavvicinamento con gli alleati europei, i quali, poiché il dialogo fra le due parti al momento è ritenuto impossibile, stanno svolgendo il ruolo di mediatori. I rappresentanti di questi ultimi, insieme a quelli di Cina e Russia, dal 6 aprile si trovano riuniti a Vienna nel tentativo di far rientrare gli USA – i funzionari dei quali, poiché usciti dal Piano, non possono intervenire direttamente nei colloqui – nel JCPOA che, dopo il recente annuncio di Teheran di puntare all’arricchimento dell’uranio al 60%, risulta oggi più urgente che mai. La posizione degli USA è delicata. Da un lato, Biden si trova sottoposto alle pressioni dell’alleato storico Israele e di altri Paesi del Golfo – tra cui Bahrein, EAU e Arabia Saudita –, i quali vedono nell’attività nucleare di Teheran una minaccia alla loro stessa esistenza; dall’altro, il pericolo iraniano è divenuto troppo imminente per poter continuare con le ostilità. La questione cruciale risiede nel fatto che Teheran, ritenendo le proprie azioni conformi al paragrafo 36 dell’accordo, pone l’annullamento di tutte le sanzioni come condizione necessaria al ripristino del dialogo con gli USA e al rientro nei parametri previsti dal Piano. Il presidente americano si è mostrato allo stesso tempo aperto e cauto a questa eventualità. L’ufficiale della Casa Bianca inviato a Vienna a trattare con gli intermediari ha recentemente annunciato che sono stati identificati tre tipi di sanzioni: quelle annullabili nel breve periodo, quelle destinate a rimanere in vigore per più tempo e quelle ancora sotto valutazione. Prima dell’annullamento, tuttavia, Biden ha più volte ribadito che pretende che sia l’Iran a compiere il primo passo, immediatamente cessando ogni attività non autorizzata dall’accordo.
L’imposizione fiscale nell’era digitale: l’ultimatum dell’UE per la tutela del mercato interno27/6/2021
a cura di Alessandra Mozzi, Osservatorio sull'Unione europea
Tassare l’economia digitale rientra tra gli obiettivi più urgenti in vista dell’attivazione del Programma Digital Europe previsto per il 2021-2027. Secondo Ecofin[1], l’armonizzazione del sistema fiscale, di pari passo con la creazione di un mercato unico digitale europeo, permetterà agli Stati membri di uscire più rapidamente dalla crisi pandemica e di recuperare in tempi brevi il debito creato dal Recovery Fund. Ad oggi, complice anche la pandemia da Covid-19, le imprese appaiono sempre più dematerializzate, mentre il commercio (sia interno che internazionale) punta oramai sui beni c.d. “intangibles”, tra cui rientrano brevetti, know-how e soprattutto big-data. Le piattaforme social, ad esempio, riescono ad accaparrarsi ingenti guadagni tramite l’acquisizione a titolo gratuito dei dati personali degli utenti (compresi quelli sensibili) che poi sono rivenduti sul mercato digitale per scopi pubblicitari, sondaggistici e politici. Tuttavia, però gran parte di questi ricavi fatturati completamente sul web non vengono adeguatamente tassati, poiché le imprese cui sarebbero imputabili riescono facilmente a mobilizzarli da un Paese all’altro, senza essere fisicamente presenti nei territori di produzione. Al riguardo, le multinazionali dell’industria digitale starebbero pianificando la loro presenza fiscale nel mercato globale in maniera “aggressiva”[2], sottraendo cioè buona parte dei loro utili dalla tassazione dei luoghi in cui gli stessi vengono generati. L’effetto deriverebbe da una serie di strategie organizzative che sono state sinteticamente suddivise dall’OCSE nelle definizioni di “base erosion” e in quella di “profit shifting” (BEPS) nell’Action Plan diffuso nel 2013[3], cui fa seguito il piano “Inclusive Framework on BEPS”[4], stilato in accordo con il G20 nel 2019, e rinnovato per il 2020, in cui sono racchiuse alcune delle linee guida volte a costituire un sistema globalizzato di tassazione societaria per il futuro. Il fenomeno della pianificazione aggressiva delle tasse colpisce anche il mercato unico europeo, dove alcuni Stati fungono da veri e propri paradisi fiscali[5] per le aziende del web, che trasferiscano qui i loro utili, prodotti nel resto del territorio comunitario soggetto a tassazione ordinaria, per poi concordare con le amministrazioni conniventi dei trattamenti fiscali agevolati. La questione involge il divieto di dumping vigente nel mercato europeo ed è stata a più riprese affrontata dalla Commissione europea, a partire dalla Comunicazione “Un sistema fiscale equo ed efficace nell’Unione Europea per il mercato unico digitale” (COM (2017)547)[6]. Qui per la prima volta si sono messe in luce le due questioni principali dinanzi alle quali l’equilibrio fiscale europeo è stato posto, ovvero chi e cosa tassare. Si è di conseguenza accolta la terza “sfida”, diretta alla realizzazione di una web-tax su base imponibile unica per tutti i regimi fiscali nazionali (come tassare). A tale intervento hanno fatto seguito nel 2018 due proposte di direttiva: la prima[7]disegna il possibile modello di imposta societaria da applicare a quelle imprese non dotate di una presenza fisica, stabilendo per queste un diverso nesso imponibile individuato nella “presenza digitale significativa”. Con la seconda[8] invece, si tende ad introdurre una misura temporanea (ISD, o imposta sui servizi digitali), in attesa che i negoziati in sede globale portino al raggiungimento di un accordo definitivo sul primo punto. Tuttavia, una certa lentezza dei lavori OCSE/G20, insieme alla crescente preoccupazione per la necessità di nuove risorse nell’area economica europea, hanno spinto l’Unione ad accelerare i lavori per l’adozione della misura temporanea interna, che comunque rimarrà chiaramente distinta rispetto all’imposta societaria. Da poco infatti si è conclusa una consultazione popolare[9] sulla proposta di “prelievo sul digitale”, che dovrebbe essere applicato a tutti quei servizi (pubblicitari, di veicolazione e di trasmissione dati) svolti da qualsiasi impresa mediante l’uso di interfacce multimediali. Questo decisivo passo in avanti dovrebbe avvenire al limite entro il 2023[10], e sarà anticipato dalla consegna della proposta definitiva entro questo giugno, a prescindere da quale sarà l’andamento delle negoziazioni globali. La digitalizzazione dell’economia ha imposto in sostanza di ripensare l’idea classica di “sovranità fiscale”, tipicamente appartenente agli Stati, a favore di una nuova concezione di fiscalità globale/transnazionale, nonostante per ora l’interesse dei singoli ordinamenti a mantenere un certo grado di autonomia nella materia non sembra venir meno. Per quanto le istituzioni europee si sforzino di prediligere approcci multilaterali sul tema, diversi Stati membri (Francia, Italia, Ungheria, Spagna e altri)[11] hanno già adottato proprie forme di prelievo sul digitale, ritrovandosi dinanzi alle reazioni protezionistiche di Stati terzi. È quanto accaduto tra la Francia, primo Paese UE a promulgare una propria tassa sul digitale[12], denunciando l’eccessiva lentezza delle trattative sovranazionali, e gli USA, Paese di origine delle più importanti big-tech attive in Europa. In particolare, la dura reazione della passata amministrazione Trump si è concretizzata nell’imposizione di pesanti dazi alle importazioni francesi, benché si auspica che tale linea difensiva possa essere presto abbandonata dal neo-eletto Presidente Biden. D’altra parte, non è da escludere che proprio un rientro degli USA nell’ambito delle trattative OCSE/G20, da cui si sono tatticamente ritirati lo scorso anno, porti ad una loro conclusione definitiva entro la fine del 2021. Dal sintetico quadro delineato, si evincono ancora troppe incertezze sul futuro di questa “fiscalità 2.0” sussistenti intorno alla questione più importante: chi e a quale livello (nazionale, sovranazionale, globale) spetta il precipuo compito di tassare i colossi del web? Di qui, proverranno infatti le risposte alle ulteriori incognite: quale sarà l’effetto dell’introduzione del prelievo unico europeo sui rapporti con Paesi terzi come gli USA; ed infine, come saranno previste e affrontate le inevitabili contro-strategie che le stesse imprese soggette alle nuove misure metteranno in atto. In breve, è evidente che la questione sulla fiscalità nell’era digitale, lungi dall’avere mera valenza economica, ha assunto peso politico, direttamente proporzionale alla crescita degli interessi legati alla digitalizzazione. In questa prospettiva l’Unione, da attore globale, e da promotrice degli interessi degli Stati che rappresenta, è chiamata a garantire che il cammino verso una digital-tax globale avvenga nel pieno rispetto dei principi che ne hanno connotato l’integrazione fiscale interna: equità, efficienza, effettività. [1]https://tinyurl.com/td592mmv [2] P.Pistone, La Pianificazione fiscale aggressiva e le categorie concettuali del diritto tributario globale, Rivista Trimestrale di Diritto Tributario, 2/2016, https://tinyurl.com/9u65hdpc [3] https://tinyurl.com/r79fjb2z [4] https://www.oecd.org/tax/oecd-secretary-general-tax-report-g20-finance-ministers-october-2020.pdf [5] https://www.camera.it/temiap/2015/02/25/OCD177-980.pdf [6] https://tinyurl.com/2yyp8mvc [7] COM(2018) 147 final, https://eur-lex.europa.eu/resource.html?uri=cellar:3d33c84c-327b-11e8-b5fe-01aa75ed71a1.0014.02/DOC_1&format=PDF [8] COM (2018) 148 final https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:52018PC0148&rid=1 [9] /www.fasi.biz/it/notizie/strategie/22134-digital-tax-usa-negoziati-ocse.html#Marzo2021 [10] EUCO Statement, Dichiarazione dei membri del Consiglio europeo 25 marzo 2021, www.consilium.europa.eu/media/49014/250321-vtc-euco-statement-it.pdf [11] S. Latini, Digital Tax senza confini, IPSOA, 08 gennaio 2021, https://www.ipsoa.it/documents/fisco/fiscalita-internazionale/quotidiano/2021/01/08/digital-tax-senza-confini [12] https://www.ilsole24ore.com/art/web-tax-francia-chiede-imposte-milionarie-big-digitale-AD2ReS4 Stefano Ceretto, Elections Hub
La salita al potere di Abiy Ahmed nel 2018 aveva portato grandi speranze sul futuro dell’Etiopia, un Paese martoriato dai conflitti e dall’instabilità politica, in un’area geografica incapace di superare le divisioni. La fine delle tensioni con l’Eritrea, conseguente all’accordo sui confini tra i due Paesi, aveva garantito un miglioramento delle condizioni sociali, nonché il plauso della comunità internazionale per le capacità espresse dal leader etiope. Nell’agosto del 2020 si sarebbero dovute tenere le elezioni generali in Etiopia che, nelle intenzioni del Primo Ministro, avrebbero garantito stabilità politica e rafforzato il potere del governo federale sul territorio. La pandemia e i notevoli problemi logistici hanno causato l’impossibilità, secondo le organizzazioni governative, di tenere le elezioni, con grande disappunto sulle reali intenzioni di Abiy Ahmed. Dopo un primo rinvio a maggio 2021, il National Electoral Board of Ethiopia, incaricato di gestire il processo elettorale, ha dovuto nuovamente posticipare la data delle elezioni. Il 21 giugno risulta quindi essere fondamentale per portare a termine il tanto atteso evento politico. Nei fatti però non porterà a nessun cambiamento sostanziale, né tantomeno a una resa dei conti tra i differenti partiti che negli anni si sono scontrati per la leadership politica. In quest’ultimo anno, infatti, l’Etiopia è stata terreno di scontro tra i molti gruppi etnici del Paese, che combattono fra di loro per divisioni storiche. Dopo una breve fase illusoria, in cui i gruppi politici sembravano collaborare, il rinvio delle elezioni ha fatto traboccare il vaso e provocato una guerra tuttora in corso nella regione settentrionale del Tigray. Lo scoppio del conflitto è avvenuto nel novembre del 2020 quando il governo regionale nel nord del Paese, controllato dal Tigray People’s Liberation Front (TPLF), aveva indetto le elezioni sul proprio territorio, nonostante il posticipo imposto da Addis Abeba. L’escalation è stata rapida e ha visto in primo luogo il governo federale tagliare le risorse impiegate nel Tigray, successivamente ha risposto agli attacchi dei gruppi armati legati al TPLF. Dopo mesi di scontri, violenze sessuali e carestia, l’area settentrionale dell’Etiopia è stremata dalla situazione: l’80% dei raccolti è stato distrutto dai belligeranti, su 6 milioni di abitanti 5,2 di questi necessitano aiuto umanitario immediato, mentre oltre un milione di persone vive in condizioni di grave insicurezza alimentare. Il conflitto in atto è prima di tutto politico e vede il governo centrale combattere contro una parte della leadership politica legata alla storica divisione del potere in Etiopia, in cui i partiti e le amministrazioni regionali sono divisi su base etnica. Nel 2019 Abiy Ahmed aveva dato vita al Prosperity Party, una grossa coalizione di unità nazionale comprendente quasi tutti i grandi partiti del Paese, eccetto il TPLF. Il Primo Ministro etiope vorrebbe ridurre il potere dei gruppi etnici nei governi regionali e la loro autonomia, mentre l’élite politica tigrina rivendica il forte senso identitario del proprio popolo. Sin dalla fine della dittatura di Menghistu negli anni ‘90, il TPLF era sempre riuscito ad avere un ruolo di primo piano nel processo decisionale del Paese, andando così a eleggere il Primo Ministro nonostante l’etnia tigrina fosse numericamente in minoranza rispetto ad altri gruppi etnici. Una parte del TPLF inoltre è da sempre favorevole alla secessione del Tigray e all’annessione di una parte dell’Eritrea e di alcuni territori delle altre regioni etiopi. In Africa, come in altri contesti, parlare di divisione territoriale su base etnica è sempre molto complesso. L’Etiopia non è da meno, infatti a fronte di oltre 80 gruppi etnici tutte le regioni sono controllate per lo più dalle etnie maggioritarie nel singolo territorio, senza quindi rappresentare a pieno la composizione sociale del Paese. Lo scontro è frutto di un sistema politico incapace di superare le divisioni storiche tra differenti etnie e, come spesso accade, il prezzo più alto sarà pagato da tutta la popolazione. La pandemia ha facilitato la crisi politica che, secondo alcune stime, potrebbe causare uno stato di emergenza diffuso in tutta l’Etiopia con 13 milioni di persone in emergenza umanitaria. In generale si assiste a un’elezione il cui risultato non porterà a nessun cambiamento, con il rischio di danneggiare ulteriormente la coesione sociale del Paese. I 37 milioni di elettori registrati potranno vedere i risultati dopo una ventina di giorni anche se incompleti, in quanto, dei 547 collegi elettorali, 78 non partecipano alla tornata elettorale per via dei conflitti in atto o per problemi organizzativi. L’elezione inoltre è stata boicottata da diversi partiti, tra cui l’OLF e l’OFC e i gruppi politici dell’Oromia, la regione più popolosa dell’Etiopia. Molti politici e attivisti sono stati arrestati con accuse di terrorismo, mentre tra i candidati che sono riusciti a presentarsi nessun sembra esse in grado di sfidare Ahmed. La tornata elettorale oramai non sembra portare grosse sorprese, tanto che l’Unione Europea ha richiamato la missione inviata a testimoniare il corretto svolgimento delle elezioni, a causa della mancanza di trasparenza da parte del governo etiope. In questo clima di repressione è oramai chiaro il fallimento della politica di Abiy Ahmed e l’incapacità del governo etiope di garantire il corretto svolgimento delle elezioni. Quello che doveva essere un periodo di rinascita per il popolo etiope sarà l’ennesima occasione persa per un futuro migliore, nonché una sconfitta politica di Abiy Ahmed. In questo grave contesto le altre nazioni hanno mostrato un limitato interesse nella situazione. L’Unione Europea e gli Stati Uniti hanno però fornito risorse economiche importanti, l’agenzia americana per lo sviluppo internazionale ha donato dall’inizio del conflitto quasi mezzo miliardo di dollari in aiuti umanitari. Cifre minori, ma comunque utili, sono state erogate da Bruxelles, in aggiunta ai 20 milioni di euro per supportare lo svolgimento delle elezioni generali. A fronte dei limiti della comunità internazionale nell’utilizzo di strumenti politici efficaci, solo la classe politica etiope potrà risollevare le sorti del Paese, l’atteggiamento tenuto da Abiy Ahmed negli ultimi mesi però lascia poche speranze. Il risultato di queste lezioni, qualunque esso sia, non sarà una vittoria per la democrazia. Bibliografia:
a cura di Emanuele Volpini Le elezioni presidenziali statunitensi del 2020 sono state tra le più seguite degli ultimi anni. La vittoria di Joe Biden non è stata netta come molti si aspettavano e questo ha lasciato spazio a più di un semplice dubbio sul futuro degli Stati Uniti, soprattutto per ciò che riguarda la politica estera. La domanda che molti si pongono è se gli Stati Uniti, sotto la nuova presidenza, vorranno avere ancora un ruolo da protagonista all’interno del sistema internazionale. L’ex Presidente Trump nel corso del suo mandato ha lanciato segnali ben precisi: gli Stati Uniti non devono e non vogliono più assumersi compiti e responsabilità di garante per l’ordine mondiale. Esempi celebri di tale volontà sono stati il ritiro dal TPP e dal TTIP in ambito economico e la messa in discussione della stessa NATO. Questo tipo di atteggiamento è stato considerato assai pericoloso per l’ordine internazionale e per la sua stessa stabilità. Il possibile vuoto lasciato da un ritiro degli USA dai principali scenari mondiali ha causato diverse reazioni in tutto il mondo. Se da una parte molti paesi hanno espresso perplessità sulla linea politica estera adottata dall’ex Presidente Trump, altri invece hanno mostrato approvazione. In questo secondo caso le nazioni concorrenti hanno visto nel retrenchment trumpiano un'occasione più unica che rara di avanzare a livello regionale e attuare le proprie politiche. Ora, invece, con l’elezione del Presidente Biden, ci si interroga su quale sarà il ruolo di Washington nei prossimi quattro anni in tema di politica estera. I segnali fino ad oggi lanciati sono contrastanti. Da un lato il Presidente Biden ha annunciato la più grande manovra economica per il rilancio del paese, l’American Rescue Plan, da 1.900 miliardi di dollari per vincere la sfida della pandemia e della recessione che ha toccato picchi storici nella prima metà del 2020. Ha inoltre annunciato il ritiro definitivo del contingente statunitense dall’Afghanistan dopo esattamente venti anni dall’inizio delle operazioni. Questi potrebbero essere presi come esempi di manovre di self-help e di intern balancing, che rientrano in una più grande strategia di retrenchment come detto e fatto da Trump. Dall’altre parte, tuttavia, Biden non ha di certo risparmiato parole forti sia per gli alleati storici sia per i potenziali avversari: se in primis ha voluto riallacciare i rapporti con i paesi dell’Unione Europea - che era stata allontanata proprio da Trump (tranne il Regno Unito) - non si è risparmiato nel definire “assassino” il Presidente russo Vladimir Putin, scatenando un’ondata di reazioni più o meno favorevoli all’interno della comunità internazionale. Ha poi proseguito con l’allontanamento di diversi funzionari russi dal suolo statunitense e approvato sanzioni economiche nei confronti di Mosca. Notizia del 24 aprile, invece, è il riconoscimento ufficiale proprio da parte di Washington del genocidio degli armeni per mano dei turchi. Queste dichiarazioni mostrano come Biden voglia ribadire la centralità e l’attività degli Stati Uniti all’interno del sistema internazionale. Possiamo, però, definire gli Stati Uniti come la potenza egemone dell’ordine mondiale? Nella definizione più classica data dalle relazioni internazionali, per essere considerata una potenza egemone, una nazione deve avere il predominio in tutti i settori chiave - economia, ricerca e sviluppo, popolazione, personale militare etc. Tuttavia, dopo il crollo del muro di Berlino prima e dell’Urss dopo, gli Stati Uniti sono rimasti senza rivali all’interno del panorama internazionale pur non essendo i leader in alcuni dei settori cardine sopracitati. Per questo si dice che “Viviamo in un sistema unipolare senza egemonia". Oggi, il divario tra gli Stati Uniti e il resto dei paesi del mondo è troppo grande per essere colmato, ma ci sono alcune nazioni che potenzialmente potrebbero sfidare la supremazia di Washington. Stati come la Germania, il Giappone e la Cina hanno la possibilità, in campo economico, di sfidare e superare il mercato americano e di creare un nuovo polo economico lontano dal controllo degli Stati Uniti. Di fatto, gli Stati Uniti sono uno stato polare da un secolo ma senza egemonia. Washington è l’attore egemonico in molti scenari del mondo, come nelle aree più pericolose dove rappresenta la forza principale per coordinare le operazioni tra gli stati ma, allo stesso tempo, non riesce a prevenire la proliferazione nucleare in molti stati considerati potenzialmente nemici (Pakistan o Corea del Nord), non riesce a fermare e punire i massacri in Africa (Ruanda o Congo), non riesce a rimuovere i regimi ostili che violano le leggi internazionali e i diritti della popolazione. Ci troviamo, quindi, in una fase di transizione dove il sistema internazionale e i suoi attori stanno cercando di comprendere il ruolo che gli Stati Uniti vorranno avere negli anni a venire, una fase dove però bisogna comprendere anche l’ascesa di attori rivali che possono inserirsi nella corsa al ruolo di potenza egemone. Alla luce di questi elementi, gli scenari possibili nel futuro prossimo potrebbero essere molto diversi. L' unipolarismo mantenuto dagli Stati Uniti non è accettato dagli addetti ai lavori, ma potrebbe essere un caso; l' unipolarismo guidato da uno dei paesi emergenti come la Cina o da una compagine come l'Unione europea potrebbe diventare realtà più presto di quanto pensiamo; un sistema tripolare legato alle regioni economiche più potenti: Stati Uniti, Unione Europea e Cina. Siamo solo agli albori della nuova presidenza, ma i segnali lanciati dal presidente Biden sono molto chiari: gli Stati Uniti sono ancora la prima potenza al mondo, e chiunque voglia emergere ed affermarsi nei prossimi quattro anni dovrà fare i conti con loro. Bibliografia
Matteo Buccheri e Anna Rita Parisi, Elections Hub
La propensione a giocare il ruolo di superpotenza regionale è una caratteristica intrinseca dell’Iran che prescinde dalle singole personalità che occupano le più alte cariche del Paese, islamiche o repubblicane che siano. L’attitudine geopolitica dell’Iran si muove idealmente all’interno dell’impronta lasciata dal grande Impero Persiano, di cui la Repubblica Islamica è erede. Una necessità che si è fatta più intensa dopo la rivoluzione del 1979 che ha ribaltato gli equilibri del Medio Oriente: dopo decenni di intima alleanza con gli Stati Uniti che hanno reso il Paese il gendarme occidentale in un’area di forte competizione durante la Guerra Fredda, l’Iran post-rivoluzione sconvolse il sistema di alleanze. Gli Stati Uniti divennero il nemico numero uno della Repubblica Islamica; all’antiamericanismo, uno dei driver che infiammarono la rivoluzione, non poteva non seguire l’equivalente ostilità verso i Paesi che più di tutti erano, e sono tuttora, funzionali agli interessi americani, ovvero Israele e Arabia Saudita. L’Iran nel contesto regionale La longa manus di Teheran su molteplici scenari in Medio Oriente riflette quindi esigenze ideologiche interne e di competizione con attori esterni, i due fattori che storicamente determinano la geopolitica iraniana. L’Iran è il baluardo dell’Islam sciita, il ramo nettamente minoritario nella dicotomia tra sunniti e sciiti che ha assunto nel corso della storia un valore prettamente politico. Nelle intenzioni di Khomeini, il leader della rivoluzione del 1979 e la prima Guida Suprema della Repubblica Islamica, l’ideologia rivoluzionaria andava esportata verso l’esterno. L’Islam sciita è quel potere simbolico con il quale Teheran si è garantita un notevole influsso in quei Paesi mediorientali dove la componente sciita è considerevole. L’Iran è riuscito a penetrare in Iraq e a stabilire una fortissima influenza, soprattutto dopo la caduta di Saddam Hussein (dittatore sunnita iracheno) nel 2003. La presenza iraniana è molto forte anche in Libano attraverso Hezbollah (“Il Partito di Dio”), una sorta di “Stato nello Stato” d'ispirazione sciita dotato di un potente apparato militare nato nel 1982 dopo l’occupazione israeliana del Libano meridionale. Hezbollah è massicciamente finanziato dall’Iran e svolge una funzione di deterrenza proprio verso Israele, minacciato anche a sud da Hamas con cui l’Iran intrattiene rapporti in chiave anti-israeliana. Il corridoio strategico che collega Teheran alle coste libanesi del Mediterraneo passa inevitabilmente dalla Siria, alleato di lunga data della Repubblica Islamica nonostante la maggioranza della popolazione sia sunnita. Nel conflitto scoppiato nel 2011 l’Iran sostiene il regime di Bashar al-Assad, la cui famiglia è di fede alawita, un gruppo religioso vicino allo sciismo. Seppure il conflitto vede il coinvolgimento di diversi attori statali e non, la Siria è anche il teatro di una proxy war in cui l’Iran è contrapposto, tra gli altri, al rivale saudita. Lo stesso scenario si ripete in Yemen: Teheran sostiene i ribelli sciiti Houthi contro la coalizione guidata da Riad. Nonostante l’Iran sia percepito come una pericolosa minaccia dalla quasi totalità dei Paesi arabi mediorientali, con alcuni di essi intrattiene relazioni positive. Tra questi emergono Oman, dall’altra sponda dello Stretto di Hormuz, e Qatar. Non sorprende, dunque, che le elezioni del 18 giugno siano particolarmente seguite dalla comunità internazionale. L’esito non cambierà il peso dell’Iran nella regione né la predisposizione a determinarne gli equilibri, ma potrebbe radicalizzare l’approccio iraniano su alcuni dossier aperti. In quest’ottica, i riflettori internazionali puntano su Vienna dove sta attualmente avendo luogo il sesto round di negoziati per il nuovo accordo sul nucleare tra le delegazioni dei paesi firmatari dell’accordo del 2015 (Iran, Russia, Cina, Regno Unito, Francia e Germania, con supervisione dell’Unione Europea) e, parallelamente, degli Stati Uniti. L’accordo sul nucleare iraniano L’accordo sul nucleare iraniano è sempre stato una delle principali priorità per la sicurezza internazionale dal 2002, quando sono state rivelate attività nucleari fino a quel momento non divulgate, fonte di preoccupazioni inerenti alla natura del programma nucleare della Repubblica Islamica. Il Joint Comprehensive Plan of Action (noto come JCPOA o Iran Deal) del luglio 2015 ha attenuato queste preoccupazioni. Esso prevedeva una significativa riduzione della capacità iraniana di arricchire l’uranio in cambio della rimozione di alcune delle sanzioni economiche imposte internazionalmente sull’Iran. Tre anni dopo, con la decisione dell’allora Presidente americano Donald Trump di ritirare gli Stati Uniti dall’accordo, si è progressivamente arrivati all’erosione del JCPOA e di conseguenza ciò ha suscitato nuove preoccupazioni. Con l’ascesa al potere del nuovo inquilino della Casa Bianca, Joe Biden, si potrebbe invertire questa tendenza. A tal proposito, l’amministrazione Biden sostiene che la politica di Trump abbia portato l’Iran molto più vicino ad avere una bomba nucleare, col rischio di una pericolosa escalation nella regione. In più, la stessa amministrazione ha ribadito l’impegno a far aderire nuovamente gli Stati Uniti al JCPOA, a condizione che anche l’Iran torni a rispettare pienamente i suoi obblighi. In merito alle sanzioni, si sa che gli Stati Uniti non hanno alcuna intenzione di abrogarle tutte, specialmente quelle legate alle violazioni dei diritti umani o al terrorismo. L’Iran, dal canto suo, si è detto disposto a intraprendere un dialogo con gli Stati Uniti. Dunque, il percorso appare molto lineare, ma in primo luogo è necessario ripristinare la fiducia reciproca in modo da far sì che ogni progresso sia concreto e di lunga durata. Nel periodo dei negoziati, tutte le parti riponevano fiducia nella capacità e impegno dell’altra nell’ottemperare ai propri obblighi, ma dopo quattro anni di tensioni e scontri, ci vorrà tempo per ricostruire la fiducia persa. Emblematico, in tal senso, è il caso del generale Qassem Soleimani, ucciso il 3 gennaio 2020 da un raid americano all'aeroporto di Baghdad; Soleimani era il comandante delle Quds Force, figura di assoluto rilievo per la politica estera iraniana. Tuttavia, è necessario affrontare immediatamente tutti i punti dell’accordo percepiti come deboli, che vanno dall’inclusione nei negoziati di un maggior numero di questioni, al coinvolgimento di altri attori tra quelli presenti nella regione. Il terzo motivo che complica un ritorno al totale rispetto dell’accordo sono le prossime elezioni presidenziali del 18 giugno. Se dovesse vincere il candidato ultraconservatore Ebrahim Raisi, l’approccio in merito alla questione del nucleare potrebbe cambiare. Intanto, i negoziati di Vienna per il ripristino del JCPOA procedono col sesto round. Il capo negoziatore russo, l’ambasciatore Mikhail Ulyanov, ha dichiarato con un tweet che quasi certamente non si giungerà ad un accordo definitivo prima delle elezioni presidenziali. Tuttavia, le parti sarebbero comunque vicine al raggiungimento dell’intesa. a cura di Lorenzo Cozzi A partire dal conflitto russo-georgiano del 2008, e ancora di più dalla questione ucraina del 2014, risulta chiaro come uno degli obbiettivi principali di Mosca sia la proiezione della propria influenza all’estero. Comprensibilmente questo ha creato una grande preoccupazione tra le grandi potenze internazionali, specialmente Unione europea e USA, i cui interessi sono stati messi maggiormente in discussione, e ha portato a un inasprimento delle relazioni bilaterali con il Cremlino, come è facilmente verificabile dalla recente ondata di ritorsioni diplomatiche che sta caratterizzando gli ultimi mesi, portando a una situazione di massima tensione dal periodo del collasso dell’Unione Sovietica. Nonostante la gravità della situazione, il discorso politico e mediatico occidentale circa l’orientamento strategico russo è spesso bloccato a una definizione degli interessi della Federazione Russa come qualcosa di riconducibile, se non identico, a quanto visto nel periodo sovietico. La presenza di una minaccia russa agli interessi economici e politici occidentali è innegabile, ma il mantenimento di una concettualizzazione degli obbiettivi di Mosca come un continuum con quelli sovietici, porta a trascurare diversi elementi che connotano la “nuova” Russia. Un esempio che permette di comprendere questa distinzione fondamentale è l’intervento russo nella Repubblica Centrafricana (RCA). Dal 2018, infatti, la Federazione Russa ha avviato un programma di collaborazione energetica e militare con il governo centrafricano di Faustin Touadéra, sorpassando in poco tempo la Francia, all’epoca il principale attore straniero nello stato e nella regione in generale. Per comprendere l’impegno russo in Centrafrica e le nuove priorità strategiche russe è conveniente distinguere l’approccio di Mosca su tre livelli fondamentali: internazionale, statale e individuale. A livello internazionale. l’aspetto più importante per la leadership russa è la legittimazione, per lo meno ufficiale, dei suoi interventi all’estero. Parte centrale della narrativa politica della Russia di Putin è infatti il riconoscimento della centralità del riconoscimento reciproco degli stati sovrani e l’aderenza alle norme del diritto internazionale. È importante sottolineare come questa sia solo la facciata ufficiale che Mosca ha costruito per legittimare i suoi interventi all’estero, ben lontana dall’essere rappresentativa delle reali intenzioni e ambizioni russe. Il modo in cui Mosca legittima i suoi interventi ufficiali all’estero è screditare i competitors occidentali e le azioni ufficiali, che spesso sono andate oltre ai mandati ONU o addirittura in completa opposizione alle norme del diritto internazionale (bombardamento NATO di Belgrado nel 1999, Intervento NATO in Libia nel 2011, utilizzo di droni per eliminare cittadini stranieri sul suolo di paesi terzi). Nello specifico, l’intervento russo in Repubblica Centrafricana è avvenuto su autorizzazione del consiglio di sicurezza ONU, che ha permesso alla Federazione Russa di mandare “consiglieri militari” per addestrare e supportare le truppe del governo centrafricano, oltre al permesso di donare un grande numero di armi leggere, funzionali proprio all’addestramento. Tutto questo avviene in seguito al fallimento dello stesso mandato affidato all’Unione europea, che per anni non è stata in grado di provvedere ai rifornimenti richiesti. A livello statale Mosca legittima sostanzialmente tutte le sue azioni all’estero, compresa quella in RCA, con la volontà di “restituire lo status di grande potenza al Paese”, concetto che ha una particolare presa sulla fascia di popolazione dai 40 anni in su, bacino elettorale da cui il Presidente trae buona parte del suo consenso politico. I maggiori interessi a livello statale, sono di fortificare i legami finanziari e di cooperazione per i settori energetico e militare, punti su cui la Russia fa particolare affidamento per fortificare la sua influenza a livello internazionale. Alle stesso tempo quello che la Russia cerca sono partner che possano offrire concessioni favorevoli, possibilmente in esclusiva, per l’importazione di minerali rari necessari alla fabbricazione di componenti elettronici, essendo Mosca dipendente dall’importazione estera. Considerando la centralità della digitalizzazione per la Federazione Russa, una delle priorità del Cremlino è lo sviluppo estensivo dello Skolkovo Innovation Center (la “Silicon Valley” russa) per tagliare la dipendenza dalle tecnologie occidentali. Questa visione coincide perfettamente con le necessità dei paesi con cui Mosca ha interagito maggiormente negli ultimi anni, specialmente la Repubblica Centrafricana, ricca appunto dei materiali che la Russia cerca e con un forte richiesta di forniture e conoscenze nel settore energetico e militare. Con particolare attenzione all’aspetto militare, l’intervento di Mosca in RCA, insieme a quello in Siria, ha permesso alla Russia di perfezionare l’impiego operativo di compagnie militare private come assetto principale tra il suo arsenale strategico. Sfruttare truppe scelte, ma ufficialmente non collegate all’esercito della Federazione Russa, permette sia a Mosca che a Bangui di utilizzare questa risorsa militare oltre i confini legali che il mandato delle Nazioni Unite imporrebbe a truppe statali. In ogni caso l’appartenenza a un’entità privata permetterebbe ad entrambi gli stati di dissociarsi da eventuali azioni eccessivamente scomode. Per quanto riguarda il livello individuale, fin dal 2018, Putin si è impegnato a costruire e coltivare una serie di rapporti personali con le autorità politiche centrafricane, spesso giocando sulla similarità storiche tra le due nazioni (la storia turbolenta segnata spesso da conflitti interni, il passaggio attraverso a durissime crisi e la volontà di dare un nuovo volto al proprio paese). In questo modo, la Russia è riuscita ad avvicinarsi alla leadership politica di Bangui molto più di quanto non fosse stato in grado di fare la Francia, chiaramente segnata dal passato di potenza coloniale che la rende difficilmente identificabile come un partner alla pari. Allo stesso tempo Mosca non si è fermata alle sole relazioni personali, ma ha anche favorito la creazione di una leadership politica a sé vicina, sostenendo attivamente le campagne elettorali di determinati candidati, elargendo fondi e mettendo a disposizione intensivi bombardamenti mediatici per influenzare l’opinione pubblica.
a cura di Giorgio Catania Joe Biden è diventato il primo presidente degli Stati Uniti d’America a riconoscere ufficialmente il genocidio armeno. “È un atto dovuto per onorare le vittime e confermare la storia, non un modo per incolpare la Turchia” ha dichiarato il nuovo inquilino della Casa Bianca. A distanza di 106 anni dall’inizio del massacro del popolo armeno ad opera dell’Impero Ottomano – costato la vita a 1.5 milioni di persone – l’amministrazione Biden si spinge dunque lì dove nessuna precedente amministrazione era mai arrivata. Solo Ronald Reagan – nel 1981 – aveva citato “il genocidio degli armeni” in un passaggio su un documento incentrato sull’Olocausto, senza farvi più riferimento in seguito. La scelta di Biden ha un valore particolarmente simbolico. Da oltre un secolo, infatti, la Turchia – erede dell’Impero Ottomano – si oppone fermamente al riconoscimento ufficiale del genocidio e minaccia ritorsioni verso chiunque si muova in direzione opposta. Pur ammettendo che ci siano stati dei massacri, il governo turco sostiene che anche molti turchi furono uccisi nel contesto violento della Prima Guerra Mondiale e mantiene una posizione categoricamente negazionista sul genocidio. Basti pensare che il codice penale turco prevede delle pene molto severe per giornalisti e scrittori che utilizzano il termine “genocidio” con riferimento agli armeni e i libri di scuola negano che sia mai accaduto. Nonostante le minacce di Erdogan, il movimento per il riconoscimento del genocidio armeno ha guadagnato sempre maggiore seguito negli ultimi anni e sono ormai 30 i paesi ad aver sdoganato l’utilizzo del termine in relazione al caso armeno grazie alle risoluzioni dei loro parlamenti. Cosa che non ha fatto l’ONU, che ha più volte ribadito come non possa esprimersi con autorevolezza su fatti avvenuti trent’anni prima della sua fondazione (nel 1945) non avendo avuto la possibilità di indagare direttamente. La reazione del governo turco alla dichiarazione di Joe Biden non si è fatta attendere. Erdogan ha prontamente controbattuto sostenendo che “il genocidio è una menzogna storica inventata a fini politici” e che “la Turchia non prende lezioni da nessuno sulla propria storia”. Sale dunque il nervosismo tra Stati Uniti e Turchia. Come pronosticabile, Erdogan ha convocato l’ambasciatore americano ad Ankara e non è escluso che possa attuare altre ritorsioni (come la limitazione dell’utilizzo di basi americane su territorio turco) ma ciò non comprometterà le relazioni con gli Stati Uniti, perché non è nell’interesse di entrambe le parti. Le prime tensioni tra i due alleati NATO si sono registrate anni fa, quando Erdogan ha stretto una forte collaborazione con la Russia di Putin, che è culminata nell’acquisto di missili S-400 russi e nelle successive sanzioni americane da parte di Trump. La mossa di Biden va intesa come un tentativo di mettere in discussione il posto dell’Armenia nella sfera di influenza russa e di controbilanciare la vittoria turco-azera nella guerra del Nagorno-Karabakh.
a cura di Andrea Barbato Da circa due anni le relazioni bilaterali tra Colombia e Venezuela hanno subito un netto peggioramento. I due paesi andini hanno dato vita ad una vera e propria guerra fredda, interrompendo i loro rapporti diplomatici e militarizzando la frontiera, soprattutto in seguito alla decisione, da parte del governo colombiano, di chiudere il confine per prevenire la diffusione del Covid-19 attraverso i flussi migratori dal vicino venezuelano. Storicamente, i due paesi hanno intrapreso due percorsi politici diversi, spesso in conflitto l’uno con l’altro. La Colombia è considerata ancora oggi l’unico vero alleato fedele degli Stati Uniti nel cono sud, soprattutto dopo l’emanazione del “Plan Colombia”, un piano di aiuti economici volto a favorire la lotta al narcotraffico e ai gruppi armati ribelli, protagonisti del conflitto civile colombiano. Tale piano sposava in pieno il “Washington Consensus”, una strategia statunitense che, in particolar modo in America Latina, aveva come obiettivo la promozione del neoliberismo economico ed il collocamento dei paesi latinoamericani all’interno della sfera di influenza di Washington, sia sul piano politico sia su quello della sicurezza regionale. Dall’altro lato, il Venezuela, soprattutto a partire dal 2003, fu il fondatore e principale promotore di un asse anti-imperialista, all’interno dell’alleanza bolivariana guidata dalle idee del “Socialismo del XXI secolo”. Attraverso una strategia internazionale basata sul principio della cooperazione sud-sud e sul ripudio dell’ordine liberale internazionale guidato dagli Stati Uniti, il Venezuela riuscì ad imporsi come un attore centrale nelle dinamiche regionali latinoamericane, almeno fino alla morte di Chavez nel 2013. Le enormi difficoltà economiche e sociali che il Venezuela ha affrontato sin dall’inizio della presidenza di Nicolas Maduro, hanno dato vita ad una delle più gravi emergenze umanitarie della storia. La crisi migratoria che l’intera regione si è trovata a fronteggiare, ha avuto un impatto maggiore in Colombia, dove i due popoli convivono con non poche difficoltà. I governi di Bogotà e Caracas non hanno mai trattato la crisi migratoria come un problema umanitario, al contrario, quest’ultima si è rivelata essere il principale capro espiatorio per le loro rivalità geopolitiche. La decisione di chiudere il confine con il Venezuela, da parte del governo colombiano, con la finalità di prevenire la diffusione del Covid-19, ha dato vita ad un vero e proprio effetto spillover lungo tutta la frontiera. I flussi migratori non si sono arrestati, sono stati riorganizzati attraverso altre vie, irregolari. I protagonisti di tale riorganizzazione sono i gruppi armati, sia dal lato colombiano sia da quello venezuelano, che combattono i governi centrali e che hanno trovato, nei migranti, una nuova fonte essenziale per i loro finanziamenti. I numerosi report di violenze, omicidi, tratte umane, schiavitù, abusi sessuali, hanno messo in luce una situazione estremamente preoccupante. La risposta dei governi di Bogotà e Caracas è stata di natura prettamente militare. Entrambi i paesi hanno optato per una militarizzazione della frontiera con l’obiettivo di difendere i confini nazionali attraverso la repressione dei gruppi armati presenti nella regione. Da un lato, la Colombia non sembra intenzionata, per ora, ad aprire un grande processo di pace con i dissidenti delle FARC e con l’ELN (quest’ultimo non partecipò all’accordo di pace del 2016). Dall’altro, il Venezuela, sulla scia della retorica anti-imperialista di Chavez, cerca nella crisi del confine un riscatto geopolitico, un’opportunità per usare la deterrenza come uno scudo dai continui attacchi da parte della comunità internazionale. Il rischio di uno scontro armato diretto è evidente, i recenti avvenimenti nelle regioni di Apure e Arauca non vanno certamente nella direzione di una gestione di natura umanitaria della crisi. L’emergenza sanitaria, che ha colpito su larga scala le rotte migratorie, sembra non avere una rapida soluzione e la risposta dei governi centrali si è limitata, per ora, alla repressione e alla coercizione. Bibliografia
Carlo Comensoli e Matteo Buccheri, Elections Hub
All’interno del sistema politico iraniano, la decisione del Consiglio dei Guardiani sull’ammissibilità dei candidati è un passo importante durante le settimane che precedono le presidenziali, anche perché permette di capire l’andamento politico ai vertici delle istituzioni del Paese. Quest’anno, dei ben 592 iniziali candidati solo sette potranno proseguire la campagna elettorale di questo mese, come annunciato dal Ministro dell’Interno lo scorso 25 maggio subito dopo la decisione ufficiale del Consiglio. Ulteriori requisiti, rispetto a quanto specificato nella Costituzione, sono stati imposti dal Consiglio per garantire un’omologazione più consistente dei candidati in vista del voto del 18 giugno (età compresa tra 40 e 75 anni; nessun precedente penale; esperienza di almeno 4 anni di rilevante leadership dirigenziale). È stata così respinta la candidatura di importanti esponenti del fronte riformista come Mostafa Tajzadeh, volto noto nell’establishment che ha trascorso 7 anni in prigione dopo le proteste del Green Movement nel 2009, e il trentanovenne Mohammad Javad Azari Jahromi, l’attuale Ministro delle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione. La decisione del Consiglio dei Guardiani ha di fatto aperto la strada per la vittoria di Ebrahim Raisi, dato ormai come candidato favorito. Nominato capo del sistema giudiziario iraniano nel marzo del 2019 dalla Guida Suprema, Raisi è il principale candidato tra i nomi di coloro che parteciperanno alle elezioni del prossimo 18 giugno. Il sessantenne chierico ultraconservatore occupa anche la carica di primo vice-Presidente dell’Assemblea degli Esperti e gode della piena fiducia di Khamenei, con il quale ha stretto un forte legame nel corso degli anni in cui ha servito nei ranghi della Repubblica Islamica. Ciononostante, alcuni controversi episodi del passato pesano sulla sua immagine agli occhi dell’opinione pubblica iraniana. Mentre ricopriva la carica di vice procuratore generale di Teheran, fece parte della cosiddetta death commission che nell’estate del 1988 fece giustiziare oltre 30 mila prigionieri politici. Nel 2009, inoltre, fu coinvolto nella brutale repressione delle proteste del Green Movement, scoppiate dopo le contestate elezioni presidenziali che hanno confermato Ahmadinejad. Per questi motivi Raisi è stato sanzionato dal governo degli Stati Uniti nel novembre del 2019 ed è ancora impopolare in certi segmenti della popolazione più inclini verso candidati moderati-riformisti, ma l’assist del Consiglio dei Guardiani in sede di filtraggio delle candidature potrebbe avergli fornito l’opportunità di recuperare legittimità. Gli altri candidati approvati dal Consiglio sono:
Questa elezione segnerebbe quindi il consolidamento dell’area conservatrice in vista di un possibile futuro cambio ai vertici del Paese. Da tempo, infatti, l’ayatollah Ali Khamenei, Guida Suprema dell’Iran, sarebbe gravemente malato e, anche se deve ancora essere eletto Presidente, Raisi viene già dato come probabile successore dell’attuale Capo di Stato. Fu infatti Khamenei in qualità di leader del Paese a nominare Raisi come capo del sistema giudiziario: già questo fatto era stato visto come una sorta di endorsement da parte del Rahbar, confermato dalla decisione del Consiglio dello scorso 25 maggio che ha sostanzialmente escluso gli sfidanti che avrebbero potuto concretamente competere con Raisi alle presidenziali. Tra i grandi esclusi dalle elezioni di quest’anno, anche l’ex Presidente Mahmoud Ahmadinejad, in carica dal 2005 al 2013. In realtà la sua esclusione da parte del Consiglio era attesa, visto che la sua candidatura avrebbe giocato più un ruolo di provocazione nei confronti del sistema politico del paese. Il leader si è infatti via via allontanato dalla classe conservatrice dell’Iran per schierarsi su posizioni giudicate populiste, ponendosi come voce critica nei confronti del rigido sistema che regola il Paese e criticando i vertici per gli episodi di corruzione. Di fronte all’esclusione dalle elezioni, Ahmadinejad ha quindi annunciato che non voterà nessun altro candidato, boicottando le elezioni. In effetti, di fronte all’esito praticamente scontato delle elezioni, la scarsa affluenza alle urne è l’aspetto che in qualche modo pone un problema di legittimità dell’ordinamento iraniano. Non a caso lo stesso ayatollah Khamenei, in seguito alla decisione del Consiglio sui sette candidati, ha invitato i cittadini a votare. Di fatto, con gli anni si sta facendo strada l’insoddisfazione nei confronti del funzionamento della vita politica nella Repubblica Islamica: anche tra i cittadini iraniani che vivono all’estero prevale la linea del dissenso nei confronti del sistema, sempre più spesso accusato di assenza di democrazia. Se da un lato, quindi, il principale candidato dell’area politica conservatrice Ebrahim Raisi è già dato come il più probabile successore del Presidente uscente Hassan Rouhani, il tasso di affluenza avrà un ruolo importante per capire di quanta popolarità goda attualmente il sistema teocratico iraniano tra i cittadini, soprattutto in vista di un futuro cambio della Guida Suprema dell’Iran. |
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