A cura di Lorenzo Giordano, Programma sulla politica estera italiana
«Il futuro non verrà costruito con la forza, nemmeno con il desiderio di conquista ma attraverso la paziente applicazione del metodo democratico, lo spirito di consenso costruttivo e il rispetto della libertà», proclamava Alcide De Gasperi, dopo aver accolto l’appello per un’Europa integrata lanciato da Robert Schuman il 9 maggio del 1950. È un discorso programmatico di stampo degasperiano in linea con il suo “background” quello pronunciato ieri, 17 febbraio, da Mario Draghi al Senato, in attesa di ricevere il primo voto di fiducia al suo governo. Un monito diretto alla responsabilità nazionale, all’unità, a far fronte comune contro la pandemia da Covid-19 e la crisi economica. L’ex presidente della Banca Centrale Europea ha sollecitato il risveglio dello “spirito repubblicano” di un Paese che, nei momenti storici più critici, ha dimostrato la sua resilienza. Numerose le tematiche trattate dal neopresidente del Consiglio dei ministri, dalla situazione sanitaria al rilancio della parità di genere nei settori produttivi, fino al Mezzogiorno e agli investimenti pubblici. Affrontata la questione Next Generation UE – il Piano di Rilancio Europeo approvato lo scorso luglio dal Consiglio Europeo per sostenere i Paesi membri colpiti dal Covid-19 –, è stata la volta del perimetro strategico che l’Italia è destinata a ricoprire nel quadro della sua politica estera. In particolare, il Paese è chiamato a fare i conti con una discontinuità governativa che, dal secondo dopoguerra ad oggi, ha avuto un impatto negativo sulla sua proiezione internazionale. Un’instabilità politica da cui sono derivati un’incapacità di visione a lungo termine ed un ruolo marginale rivestito in teatri regionali di primario interesse nazionale. Europeismo, atlantismo e multilateralismo sono le linee guida che strutturano la posizione delineata da Draghi e che sembrerebbero determinare la collocazione internazionale dell’Italia. Il filone europeista, in particolare, assume una notevole rilevanza sin dalle battute iniziali, in cui il presidente del Consiglio sottolinea la convergenza fra il sostegno al nuovo governo e l’irreversibilità della scelta dell’euro e motiva la cessione di sovranità nazionale con l’acquisto di sovranità condivisa nelle aree statali più fragili: quasi a voler dissipare il vuoto di legittimazione politica e rappresentanza popolare di cui spesso risentono le istituzioni europee sovranazionali, a causa di una visione diffusa e di un senso comune che considerano “distanti” i tecnocrati e burocrati di Bruxelles. In materia di cooperazione europea, il riferimento del primo ministro è rivolto ai partenariati privilegiati con Francia e Germania, storicamente i motori dell’integrazione europea, le cui economie sono strettamente interdipendenti con quella italiana e i cui interscambi commerciali dovranno essere intensificati. Nel 2019 il presidente francese Emmanuel Macron e la cancelliera tedesca Angela Merkel hanno rinnovato il trattato dell’Eliseo, firmato da Charles De Gaulle e Konrad Adenauer nel 1963, sugellando il trattato di cooperazione franco-tedesca di Aquisgrana che, oltre alla valenza simbolica che si esprime nell’impulso agli impegni europeisti di fronte all’insorgere di nazionalismi, contiene una clausola di reciproca difesa militare in caso di aggressione ed ulteriori progetti di collaborazione e coordinamento nell’ambito di sicurezza interna, politica estera ed economica. Il presidente Draghi sembra, dunque, anticipare una maggiore influenza da parte di Roma nella regolazione degli equilibri europei, piuttosto che una dipendenza dalla leadership di Parigi e Berlino. Allo stesso tempo, il neopresidente apparirebbe orientato verso un bilanciamento degli interessi strategici tra Europa e vicinato balcanico e mediorientale, funzionale ad un rilancio delle ambizioni italiane di media potenza. Un bilanciamento che invece nell’ultimo decennio è stato percepito come una sorta di trade-off, a discapito della strategia italiana entro la sua “quarta sponda”: infatti, il ruolo di secondo piano assunto dall’Italia nel Mediterraneo, segnatamente in Libia, è in parte dipeso dalla ricerca parallela di un consolidamento della sua posizione nel Vecchio Continente. Ancora, nel contesto dell’Unione Europea, Draghi fa appello ad un regime di collaborazione e solidarietà con i Paesi maggiormente colpiti dalla crisi migratoria: Spagna, Grecia, Malta e Cipro, in maniera tale da scongiurare una crisi simile a quella del 2015, che alimentò le divisioni politiche fra Stati membri e portò alcuni di essi ad adottare delle misure straordinarie unilaterali, come la limitazione dello Spazio Schengen, anziché una politica coordinata di lungo termine. In quest’ottica, il presidente del Consiglio auspica una ripresa del dialogo fra UE e Turchia. D’altra parte, l’enfasi sull’approccio multilaterale, sotto l’egida delle Nazioni Unite, potrebbe costituire un richiamo alla nuova era inaugurata dall’amministrazione Biden alla Casa Bianca e un’istanza di un bilateralismo rafforzato con gli Stati Uniti, rientrati nel frattempo nell’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici e nell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Un cambio di rotta parziale rispetto all’equidistanza da Washington e Pechino manifestata dall’ex Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. Entrambi, nelle loro dichiarazioni, hanno richiamato gli “ancoraggi” italiani: mentre il primo, nel discorso a Palazzo Madama, ha citato «Unione Europea, Alleanza Atlantica e Nazioni Unite», l’ex premier, in un passaggio di un lungo discorso alla Camera lo scorso gennaio, ha affermato che il rilievo di Pechino sul piano globale ed economico andrebbe associato a «rapporti coerenti con un chiaro ancoraggio al nostro sistema di valori e principi». Pur rimarcando l’impronta filo-atlantista del nuovo governo e non definendo esplicitamente la Cina come partner fondamentale dell’Italia, Draghi riconosce tuttavia l’importanza delle relazioni con Pechino ma, così come per la Russia, esige, in primo luogo, un dialogo sul tema dei diritti umani e, nel caso della Cina, osserva da vicino i dossier relativi agli hotspots, Hong Kong e Taiwan su tutti, e alle tensioni con l’India. Infine, Mario Draghi ha segnalato i pilastri attorno cui ruota il programma della presidenza italiana al G20, il foro internazionale che riunisce le principali economie del mondo: People, Planet, Prosperity. a cura di Lorenzo Cozzi Con gli avvenimenti degli ultimi mesi, il nome Aleksej Naval'nyj è tornato tra le notizie principali in tutta Europa e negli Stati Uniti. Presentato dai media occidentali come l’ultimo baluardo della democrazia in Russia, Naval'nyj è diventato il simbolo di una parte della Federazione Russa che stoicamente resiste al governo autocratico di Vladimir Putin. Inoltre le manifestazioni nate il 28 gennaio 2021 sono state descritte come le prime manifestazioni di dimensioni considerevoli e le prime con una grande partecipazione giovanile che si siano viste negli ultimi vent’anni. Analizzando i fatti, però, la realtà sembra molto diversa da come viene presentata generalmente nei media occidentali. Per capire meglio il “Fenomeno Naval'nyj” bisogna in effetti andare oltre lo strato epiteliale del personaggio come ci viene presentato e analizzare concretamente il politico Aleksej Naval'nyj in relazione alla storia recente russa. Per capire al meglio come la situazione venga spesso distorta ai nostri occhi il modo migliore è fare un parallelismo tra le affermazioni riportate negli ultimi giorni e i dati che la storia ci fornisce. Innanzitutto Naval'nyj ci è stato spesso proposto come il leader dell’opposizione russa. Dati alla mano, questa sembra una definizione quantomeno priva di fondamento. Il partito “Russia del Futuro”, capitanato appunto da Naval'nyj, ha infatti solo un seggio su 450 nella Duma di Stato (il parlamento russo). Il sentimento generale dell’opinione pubblica occidentale è che Putin e il regime in generale sopprimano la libertà di espressione e di promozione politica dei partiti che gli si oppongono, ottenendo quindi un parlamento composto unicamente dalla maggioranza. Di conseguenza l’associazione di una situazione di scasa libertà democratica a una di manipolazione elettorale è immediata. La situazione in realtà è ben diversa. Al 2020, secondo un centro di ricerca indipendente, il 30% della popolazione russa non sapeva chi fosse Naval'nyj o non conosceva il suo programma politico, mentre il 50% disapprovava le sue azioni. Con questo si arriva a due punti chiave, di rado espressi dalla nostra stampa. Il primo è che, se Putin ha ricostruito un sentimento di identità nazionale attorno a valori di stampo conservatore (paragonabili al nostro centro-destra conservatore), Naval'nyj oltre alla retorica anticorruzione e pro-europeista, si è distinto per una comunicazione fortemente xenofoba e anti-immigrazione, decisamente indigesta alla popolazione russa. Emblematico è il caso di quando nel 2012 aveva paragonato i mussulmani a degli scarafaggi. Il secondo punto è che è molto difficile definire Naval'nyj come il leader dell’opposizione russa, sia dal punto di vista pratico, data la sua bassa rappresentatività partitica, che dal punto di vista teorico, visto che l’opinione pubblica non si identifica se non in minima parte con le sue idee. In realtà il partito a capo dell’opposizione in Russia è il Partito Comunista della Federazione Russa e il leader dell’opposizione è, ed è sempre stato dal 1993, Gennady Zyuganov. La causa della scarsa credibilità di Naval'nyj per l’opinione pubblica è spesso attribuita a un caso risalente al 2013: in quegli anni il politico era in carica come consigliere del Governatore dell’Oblast’ di Kirov e già da anni aveva avviato il blog sulla corruzione delle alte cariche dello stato che lo aveva reso famoso in europa. Il caso si sviluppò quando Naval'nyj fu condannato a cinque anni per appropriazione indebita di denaro pubblico, proprio dopo aver lanciato una campagna di anti-corruzione. In seguito la pena fu ridotta drasticamente senza motivazioni chiare e contemporaneamente il blogger iniziò a prendere di mira oligarchi e figure di spicco ostili a Putin. Un'altra questione fondamentale, spesso ignorata dall’analisi dei nostri media, è che Naval'nyj non è né il primo né l’unico ad essersi opposto a Putin e che le manifestazioni di massa di queste ultime settimane non sono le prime che si siano viste in Federazione Russa. Dal 2000 ad oggi sono stati creati diversi altri partiti di opposizione indipendenti, caratterizzati spesso dalla stessa composizione popolare: la maggioranza composta da giovani sotto i 30 anni, spesso provenienti dalla provincia, insoddisfatti e accomunati da un senso di marginalizzazione rispetto alla retorica putiniana. Infatti già con il partito nazional-bolscevico di Eduard Limonov, o con la coalizione “l’Altra Russia”, si erano viste proteste come quelle del 28 gennaio, tra cui “Strategy-31” o la “Snow Revolution”, probabilmente di dimensioni ancora maggiori. Sostenere che le manifestazioni degli ultimi tempi possano portare anche in Russia a situazioni di protesta diffusa e continuativa come nell’estate bielorussa dell’anno scorso, non tiene conto di tutti i fattori sociali, in parte anche analizzati in queste righe, che contraddistinguono il suo caso specifico. Naval'nyj è ed è stato molto più influente come blogger e video blogger di quanto non lo sia mai stato realmente come politico. Ad oggi i suoi canali social vantano un pubblico effettivamente ragguardevole, più di 6 milioni su YouTube e 2 milioni e mezzo su Twitter, ma questo in un paese con 160 milioni di abitanti non è abbastanza per poter essere influente a livello estensivo (per fare un paragone, da noi Beppe Grillo ha 2,4 milioni di followers su Twitter). Ad ogni modo questo ha fatto sì che il coinvolgimento di quella fetta di popolazione giovane e insoddisfatta descritta poco sopra fosse ancora più efficace e capillare. A ben vedere sembra che il vero bersaglio di Naval'nyj non sia l’opinione pubblica russa, ma quella occidentale da cui ha sempre ricevuto più sostegno e spinta che in patria. Nella guerra mediatica del nuovo millennio, l’egemonia culturale è ancora dell’occidente e Naval'nyj sembra averlo capito meglio del Cremlino. Date le premesse qui analizzate c’è da chiedersi: quanto conviene all’Unione Europea sostenere un personaggio che ha fatto della xenofobia e dell’ultranazionalismo i suoi cavalli di battaglia? E soprattutto, quanto conviene puntare sull’instabilità di un vicino come la Russia? In conclusione, sembra che i media e le istituzioni occidentali descrivano Naval'nyj come un difensore della democrazia in uno stato segnato dall’autocrazia, senza considerare però le sue reali posizioni oggettivamente antitetiche rispetto alla narrativa e ai valori europei. La mitizzazione della figura rivoluzionaria dell’oppositore del regime si è ormai cristallizzata nell’immaginario collettivo e mediatico occidentale, nonostante questo non sia, in fin dei conti, poco più di un mito. Continuare una strategia comunicativa di questo tipo sembra insostenibile, oltre che pericoloso, sia sul medio che sul lungo termine. ![]()
a cura di Simone Biggio Il 2020 è stato un anno di sfida dal punto di vista economico, politico e sociale per tutti i paesi del mondo. Nella lotta al virus alcuni Stati si sono dimostrati capaci di un’inaspettata resilienza, mentre altri hanno mostrato tutte le loro controversie e criticità. Grazie ai risultati ottenuti durante la prima ondata, l’Ungheria era stata annoverata tra quei Paesi che avevano saputo reagire con prontezza alla pandemia. La prima ondata era stata affrontata dal governo con un lockdown totale fino all’estate, che aveva effettivamente garantito all’Ungheria una delle ultime posizioni per contagi in tutta Europa, con un numero di casi inferiore ai 2000. La chiave di questa resilienza è stata identificata principalmente in una forte volontà politica del governo di contrastare il dilagare dell’epidemia, agendo senza esitazione anche quando la situazione non sembrava essere così grave. Tuttavia, la fermezza che il governo guidato da Viktor Orbàn ha impiegato è stata fortemente criticata per la sua natura antidemocratica. Infatti, il 30 marzo 2020 il Parlamento ungherese ha approvato un provvedimento che introduceva lo stato di emergenza nazionale a tempo indeterminato e la sospensione delle attività parlamentari e di eventuali future elezioni. Inoltre, il provvedimento conferiva pieni poteri all’esecutivo, autorizzato a governare tramite decreto, a sospendere l'applicazione di alcune leggi e ad introdurre altre misure eccezionali. Questa scelta politica è stata percepita come il conferimento di un potere pressoché illimitato al Primo Ministro Orbàn, a capo del partito di maggioranza Fidész, già tristemente famoso da anni per aver traghettato l’Ungheria verso una democrazia illiberale. Orbàn è stato accusato di sfruttare la pandemia come pretesto per accrescere il suo potere personale. Se da un lato, la promulgazione dello stato di emergenza ha permesso al governo di contrastare efficacemente la pandemia, dall’altro ha costituito un pretesto per continuare la destrutturazione del sistema democratico ungherese. Infatti, l’approvazione di alcune leggi poco attinenti con la lotta al coronavirus come quella contro la transizione di genere ha destato non poca preoccupazione: il 18 maggio il Parlamento ungherese ha approvato una legge che impedisce di cambiare l’indicazione del genere all’anagrafe e sui propri documenti, un provvedimento che de facto mette fine al riconoscimento legale delle persone transgender e intersex, cioè quelle i cui cromosomi sessuali, i genitali o i caratteri sessuali secondari non sono definibili come esclusivamente maschili o femminili. Nonostante l’iniziale successo nella gestione dell’emergenza Covid-19, tutti i successi riportati durante la prima ondata sono stati vanificati nella seconda. Infatti, con l’inizio dell’estate le restrizioni sono state progressivamente allentate e il 16 giugno lo stato di emergenza che conferiva pieni poteri al governo è stato revocato, placando le polemiche delle opposizioni e della comunità internazionale sull’accentramento del potere nelle mani di Orbàn. Durante tutta l’estate l’Ungheria ha potuto vantare la presenza di pochissimi casi sul territorio; alla fine di agosto si registravano 6139 positivi e 615 decessi su 10 milioni di abitanti. Nei mesi estivi il governo aveva varato un sistema di spostamenti internazionali per aree colorate, stilando tre liste di Paesi europei. Per le persone provenienti dai Paesi verdi era stata prevista libertà di movimento illimitata, per chi proveniva dai Paesi gialli era previsto l’obbligo di esibire due tamponature negative o di fare una quarantena di 14 giorni e per coloro provenienti dai Paesi rossi veniva vietato l’accesso con un’eccezione per i cittadini ungheresi. Dal 1° settembre, a causa di un aumento significativo dei nuovi contagi, l'Ungheria ha chiuso i confini a tutti coloro ai quali è stato fatto l’obbligo di quarantena o di esibizione di due test negativi presi a distanza di due giorni dal loro ritorno, esclusi cittadini e residenti. Tuttavia, questa eccezione è stata sorprendentemente estesa ai cittadini dei paesi di Visegrad (Polonia, Repubblica Ceca e Slovenia). Nel frattempo, il governo ungherese si è concentrato sulle misure di politica economica atte a mitigare l’impatto negativo della pandemia e a riportare l’economia in una traiettoria di crescita. Sono state individuate sette aree di interesse per la nuova politica economica: l'edilizia abitativa, la demografia, l'estensione della moratoria sui prestiti, lo stimolo degli investimenti (sovvenzioni statali non rimborsabili, tagli fiscali e programmi di capitale, prestito e garanzia), aumento delle capacità di finanziamento di speciali istituzioni finanziarie statali, utilizzo dei fondi Ue in modo efficiente e continuazione della strategia di spesa. Nel frattempo, l’Ungheria risultava come il terzo paese dell’Unione europea economicamente più colpito dopo Spagna e Croazia, con una contrazione del PIL del 14,5% rispetto al trimestre precedente su un calo medio dell’11,4% registrato dagli altri Stati membri. L’11 novembre il governo ha deciso l’imposizione di un “lockdown light” che si è protratto finora, caratterizzato da restrizioni piuttosto comuni in tutti i paesi dell’Unione come il coprifuoco dalle ore 20 alle ore 05 del giorno successivo, la didattica a distanza, la chiusura di locali con possibilità di asporto, la chiusura dei negozi alle ore 19.00 e la chiusura di teatri, cinema, palestre, piscine. Inoltre, il Parlamento ha ripristinato lo stato di emergenza questa volta per un tempo determinato di 90 giorni. La principale differenza della seconda ondata è stata la sua diffusione non solo a Budapest ma anche nel resto del paese. Con il nuovo anno tutti i paesi del mondo hanno iniziato a sperare nelle nuove sperimentazioni per i vaccini contro il Covid-19. L’Ungheria non è stata da meno, attuando una politica vaccinale su due fronti: da un lato, in quanto paese membro dell’Unione europea, sta beneficiando degli aiuti della comunità europea; dall’altro il governo si è lamentato dell’inefficienza e dei ritardi della campagna di vaccinazione europea e con questa motivazione ha avviato trattative bilaterali con la Russia e la Cina per l’inoculazione dei rispettivi vaccini, non ancora approvati dall’Agenzia Europea del Farmaco. A fine gennaio, Budapest ha siglato un accordo per la fornitura di 2 milioni di dosi del vaccino russo Sputnik. Una settimana dopo, l’Ungheria è diventato il primo paese membro dell’Unione europea ad approvare il vaccino cinese. L’Istituto Nazionale del Farmaco ha concesso l’autorizzazione a Sinopharm, uno dei due vaccini sviluppati dalla Cina. Il primo ministro Orbàn ha dichiarato che “i cinesi hanno avuto una lunga esperienza con questo virus e quindi probabilmente sono i più informati”. Tuttavia, secondo gli ultimi studi, Sinopharm avrebbe un tasso di efficacia del 79%, più basso rispetto ai vaccini Pfizer e Moderna. L’Ungheria attua ancora una volta una politica di convenienza nei confronti dell’Unione europea, beneficiando degli aspetti positivi ma sottraendosi nei momenti di difficoltà, in cui i Paesi membri dovrebbero essere solidali l’uno con l’altro e fare fronte comune. ![]()
a cura di Cristiana Oliva Salute e diplomazia non sono mai state così collegate come oggi. Le grandi potenze mondiali hanno sviluppato piani ambiziosi per fornire a miliardi di persone l'immunità al nuovo coronavirus. Dallo sforzo americano-tedesco Pfizer-BioNTech al cinese Sinovac, passando per lo Sputnik V, l’approvvigionamento ai vaccini anti-Covid potrebbe delineare un nuovo ordine mondiale, rafforzando vecchie alleanze e creandone di nuove. Anche Pechino sfrutterà il vaccino per rivitalizzare la sua reputazione globale, cercando di accrescere la propria influenza in quei Paesi che sono interessati dalla strategia della “Belt and Road Initiative”. E così attraverso varie tournée, i diplomatici cinesi stanno dimostrando la beneficenza di Pechino promettendo ai Paesi di Asia e Africa l'accesso preferenziale al vaccino cinese. Proprio come la Via della Seta, la strategia cinese passa anche dal Medio Oriente e dall’Africa. Dal punto di vista dei Paesi del Golfo, il coronavirus ha trasformato la Cina da semplice partner commerciale a benefattore e collaboratore scientifico. Ansiosi di revocare i blocchi e limitare l'effetto della pandemia da Coronavirus sulle loro economie, i Paesi del CCG, hanno preso parte alle sperimentazioni del vaccino Sinopharm. Il 9 dicembre, gli Emirati Arabi Uniti (EAU) sono diventati il primo paese al mondo ad approvare il vaccino sviluppato dalla China National Pharmaceutical Group Corporation. A seguire il Bahrein, che ha approvato il vaccino il 13 dicembre. Prima di passare alla somministrazione del vaccino su larga scala, il Bahrein e gli EAU hanno partecipato alla fase tre degli studi clinici del vaccino insieme a Egitto e Giordania. Proseguendo per la via della seta raggiungiamo la Turchia, dove le autorità hanno dato il via libera all'uso del vaccino Sinovac. Se infatti ad un primo sguardo i rapporti tra Cina e Turchia potrebbero sembrare poco rosei, il vaccino in realtà sembra sancire un’alleanza preannunciata da tempo. Sebbene la Turchia abbia accolto a lungo i rifugiati uiguri e si sia spesso pronunciata contro gli abusi del governo cinese sulla minoranza musulmana, negli ultimi anni Ankara si è avvicinata a Pechino e ha aumentato la sua assistenza nell'arresto o negli interrogatori degli uiguri accusati di terrorismo dalle autorità cinesi. Nonostante si rifiuti di estradare direttamente gli uiguri in Cina, la Turchia è stata accusata di averli inviati in paesi terzi, come il Tagikistan, dove l'estradizione in Cina è più facile. La diplomazia dei vaccini cinesi è arrivata anche nel continente africano, da tempo al centro delle strategie estere del paese del dragone. La Cina, infatti, si è impegnata a fornire vaccini a molti Paesi africani, cogliendo l'opportunità di aumentare il suo soft-power con una combinazione di filantropia e una grande dose di interessi commerciali. Nel dicembre 2020, il braccio logistico di Alibaba, Cainiao, ha stabilito una partnership con Ethiopian Airlines per introdurre una catena del freddo in grado di trasportare farmaci termosensibili dalla Cina, che renderà più agevole il trasporto di vaccini anti-Covid in Africa. In contrasto con il nazionalismo del vaccino dell'Amministrazione Trump, Pechino ha effettivamente offerto notevoli ricompense ai partner che intendono unirsi alla sua “via della seta e dei vaccini”. Ciò che ha reso la partnership particolarmente attraente per Egitto e Marocco è quella relativa alla produzione locale del vaccino, trasformando i due paesi nei nuovi hub cinesi nella regione. Le relazioni bilaterali tra Egitto e Cina, inaugurate dal famoso incontro tra il presidente Nasser e il premier Zhou Enlai nel 1955, hanno portato l'Egitto ad essere il primo paese arabo, africano e mediorientale a istituire un'ambasciata a Pechino, in un momento in cui l'Egitto difendeva la decolonizzazione e l'autodeterminazione mentre la Cina stava costruendo il suo stato moderno. Oggi l'Egitto non poteva mancare al grande piano della “Belt and Road” essendo la principale porta d'accesso all'Africa e al Medio Oriente grazie al controllo del canale di Suez. Per quanto riguarda il Marocco, seppur in un primo momento non aveva destato grandi interessi da parte della Cina, è diventato negli anni un tassello importante nella strategia di Pechino, probabilmente grazie alla maggiore stabilità politica del paese rispetto ai suoi vicini africani. L’aumento di popolarità del Marocco può essere fatto risalire alla visita del Re Mohammed VI in Cina nel 2016. D’altronde i due paesi sembrano condividere una reciproca non-interferenza nelle questioni interne: il rifiuto della Cina di commentare la questione del Sahara occidentale - una regione rivendicata dal Marocco - si sposa bene con il silenzio di Rabat sugli abusi di Pechino nei confronti della popolazione musulmana nello Xinjiang. Oltre alla reciproca non interferenza, il Marocco sta anche beneficiando di una serie di investimenti cinesi, in particolare in infrastrutture, che pongono il Marocco come hub per aumentare le esportazioni verso l'Europa e accorciare anche le catene di approvvigionamento. Nella vicina Algeria - paese simbolo del modello cinese di penetrazione nel mercato africano - gli investimenti del colosso orientale sembrano diminuire con l’aumentare dei disordini politici e sociali. Il paese, nel quale il Dragone si è impegnato in settori come quello energetico e edilizio, vede ora un allontanamento di Pechino, dimostrato dal fatto che la promessa per i vaccini è arrivata più tardi rispetto ai suoi vicini Marocco ed Egitto. L'idea che il vaccino cinese diventerà un bene pubblico globale è molto importante per la Cina in questo momento, poiché rappresenta una nuova modalità di propaganda nell’era della pandemia. Tuttavia, le autorità sanitarie hanno affermato che l’industria farmaceutica del Paese sarebbe in grado di produrre circa un miliardo di dosi entro la fine dell’anno ma circa la metà sono state impegnate all'estero. Supponendo che siano necessarie due dosi per ogni vaccinazione e che le capacità di produzione di vaccini non aumentino, quella quantità non sarebbe sufficiente per raggiungere il 70% degli 1,4 miliardi di cinesi che Pechino ha bisogno di vaccinare per raggiungere l'immunità di gregge l'anno prossimo. Questo significa che se il Dragone vuole ottenere l'immunità di gregge prima dei paesi occidentali, sarà costretto a rinnegare le sue promesse ai suoi alleati. La "diplomazia del vaccino" cinese non è così semplice come sembra. ![]()
a cura di Massimo Spinelli Non c’è da sorprendersi se ormai da qualche mese a questa parte, le uniche notizie che raggiungono le prime pagine dei quotidiani inglesi, come accade per quelli di tutto il mondo, riguardino la pandemia e le tragiche conseguenze che il Covid-19 sta provocando oltre la Manica. Questa gerarchia delle notizie, sempre più consolidata, ha conferito ulteriore risalto ad uno studio pubblicato recentemente su tutti i maggiori giornali e tabloid inglesi. Si tratta di un report elaborato dall’Economic Statistics Centre of Excellence (ESCOE), centro di ricerca che si occupa di analizzare i trend demografici che hanno un impatto sulla popolazione britannica. Basandosi sulle cifre stimate dall’Office for National Statistics (ONS), l’analisi dell’ESCOE ha evidenziato una situazione straordinaria per quanto riguarda il numero di cittadini stranieri che hanno deciso di abbandonare il Regno Unito. Sono stati 1.3 milioni coloro che hanno lasciato il paese nell’ultimo anno; la cifra più alta dal secondo dopoguerra ad oggi. Da gennaio 2020, oltre 500,000 stranieri residenti in Gran Bretagna hanno optato per trasferirsi altrove oppure ritornare nel paese natale. Nella sola Londra, le ultime previsioni della società di consulenza Pricewaterhouse Coopers parlano di un crollo senza precedenti del numero dei suoi cittadini, con una diminuzione stimata intorno alle 400,000 unità entro la fine del 2021. Un caso unico nella storia recente della capitale, la quale si trova, ormai da molti anni, in vetta alle classifiche delle città più attrattive a livello globale. Senza contare che, nel caso in cui le previsioni dovessero concretizzarsi, si tratterebbe di una netta inversione di tendenza rispetto agli ultimi 30 anni. Dal 1988 infatti, la metropoli ha sempre fatto registrare un aumento annuale dei suoi abitanti. I fattori che spiegano questo fenomeno sono molteplici, dalla pandemia alle conseguenze della Brexit, dalla pratica consolidata del telelavoro alla drastica diminuzione di opportunità lavorative. In particolare, i numeri soffrono di una drastica diminuzione di immigrazione giovanile, con i neo-laureati in prima fila, e con Londra che evidenzia un calo più marcato del numero di annunci di lavoro rispetto al resto delle maggiori capitali europee. A conferma degli indicatori negativi elencati sopra, la stessa PwC evidenzia come il tasso di natalità potrebbe assestarsi sui valori più bassi dal 1900, ovvero da quando si registra questa statistica. Per farsi un’idea di quanto pesino gli immigrati su queste cifre, basti pensare che, come riporta l’ONS britannico, per la maggior parte del ventesimo secolo, la crescita della popolazione era dovuta a quello che gli inglesi chiamano “ricambio naturale”, ossia un numero di nascite annualmente superiore rispetto a quello delle morti nel paese. L’immigrazione era considerata come il secondo fattore più incisivo. A partire dal 1999 invece, i due elementi si sono scambiati di posizione e l’immigrazione è diventata la componente determinante dell’aumento della popolazione. L’effetto Brexit sui dati dei flussi migratori non si è di certo fatto attendere. Infatti, dal 2016 in poi si può notare un lento ma costante declino del numero di immigrati, insieme a una crescita stabile delle emigrazioni. Arrivati alla fine del periodo di transizione previsto dall’accordo di divorzio con l’Unione Europea, si stima che il 2021 potrebbe essere l’anno della svolta, con un inedito valore negativo nella casella del tasso di migrazione netta, ovvero la differenza tra il numero di persone che entrano, e quelle che escono dal paese nell’arco di un anno. Mentre il governo Johnson ostenta sicurezza davanti ai dati pubblicati, il premier britannico deve fare i conti con una variante del Covid-19 estremamente contagiosa e un conto delle vittime causate dalla pandemia che ormai ha superato quota 100,000, con un numero di morti per milione di abitanti tragicamente elevato, secondo solo a Belgio e Repubblica Ceca in Europa. D’altro canto, la campagna vaccinale nel regno di Sua Maestà procede spedita e Downing Street promette di mantenere questo ritmo, se non addirittura accelerare, fino al completamento. Una campagna vaccinale che, proprio come l’intero sistema sanitario nazionale, si affida in maniera sostanziale proprio agli immigrati spesso osteggiati dai Tory di Boris Johnson. Gli stessi immigrati che costituiscono una componente indispensabile al fine di evitare il collasso dell’NHS, un servizio passato dall’essere un’eccellenza nazionale, ad oggetto di tagli indiscriminati da parte di quasi tutti i governi che si sono succeduti negli ultimi 30 anni. Sembra passato un secolo dalla campagna pre-referendum in cui UKIP prometteva di riprendersi i soldi ingiustamente inviati annualmente ai burocrati di Bruxelles, per reinvestirli a favore del servizio sanitario. Cinque anni dopo quel referendum, ciò che rimane è un sistema in profonda difficoltà, nel quale il 13.8% del personale sanitario sottopagato è di origine straniera, per la maggior parte rappresentata da figli e nipoti di immigrati indiani e filippini, anche loro tra quegli invasori che, secondo Nigel Farage, avrebbero mirato a rimpiazzare il popolo inglese. Oggi, dopo aver cambiato ufficialmente il nome del suo partito in Reform UK, Farage appare solo sporadicamente in televisione, e i celebri autobus a due piani usati per pubblicizzare gli slogan anti-Ue sono stati fatti sparire. L’emergenza sanitaria, al contrario, rimane più presente che mai. ![]()
a cura di Erika Frontini La democrazia è citata all’art. 2 del Trattato sull’Unione Europea tra i valori fondanti dell’Unione. Non a caso, l’orrore verso i regimi totalitari che scossero profondamente il continente nel Novecento e la volontà di non ripetere in futuro i drammatici errori del passato furono alcuni degli impulsi che diedero vita al progetto di integrazione europea. Pertanto, la presenza di stabili istituzioni democratiche è ora un prerequisito formale per l’adesione. Parallelamente, l’Ue si impegna a promuovere principi e valori democratici al di fuori dei propri confini. Tuttavia, gli ultimi anni non sono stati un periodo d’oro per la democrazia, che appare in difficoltà su diversi fronti. Episodi di regressione democratica sono all’ordine del giorno, mentre anche nelle democrazie più consolidate la qualità delle istituzioni democratiche è in declino. L’Ue e i suoi Stati Membri non sono immuni da queste tendenze, le quali sono spesso accentuate dalla transizione digitale, che, se da un lato rappresenta una grande opportunità, fornendo canali di informazione ed espressione inediti, dall’altro è fonte di nuove minacce alla stabilità democratica. È in questo contesto che, lo scorso dicembre, la Commissione europea ha presentato il suo Piano d’azione per la democrazia europea. Con tale documento, la Commissione prende atto delle sfide che la democrazia si trova ad affrontare nell’era digitale ed espone le misure che intende adottare per contrastare tali problematiche e dare un nuovo impulso alla democrazia in Europa, sia a livello nazionale che comunitario. Diversi provvedimenti sono attesi nell’anno corrente, ma l’obiettivo generale è quello di completare l’attuazione del Piano nel 2023, in tempo per le prossime elezioni del Parlamento europeo. In particolare, la Commissione si impegna ad intervenire su tre direttive: tutelare l’integrità delle elezioni e promuovere una costante partecipazione popolare, rafforzare libertà e pluralismo dei media, combattere la disinformazione. Nel primo ambito, la priorità è incrementare la trasparenza dei contenuti politici sponsorizzati online, accennando anche alla possibilità di limitare il microtargeting e la profilazione psicologica nel contesto politico. La Commissione annuncia inoltre una revisione della legislazione sul finanziamento dei partiti europei e propone maggiore cooperazione tra gli Stati Membri in materia di elezioni, ricordando come le questioni elettorali siano principalmente regolate a livello nazionale. Significativi sono i richiami alla necessità di rafforzare la partecipazione dei cittadini e della società civile nei processi politici. Tale partecipazione è infatti elemento indispensabile per ridurre la distanza tra istituzioni e popolo, contrastando il diffuso senso di sfiducia che è spesso causa dell’insorgere di estremismi. Particolare enfasi è posta sul coinvolgimento di giovani e categorie svantaggiate. Diversi programmi previsti dal nuovo bilancio pluriennale possono essere usati per finanziare progetti che incentivino democrazia partecipativa e deliberativa. Per quanto riguarda i mezzi di informazione, si rileva l’urgenza di creare un ambiente sicuro per i giornalisti, i quali sono sempre più spesso bersaglio di violenze verbali e fisiche, che potrebbero avere un effetto deterrente sulla loro attività. Il ricorso ad azioni legali strategiche da parte di organi dello Stato, società commerciali o persone potenti è un ulteriore metodo sempre più utilizzato per silenziare giornalisti e altri soggetti coinvolti nella difesa dell’interesse pubblico, imponendo loro spese legali insostenibili. La Commissione si impegna, in collaborazione con gli Stati Membri e altre organizzazioni internazionali attive nel settore, a potenziare il sostegno nei confronti di tali categorie. In aggiunta, la Commissione cofinanzierà l’osservatorio sulla proprietà dei media, allo scopo di assicurare pluralismo e indipendenza dei mezzi di informazione in tutti i Paesi Membri. La parte finale del Piano si concentra sulla lotta alla disinformazione – intesa come diffusione volontaria di contenuti falsi e fuorvianti – nel pieno rispetto delle libertà individuali. La Commissione infatti, come dichiarato da Věra Jourová, Commissaria per i valori e la trasparenza, non intende trasformarsi in un “ministero della verità”. Tuttavia, è indispensabile garantire la sicurezza dell’Unione rispetto a possibili operazioni di ingerenza esterna, sviluppando ulteriormente gli strumenti esistenti e introducendo la possibilità di sanzionare i responsabili in caso di attacchi persistenti. Le grandi piattaforme online sono chiamate ad assumere maggiori responsabilità, come stabilito nella proposta di legge sui servizi digitali presentata dalla Commissione a pochi giorni di distanza dal Piano. Infine, la lotta alle fake news non può prescindere dal rafforzamento dell’alfabetizzazione mediatica, coinvolgendo in primis giovani e scuole. Anche in questo caso, linee di finanziamento Ue, come Europa Creativa, Erasmus + e il programma Diritti e Valori possono svolgere un ruolo determinante. In ultima analisi, si tratta di un programma ambizioso, anche se di non facile attuazione. In particolare, trovare il giusto equilibrio tra controllo della qualità dei contenuti online e tutela delle libertà di opinione ed espressione è una questione assai delicata e che può dar luogo a controversie. Ad ogni modo, il Piano è la dimostrazione che l’Ue è consapevole della necessità di moltiplicare i propri sforzi in difesa della democrazia in Europa: anche se non mancano visioni discordi sulle finalità del processo di integrazione, è evidente che non può esserci Ue senza democrazia e rispetto per i valori fondamentali. A tal proposito, il Piano si affianca a una serie di provvedimenti presi recentemente dalle istituzioni per salvaguardare i principi democratici dell’Unione. Lo scorso settembre, la Commissione ha infatti pubblicato la prima edizione della Relazione sullo stato di diritto. Il mancato rispetto di tale valore potrebbe portare alla sospensione dell’erogazione di fondi dal bilancio pluriennale secondo il nuovo meccanismo di condizionalità. Completano il quadro la rinnovata strategia per rafforzare l’applicazione della Carta dei diritti fondamentali e il pacchetto di misure a tutela dell’uguaglianza. Sembra che la classe politica europea abbia finalmente preso coscienza del fatto che un’Unione veramente democratica non può che fondarsi sulla partecipazione attiva e informata dei cittadini, una svolta rispetto al “consenso permissivo” che aveva caratterizzato le prime fasi del processo di integrazione. In tale contesto, sarà interessante seguire gli sviluppi legati alla Conferenza sul futuro dell’Europa, iniziativa voluta dalla Commissione per rilanciare il dibattito sull’integrazione europea in maniera fortemente inclusiva. ![]()
a cura di Elena Giudice Gli sforzi del partito comunista di “rieducare” la popolazione nell’area dello Xinjiang negli ultimi anni sono stato oggetto di ampia copertura mediatica. Dal 2017 ad oggi abbiamo assistito ad una rapida intensificazione delle attività governative nell’area, più recentemente tornate sotto scrutinio internazionale dopo l’accusa da parte della ex amministrazione americana Trump, che li ha definiti come celati tentativi di genocidio culturale e che vedono come target la minoranza uigura (posizione poi sostenuta anche dal nuovo Segretario di Stato Blinken). Tuttavia questa volontà di uniformazione ed assimilazione etnica, oltre ad essere dettata da ragioni pragmatiche di controllo sociale, affonda le sue radici nei trascorsi storici e politici della Repubblica Popolare ed ha anche strettamente a che fare con la stessa percezione delle minoranze etniche nel paese. Per cui i fenomeni dello Xinjiang rappresentano un esempio certamente estremo ma non esclusivo. Guardando agli eventi storici, si può osservare come le zone dell’ovest e del nord ovest del paese – Alta Asia e Asia Centrale – siano divenute parte della Cina, per come la intendiamo oggi, solo nel più tardo periodo dinastico. Per questa ragione sono sempre state percepite, più o meno consapevolmente, come periferiche rispetto al territorio storicamente culla della civiltà cinese. Solo dal periodo Qing difatti, le gazzette imperiali iniziano a riportare notizie sulla presenza di popolazioni “barbare” nelle regioni di frontiera e a pubblicare documenti ufficiali in 5 lingue. Successivamente in periodo repubblicano viene coniato il termine “五族共和”, che indica la coesistenza armoniosa di cinque etnie sotto la stessa bandiera (han, mancese, mongola, tibetana, hui). La categorizzazione della popolazione in 56 etnie che ne segue dunque non è infondata o generata in toto dal Partito Comunista Cinese, ma è parzialmente frutto di processi di identificazione preesistenti. La classificazione ufficiale viene coronata formalmente da un primo censimento etnico nel 1954, che evidenzia una maggioranza del gruppo han e una pluralità, anche se minoritaria, di altre 55 etnie. In questo processo di rigida categorizzazione, due elementi emergono come fondamentali sul piano politico: da un lato la volontà di riunire sotto un unico gruppo etnico – numericamente dominante – la maggior parte della popolazione cinese, volutamente ignorando le diverse specificità regionali e territoriali, anzi, probabilmente con l’obbiettivo di evitare la frammentazione in un delicato momento di ricostruzione dell’identità nazionale. Si può dunque affermare che la scelta del gruppo han è in realtà arbitraria e non rappresentativa nella sua totalità delle specificità locali; dall’altro, un secondo elemento che emerge è una selezione volutamente limitata anche delle restanti 55 etnie: durante il primo censo ne emersero oltre 200 di cui solo 55 vennero registrate ufficialmente. Queste sarebbero state poi interessate da politiche specifiche di ispirazione sovietica, come l’istituzione di regioni speciali autonome per le minoranze e la garanzia di avere una propria rappresentanza ufficiale e politica nel governo, oltre a ricevere cospicui incentivi atti alla sponsorizzazione di forme di espressione culturali tradizionali dei suddetti gruppi (danze, abbigliamento, arti). La sopracitata classificazione dunque, oggi percepita come naturale da larga parte del paese, è in realtà frutto di una costruzione e differenziazione intenzionale. Tuttavia ciò non dovrebbe portare a pensare che lo scopo della classificazione fosse di divisione; al contrario, essa si pone come obbiettivo la coesione tra gruppi con specificità locali condivise per inquadrarle in un discorso politico di coesistenza armoniosa. Tale coesistenza è realizzabile però solo a patto di mantenere un equilibrio che vede le etnie non han come docili, ospitali e minoritarie (non a caso frequentemente rappresentate in contesti ufficiali da figure femminili in abiti tradizionali) e l’etnia han come maggioritaria e dunque anche di maggior peso – lasciando trapelare una percezione poco bilanciata dei ruoli di genere –. Questa visione etnocentrica, nonostante la retorica ufficiale parli di Cina come un paese dallo spiccato multiculturalismo, attribuisce alla popolazione di etnia han anche una funzione in qualche modo educativa e di civilizzazione rispetto alle minoranze (non dissimile dalla nostra stessa cultura colonialista europea). Peraltro l’etnocentrismo han è riscontrabile tutt’ora nella società cinese moderna con diverse modalità d’espressione e si muove di pari passo con il processo di urbanizzazione e modernizzazione del paese, altro elemento che porta all’accrescersi ed uniformarsi dei tratti comuni e condivisi dalla popolazione. La “coesistenza armoniosa”, chiaramente ha generato e genera tutt’ora criticità e conflitti nel rapporto tra minoranze e gruppo han e le origini di queste tensioni sono da imputare a questioni diverse. Le più discusse sono sicuramente di matrice religiosa, soprattutto nei territori del Tibet e dello Xinjiang, ma non mancano anche ragioni legate alla disuguale distribuzione della ricchezza (in queste aree come altrove), alle scarse possibilità di mobilità sociale per le persone appartenenti ad etnie non han, come anche ai grossi incentivi governativi nelle regioni autonome. Questi incentivi generano poi un ulteriore problematica, cioè determinano una totale dipendenza dello sviluppo economico di queste aree dallo stato centrale e dunque una scarsa capacità di controllo delle proprie risorse e di sviluppo indipendente locale. Politiche mirate ad attrarre migrazioni han nei territori periferici si aggiungono poi a questo quadro, con lo scopo di favorire un processo di assimilazione culturale (anche se esse stesse nel tempo sono diventate ulteriore causa di ineguaglianze in termini di condizioni e retribuzione tra han e non han). A ciò si associa anche un intenso incremento del turismo domestico, che lede gravemente alla cultura autoctona, di cui vengono sfruttate solo le caratteristiche esteriori o che possano risultare più esotiche e “vendibili”, spogliandola delle proprie connotazioni più reali e profonde. Tutti questi elementi nel tempo hanno esacerbato il malessere delle comunità non han e generato anche forme di protesta locali, come nel caso di diverse rivolte nello Xinjiang ad opera della popolazione uigura nei primi anni duemila, o come per le tensioni nelle zone del Tibet. Dunque alla luce di quanto detto, il tentativo di Pechino di attribuire i disordini locali a ragioni esclusivamente di matrice religiosa risulta riduttivo. In futuro la Cina potrebbe prendere in considerazione la possibilità di cambiare modalità di relazione con le proprie etnie, allontanandosi da un approccio esclusivamente “politico” a favore di uno più comprensivo delle proprie peculiarità culturali. Slegare l’etnia da elementi di retorica politica potrebbe difatti apportare un doppio beneficio: sia nel rafforzare l'identità nazionale tra le minoranze etniche e sia nel garantire la tutela e la prosperità delle loro tradizioni culturali. Un modo tangibile per farlo potrebbe essere abbandonare l’attuale modello impiegato – che prevede autonomie regionali e genera ulteriori lacerazioni – ed implementare invece un nuovo modello, basato sul riconoscimento del valore della diversità e di tutti i propri cittadini. ![]()
Stati Uniti e Russia concordano l’estensione del Trattato New START sul controllo degli armamenti30/1/2021
a cura di Carlo Comensoli A meno di una settimana dall’insediamento della nuova Amministrazione a Washington, si è svolto il primo colloquio telefonico tra Joe Biden e Vladimir Putin, i quali hanno concordato l’estensione al 2026 del “New Strategic Arms Reduction Treaty” (New START, in russo SNV-III) tra Stati Uniti e Russia in prossimità del termine per il rinnovo delle condizioni dell’accordo, previsto per 5 febbraio 2021. Al giorno d’oggi si tratta dell’unico accordo sul controllo degli armamenti in vigore tra i due paesi. L’estensione del trattato in questione è quindi un passaggio importante nella ridefinizione dei rapporti tra le due superpotenze per i prossimi anni, soprattutto alla luce dei recenti sviluppi in politica interna ed estera di entrambi i paesi. Ne è prova un’intervista rilasciata lo scorso 11 gennaio all’agenzia di stampa russa RIA Novosti da Mikhail Gorbačëv, che ha parlato della necessità di rinnovare per i prossimi cinque anni i termini del New START. Il trattato in questione stabilisce per gli arsenali delle due superpotenze il limite di 1550 testate nucleari e 700 tra missili ICBM e bombardieri pesanti per entrambe le parti, con un rigido sistema di monitoraggio. L’ex Segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, fautore della Perestrojka, ha parlato dell’estensione del trattato come di un “primo passo” per la distensione dei rapporti tra le due superpotenze. In effetti, uno dei punti del programma per la politica estera del ticket presidenziale Biden-Harris è proprio il rinnovo del New START, che è anche considerato dai Democratici come la base per la stipula di nuovi accordi per il controllo degli armamenti, promuovendo un maggiore coinvolgimento degli Stati Uniti a livello internazionale rispetto all’unilateralismo che ha caratterizzato la presidenza di Donald Trump. Per Joe Biden, inoltre, l’estensione del trattato a meno di un mese dall’insediamento alla Casa Bianca è anche un segno di continuità con l’Amministrazione Obama, di cui faceva parte in qualità di Vicepresidente. L’accordo, infatti, fu firmato nel 2010 dall’ex Presidente Dem e dall’allora Presidente russo Dmitrij Medvedev (all’epoca Putin, nell’impossibilità di ricandidarsi per un terzo mandato di seguito, ricopriva l’incarico di Primo Ministro in attesa della rielezione nel 2012). Inoltre, come riconosciuto dallo stesso Gorbačëv che lo ha incontrato in più occasioni, durante la lunga carriera di Senatore Biden ha avuto modo di occuparsi anche della cooperazione per il disarmo nucleare. Tuttavia già in questi mesi, durante la transizione presidenziale, i rapporti tra Stati Uniti e Russia hanno incontrato nuovi ostacoli. Putin infatti si è congratulato con Biden soltanto dopo la nomina ufficiale da parte del Collegio dei grandi elettori a dicembre, un mese dopo le elezioni. Inoltre, proprio durante il passaggio dei poteri tra le due Amministrazioni si è presentato il problema dell’intrusione di hacker russi nei sistemi informatici di dipartimenti chiave del governo statunitense. A fine novembre Biden ha nominato Consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan, che ha parlato della questione del controllo degli armamenti come di uno dei pochi punti su cui la Casa Bianca e il Cremlino potranno collaborare nei prossimi anni, anche se ufficialmente, prima dell’insediamento, non c’è stato nessun dialogo in merito tra il Comitato di transizione presidenziale e rappresentanti del governo russo. Sicuramente i problemi di cybersecurity e l’estensione degli attacchi informatici russi complicheranno ulteriormente il dialogo tra i due paesi durante la Presidenza di Biden, anche alla luce dell’incarcerazione, il 17 gennaio scorso, dell’oppositore politico Aleksej Naval’nyj al rientro a Mosca e della violenta repressione delle proteste che ne sono seguite, con l’arresto di più di tremila manifestanti. Nell’intervista a RIA Novosti, Gorbačëv sottolinea come il trattato bilaterale tra Stati Uniti e Russia si pone in linea con i risultati raggiunti con la fine della Guerra Fredda: il primo accordo START del 1991 fu firmato proprio dall’ex leader politico dell’URSS e dall’allora Presidente degli Stati Uniti George H. W. Bush. Secondo l’ex Segretario generale del PCUS, l’estensione del terzo accordo sul controllo degli armamenti proprio all’inizio del mandato di Biden potrebbe quindi diventare il primo passo verso un miglioramento dei rapporti tra le due potenze. A rimarcare quanto il rinnovo dell’accordo possa anche assumere una valenza simbolica in una fase delicata nelle relazioni tra i due paesi come quella attuale è il ricordo dell’anniversario dei 35 anni dal primo incontro con Ronald Reagan al Vertice di Ginevra del 1985, avvenimento che Gorbačëv definisce “ancora attuale”: in effetti all’epoca il primo accordo START rispecchiava il principio della “interdipendenza” tra i due blocchi, uno dei punti principali della Perestrojka. Rispetto a trent’anni fa, tuttavia, lo scenario geopolitico attuale appare totalmente diverso dal bipolarismo a cui fa riferimento Gorbačëv: il leader politico ha quindi auspicato che l’estensione dell’accordo possa portare a ulteriori limitazioni sul possesso di armamenti. Lo scorso novembre, le discussioni tra le due parti si erano arenate proprio quando i rappresentanti dell’Amministrazione Trump avevano proposto il coinvolgimento della Cina negli accordi per un ulteriore trattato, qualora l’estensione del New START di un anno con conseguente congelamento degli arsenali nucleari allora proposta dagli Stati Uniti fosse stata raggiunta. L’assenza della Cina era infatti ritenuta dalla parte statunitense come il fattore che più rendeva anacronistico il trattato; Pechino, dal canto suo, non sarebbe favorevole a un tale accordo per via dell’asimmetria tra le testate cinesi e quelle di Stati Uniti e Russia. La scadenza del New START è prevista per il 5 febbraio, a sole due settimane dall’insediamento di Biden. Sia il neo Presidente degli Stati Uniti che Vladimir Putin hanno comunque espresso la volontà di attivare la clausola per l’estensione del contratto al 2026; dal momento che la ratifica è già avvenuta nel 2010, in questo caso non è necessaria l’approvazione del Senato degli Stati Uniti, e questo permette di accorciare i tempi. Putin ha invece bisogno del voto favorevole della Duma di Stato, su cui comunque esercita il suo controllo politico e che già dieci anni fa ha ratificato il trattato. ![]()
Prematuro peccato o trionfo: le due facce dell’accordo bilaterale per gli investimenti UE-Cina26/1/2021
a cura di Luca Tonelli Il Comprehensive Agreement on Investment (CAI) è realtà, fotofinish diplomatico di un 2020 che non ha risparmiato colpi di scena. Inatteso sprint finale agli occhi di Bruxelles, è invece da considerarsi una falsa partenza stando al Biden-pensiero, un accrocchio politico che pone seri dubbi sull’affidabilità del Vecchio Continente nel duello con la Cina. Il 30 dicembre 2020, dopo sette anni di attesa e 35 rounds di negoziazioni, l’Unione Europea e la Repubblica Popolare Cinese hanno formalizzato un comune accordo sugli investimenti, soppiantando venticinque preesistenti trattati bilaterali fra Pechino e vari stati membri. Sin dall’inizio delle trattative con la Commissione Barroso nel lontano 2013, l’UE ha mirato alla creazione di un level playing field fra le parti, di un contesto legale tale da favorire l’ingresso e l’operato delle imprese europee in terra cinese, difenderne un trattamento equo al riparo da politiche predatorie delle state-owned enterprises (SOEs) e dei sussidi di stato cinesi. Portarne le opportunità di sviluppo a galla con quelle garantite alle imprese cinesi operanti nel Vecchio Continente, sotto l’ombrello del diritto Europeo. Più di recente, la Cina ha invece lamentato l’incremento di barriere all’ingresso dell’Unione, come l’istituzione del meccanismo europeo per lo screening di investimenti esteri (dinamiche poi replicatesi anche a livello nazionale). Un hic sunt leones commerciale europeo rivolto verso il mondo esterno in generale, sì, ma con dito chiaramente puntato verso l'estremo oriente. A seconda della sponda atlantica cui si porge l’orecchio, il vento soffia una diversa interpretazione dei fatti. In terra americana l’accordo è percepito come un pesante errore di valutazione da parte degli alleati europei. A una manciata di settimane dall’insediamento della nuova amministrazione Biden, prossima a riprendere le redini del multilateralismo globale dopo quattro anni di latitanza, l’UE ha ingenuamente offerto il fianco molle al “nemico comune”. Lo stesso vale per il presunto egoismo delle capitali europee, Berlino e Parigi in testa: disposte ad accettare di buon grado opache negoziazioni dietro porte chiuse con un teorico “strategic competitor”, per poi correre al riparo sotto l’ombrello americano non appena imposto dalla contingenza; a soprassedere in larga parte sulla questione dello sfruttamento del lavoro forzato da parte della Cina, messa al bando non imprescindibile per la ratifica dell’accordo a livello nazionale stando alle dichiarazioni del Ministro Francese Riester; di difettare di meccanismi capaci di far rispettare gli impegni presi dal governo ginese, sottostimandone l’attivismo statale come il National Intelligence Act del 2017 e il Company Law del 2018 ricordano. A ciò si aggiunga la generale riluttanza verso l’intraprendenza della Germania targata Merkel, potenziale sintomo di un egemone regionale che riluttante forse non si sente più. E che, agli occhi di Washington, deve tenersi a debita distanza da Pechino. I detrattori del CAI puntano perciò il dito contro la strategia della “Wolf Warrior Diplomacy” cinese, dell’apparente incapacità di Bruxelles di vedere oltre il proprio naso e comprendere lo schema geopolitico seguito dal Regno di Mezzo. Se da una parte Volkswagen e Daimler ballano al ritmo della moneta sonante del mercato cinese, e così i loro azionisti, gli investimenti cinesi in infrastrutture e hi-tech mirano ad altro (medesimo canovaccio del Partenariato Economico Globale Regionale formalizzato a Novembre 2020). L’altra faccia della medaglia offre invece un panorama differente, ma non per questo meno realista. Agli occhi di molti in Europa, infatti, il CAI rappresenta un importante passo in avanti per l’economia continentale. Dati Eurostat alla mano, i primi dieci mesi del 2020 hanno visto, nonostante la piaga pandemica, un incremento superiore al 2% su base annua dell’interscambio commerciale fra l’UE e la Cina, attestatosi oltre i 477 miliardi di Euro. L’accordo affronta molte delle tematiche care a Bruxelles, quali maggiore trasparenza, prevedibilità, certezza normativa e, potenzialmente, l’alleggerimento del deficit commerciale con la Cina (a quota 135,9 miliardi secondi le ultime cifre). Inoltre, segue il Bruxelles-pensiero, una più ampia convergenza con Pechino può aiutare a distendere le tensioni geopolitiche con l’Occidente. Riguardo la presunta naïvité dei negoziatori europei, i sostenitori dell’accordo sottolineano come questo non limiti l’autorità di vigilanza attraverso lo screening degli investimenti e la protezione di infrastrutture critiche. Il fil rouge suona convincente: pensare che la Cina cambi la gestione delle proprie magagne domestiche (Hong Kong e Xinjiang in testa) per effetto di una mancata firma da parte dell’Unione è semplicemente irrealistico. Anzi, il CAI fornisce per la prima volta una minima leva in materia di tutela dei diritti dei lavoratori, dato che impegna Pechino a prodigarsi per la ratificazione di convenzioni chiave dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, fra cui quella sul lavoro forzato. Convenzione che non presenta nemmeno la firma di Washington. Ripromettersi una rinnovata amicizia transatlantica, dunque, non deve andare a scapito di nuovi legami commerciali con il Dragone. Ci vorranno mesi prima che la nuova amministrazione americana strutturi una nuova strategia economica vis à vis con Pechino, cherry picking su cosa salvare e cosa no dell’era Trump. Perché Bruxelles dovrebbe indugiare quando Washington non si è curato di consultarsi con gli alleati occidentali prima di innescare una guerra commerciale globale o chiudere la Fase 1 del nuovo trattato commerciale sino-americano? A Biden ora il compito di tenere a freno l’attivismo tedesco rispetto alla Cina, mercato che rimane una priorità per la grande manifattura e per il settore dell’automotive teutonico. Le tempistiche del processo europeo di ratifica di accordi internazionali, che difficilmente permetterà al CAI di tagliare il traguardo prima del 2022, danno spazio di manovra all’incombente amministrazione statunitense. La dicotomia tra legami economici e sicurezza nazionale, d’altro canto, rischia di avvelenare il dibattito europeo fra coloro che asetticamente vedono nella Cina il modo più veloce per sfuggire alla pandemia economica da Covid-19, e quelli che diffidano a priori del Partito Comunista e delle promesse fatte in sede di accordo. Il grande sorpasso del Dragone sull’aquila a stelle e strisce pare aver guadagnato in velocità. E parte della benzina che ne alimenta il motore è a marchio europeo. Non resta che attendere che il Presidente Biden metta nero su bianco quale delle due facce della medaglia l’UE debba fissare. Adattandone il peccato originale, o il trionfo, al futuro assetto sino-americano. ![]()
a cura di Davide Paolicchi Il mese di Gennaio, secondo il “calendario istituzionale” degli Stati Uniti d’America, si caratterizza fondamentalmente per due momenti tra loro collegati: il voto del nuovo Congresso che sancisce (e proclama) il ticket Presidente-Vice Presidente eletti e quindi vincitori nelle urne; la cerimonia formale di giuramento e insediamento del 20 gennaio (Inauguration Day), tradizione fissata dalla modifica del 20° emendamento e applicata a partire dalla Presidenza Roosevelt/Truman (1945). Un altro elemento molto importante, e ricorrente negli anni di mandato, è lo speech (Discorso sullo stato dell’Unione) che il Presidente in carica rivolge di fronte al Congresso, riunito in seduta comune (e sostanzialmente di fronte alla Nazione), per sottolineare la propria “agenda politica” e gli obbiettivi che l’amministrazione intende prefiggersi. Tale momento viene richiesto specificatamente dall'articolo 3 – prima sezione della Costituzione degli Stati Uniti d’America. In contrasto con la tradizione e gli automatismi tipici, il “gennaio americano” 2021 si è rivelato, per molteplici aspetti politico-giuridici e socio-culturali, di rottura o di svolta. Ma occorre ripercorrere e soffermarsi con particolare cura sugli eventi più caratterizzanti di questo mese. Lunedì 4, il Washington Post ha pubblicato un file audio contenente la telefonata intercorsa due giorni prima tra il Presidente Donald Trump e Brad Raffensperger, il Segretario di Stato della Georgia, assieme ad un suo stretto collaboratore. In essa si delinea molto chiaramente ed inequivocabilmente la volontà presidenziale di effettuare una moral suasion sul funzionario repubblicano per mutare (o comunque non certificare) il risultato elettorale della Georgia in novembre. Inoltre, si “invita” ad intervenire sull’immediatamente successivo ballottaggio in cui due seggi al Senato sono stati contesi da candidati Repubblicani e Democratici. Mercoledì 6 gennaio, si è regolarmente svolto l’ultimo appuntamento elettorale nazionale per delineare gli ultimi due seggi al Senato per la Georgia. L’appuntamento politico ha visto vincitori, in entrambi i seggi, i candidati Dem: Raphael Warnock e Jon Ossof hanno rispettivamente sconfitto i rivali repubblicani Kelly Loeffler e David Perdue, con uno scarto di voti molto limitato. Infatti, si è riproposta una riedizione della precedente votazione, in cui il Partito Democratico ha ottenuto un maggiore consenso in quelle contee maggiormente urbanizzate e popolate; parallelamente, i repubblicani hanno ottenuto un maggior sostegno dalle contee più rurali. Contemporaneamente al ballottaggio della Georgia, a Washington D.C. si era ritrovato il “nuovo” Congresso in seduta comune per certificare costituzionalmente, attraverso la votazione dei cosiddetti “grandi elettori presidenziali”. Mentre questo momento formale aveva luogo in Campidoglio, a poche centinaia di metri (dietro il giardino sud della Casa Bianca) si stava svolgendo un rally o comizio del Presidente uscente, associato ad una marcia di protesta di alcune migliaia di sostenitori per le vie della capitale. I successivi eventi, noti a tutti e ampiamente documentati attraverso le immagini catturate da media e social, hanno successivamente fatto il giro del mondo e rappresenteranno un importante elemento di studio per politologi, sociologi e studiosi di comunicazione. I fatti svoltisi durante il tardo pomeriggio/prima serata, ora di Washington, sono stati quasi unanimemente “marchiati” come l’Assalto al Congresso. Eventi che sicuramente non hanno avuto precedenti nella storia americana ma che, con il passare dei giorni, potevano essere ampiamente previsti da parte dei servizi di sicurezza ed FBI. Infatti, sarebbe bastato un controllo meno “distratto” dei social media utilizzati dalla galassia di movimenti appartenenti alla Far-Right statunitense. Occorre anche ricordare come la sicurezza della capitale, in caso di disordini o attentati terroristici, spetti direttamente al potere federale, quindi su ordine diretto del Potere Esecutivo in carica (la Casa Bianca). Eventuali approfondite indagini potrebbero sicuramente far emergere eventuali “mancanze” nella gestione dell’ordine pubblico e nella sorveglianza dell’importante seduta in svolgimento presso il Campidoglio. Un particolare interesse “accademico” dovrebbe essere dedicato allo studio della comunicazione utilizzata dal Presidente Trump successivamente al risultato delle elezioni di novembre, significativamente nei mesi successivi e sicuramente nel pomeriggio del 6 gennaio. Parallelamente, uno studio più approfondito sulla “folla” (mob) dovrebbe essere intrapreso per comprendere la natura sociale, politica e culturale che ha innescato questa modalità di “sfida” al potere democratico. L’assalto al Congresso potrebbe anche essere inteso come la risposta di una porzione della società americana, che tenta di ottenere maggiore risonanza rispetto alle altre attraverso un evento eclatante e impattante. La stessa affermazione dei “principi” della Far-Right sembra essere una sorta di “risposta politica” o contrapposizione al Black Lives Matter dei mesi precedenti; in sostanza, due grosse fette della società statunitense che non si sentono adeguatamente rappresentate (o ascoltate) dall’establishment del Partito Repubblicano, quanto da quello Democratico. Se infatti i movimenti estremisti di destra potrebbero aver trovato un loro leader politico e guida elettorale in Donald Trump, l’ondata di proteste scaturite dalla morte di George Floyd non hanno ancora trovato una via per poter affermare queste rivendicazioni sociali, almeno per ora. Nei giorni successivi al 6 gennaio, su un piano di analisi politologica, giuridica e di comunicazione, uno dei trend e dei contenuti che hanno maggiormente sollecitato l’attenzione del grande pubblico è stata la sospensione (seguito poi dal blocco) dell’account Facebook/Twitter presidenziale e di molti altri social. In seguito, tale azione è stata motivata dal rischio di utilizzo, da parte di Trump, dello strumento social per inviare messaggi ai propri supporter e fomentare nuove violenze nel paese, con i maggiori network di informazione ce si sono concentrati principalmente sulla pratica di “censura”, posta unilateralmente dall’azienda che gestisce la piattaforma. Mentre all’interno dell’Unione Europea la strada della regolamentazione del “potere” delle Big Tech Companies potrebbe subire una positiva accelerazione, basata sui fondamenti giuridici della Charter of Fundamental Rights of the European Union, il dibattito e la pressione lobbistica nel perimetro statunitense potrebbero creare delle iniziative legislative molto “rischiose” per l’amministrazione in carica. Infatti, benché assolutamente necessarie, e gli eventi nei giorni precedenti non hanno fatto che confermare questo, il problema consiste fondamentalmente nella mancanza di una matura e approfondita riflessione scientifico-giuridica sul tema “libertà e web”, in tutto il mondo occidentale. Successivamente ai “fatti di Washington”, la maggioranza Dem alla Camera (sotto la spinta dell’influentissima speaker Nancy Pelosi) ha spinto verso una procedura rapida di impeachment nei confronti di Donald Trump, valutando anche la possibilità di fare riferimento al 14° emendamento – sezione 3, oltre che al più citato 25° emendamento. Questo iter ha conseguentemente prodotto una seconda “messa in stato d’accusa” della Camera dei Rappresentanti nei confronti di un Presidente in carica, segnando al contempo un primato assoluto. Questa seconda procedura, apparentemente “insensata” da un punto di vista temporale, si inserisce in una più ampia riflessione della dirigenza del Partito Democratico. Infatti, il voto al Congresso sull’impeachment presidenziale creerebbe sicuramente delle “frizioni” all’interno del Partito Repubblicano, con riferimento all’area che ruota attorno alla corrente Bush/Cheney/Powell, in contrasto all’area movimentista del cosiddetto Tea Party. Una spaccatura interna al GOP porterebbe ad una sicura crisi interna del partito, soprattutto in vista delle prossime elezioni congressuali di mid-term (2022), ma soprattutto nella scelta del prossimo candidato. Una “messa in stato d’accusa” di Donald Trump, ratificata dal Campidoglio, non gli consentirebbe la possibilità di candidarsi per un secondo mandato nel 2024. Inoltre, si profilerebbero due possibili scenari potenzialmente catastrofici per i repubblicani sotto il profilo politico-elettorale: 1) dover scegliere un nuovo candidato che però debba mantenere l’alto numero di consensi ottenuto da Trump a novembre (e possibilmente superare il ticket Biden-Harris), se quest’ultimo fosse “incandidabile”; 2) fronteggiare la possibilità che il Presidente uscente crei un Partito “personale” che drenerebbe potenzialmente milioni di voti repubblicani. In quest’ultimo caso, non solo il consenso ai democratici uscirebbe rafforzato, ma si creerebbero i presupposti per una “tripolarità” interna al Congresso con possibili difficoltà nell’ottenere una “maggioranza” chiara nelle commissioni o al momento del voto. Il 20 gennaio si è svolta una delle più “blindate” cerimonie di insediamento presidenziale che si possa ricordare. Nei giorni precedenti, le agenzie di sicurezza federali e della capitale avevano temuto possibili nuovi disordini da parte dei sostenitori di Donald Trump, il quale ha preferito lasciare la Casa Bianca nella mattinata dello stesso giorno e non presenziare (non era mai successo) alla cerimonia del suo successore. Sicuramente, in futuro, verrà ricordato il forte dispiegamento (quasi filmico) della Guardia Nazionale “accampata” nella hall e nei corridoi del Campidoglio; immagini che difficilmente si rivedranno nuovamente, a meno che dalle indagini in corso non emerga un evidente coinvolgimento di alcuni membri repubblicani del Congresso. Probabilmente, a posteriori, risalteranno maggiormente la sobrietà del cerimoniale e l’installazione di circa 200mila bandiere nazionali in onore di tutte quelle cittadine e cittadini deceduti a causa della pandemia di Covid-19, che non hanno potuto assistere a questo rituale celebrativo della Democrazia d’oltreoceano. In contrasto, l’ultimo giorno di Presidenza Trump verrà molto probabilmente ricordato per la grazia “preventiva” a 72 persone, tra cui il suo ex-consigliere Steve Bannon (guru della comunicazione della Far-Right) e Elliott Broidy, uno dei principali donatori del Partito Repubblicano. ![]()
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