Assalto a Capitol Hill: come la Cina ha visto (e raccontato) gli eventi di Washington D.C.24/1/2021
a cura di Giulia Salsone Il 6 gennaio 2021 noi tutti abbiamo assistito a delle immagini sconcertanti, quelle dell’ormai noto “assalto a Capitol Hill”; manifestanti pro-Trump ed estremisti, alcuni con bandiere confederate, maglie che inneggiavano ad Auschwitz o con il capo ornato da “sciamano”, hanno violato quel luogo sacro che ospita il Congresso degli Stati Uniti d’America. L’impressione che ne è conseguita è stata inevitabilmente quella di un attacco sferrato alla democrazia, non solo quella statunitense, ma all’ideale stesso della Democrazia. Gli scontri, le violenze e le morti che ne sono conseguite rappresentano una ferita che rimarrà aperta a lungo nel cuore degli Stati Uniti. Quelle immagini che sono rimbalzate in tutto il mondo per la loro violenza e potenza, hanno inevitabilmente avuto un effetto di condanna unanime, da parte dei leader e delle principali testate giornalistiche internazionali. Tuttavia, in alcuni casi, non ci si è limitati a condannare le violenze in quanto tali. Il primo commento arrivato dall’altra sponda del Pacifico è stato un immediato parallelo tra le rivolte del 6 gennaio e le rivolte di Hong Kong del 2019. La portavoce del Ministero degli Affari Esteri di Pechino Hua Chunying, infatti, ha twittato il giorno immediatamente seguente ai disordini di Washington un video ritraente le proteste del porto profumato di un anno e mezzo fa. Le spiegazioni non si sono fatte attendere e, durate la conferenza stampa della stessa giornata, la Hua ha sottolineato come la comunicazione usata da Washington volta a commentare questi due eventi sia stata di “due pesi e due misure”. Difatti, secondo la portavoce del Ministero degli Esteri cinese, la rivolta di Hong Kong e l’assalto a Capitol Hill non sarebbero in alcun modo diversi tra loro. La differenza, sempre secondo la Hua, sarebbe da ricercare esclusivamente nel differente approccio usato dai politici americani quali Nancy Pelosi e Mike Pompeo, i quali avrebbero aspramente condannato gli avvenimenti di Washington, ma non altrettanto avrebbero fatto con i manifestanti di Hong Kong, definendo anzi le immagini delle proteste come frutto dello “straordinario coraggio del popolo di Hong Kong”. Se, tuttavia, nell’immaginario degli osservatori occidentali questi due episodi hanno poco in comune - da un lato, la richiesta di poter eleggere i propri leader ed il tentativo di fermare la legge sull’estradizione considerata lesiva per i diritti degli abitanti di Hong Kong, dall’altro il tentativo di impedire il trasferimento dei poteri al Presidente legittimamente eletto - così non è per Pechino. La narrazione cinese degli avvenimenti del 6 gennaio, coadiuvata da media e testate nazionali quali Global Times e Xinhua, si è dunque sviluppata al fine di dimostrare un’intrinseca ipocrisia da parte americana. Questa presunta ipocrisia americana sarebbe stata ulteriormente accentuata agli occhi della Repubblica Popolare Cinese dalla chiusura definitiva degli account social del Presidente Trump, a seguito delle rivolte e delle morti avvenute a Washington. Difatti, il Presidente degli Stati Uniti si è visto precluso dapprima l’accesso a Facebook, poi a Twitter, per infine vedere staccata la spina alla piattaforma Parler – social network principalmente utilizzato da esponenti e simpatizzanti di destra. È così che Pechino ritiene la sua opera di censura e scelta dei contenuti da ritenersi “appropriati” legittimata da queste stesse decisioni, creando un precedente ingombrante nella diffusione e garanzia della libertà di stampa e di parola da sempre operata da Washington. Viene inoltre suggerito come l’intento primario del Partito Comunista Cinese sia sempre stato quello di garantire un “ambiente sano” ai suoi cittadini; al contrario, la subitanea chiusura degli account social del Presidente americano avrebbe, secondo le dichiarazioni del Professore Shen Yi della Fudan University, uno scopo esplicitamente politico, quello di ostacolare la crescita di una specifica frangia politica. La più grande democrazia al mondo rischia così di essere relegata ad una ex-potenza, il cui sentimento di superiorità non sarebbe giustificabile dal punto di vista economico né, tantomeno, morale; questa è l’immagine degli Stati Uniti ritratta dai media e dai rappresentanti politici cinesi. Dunque, una potenza in declino, una nazione che ha perso quel suo caratteristico eccezionalismo che le aveva conferito la storia. I tumulti del 6 gennaio avrebbero così creato un danno all’immagine degli USA che va al di là delle previsioni, un’emorragia di soft power e influenza sulla comunità internazionale, minando le basi stesse del ruolo degli Stati Uniti. Percepito come un modello sempre più debole, non rappresentando più un esempio infallibile a cui mirare, gli USA “non dovrebbero sentirsi speciali e perfetti, differenziandosi da ogni paese del mondo. È diventato uno zimbello per il mondo intero” è il commento al vetriolo che il Global Times fa sugli Stati Uniti alla luce di questi avvenimenti. Il timore che questa immagine possa essere condivisa da più e più attori nello scenario internazionale è stato sostenuto da studiosi, analisti e persino esponenti della diplomazia americana. Durante un’intervista all’emittente statunitense CNBC, difatti, il precedente Ambasciatore americano in Cina, Gary Locke, ha sottolineato come l’assalto a Capitol Hill abbia avuto, e continuerà ad avere, enormi ripercussioni sull’immagine stessa degli USA. “La Cina ride di noi” afferma il diplomatico “dicendo che non siamo il modello di democrazia civiltà e stabilità che abbiamo sempre richiesto agli altri paesi di abbracciare”. Secondo Locke, inoltre, il ruolo che gli Stati Uniti si sono arrogati sinora, sarebbe già stato ribaltato a causa di questi avvenimenti: all’indomani delle scene svoltesi a Washington D.C., difatti, gli USA sono stati incitati a rispettare lo stato di diritto e un trasferimento pacifico del potere in pieno rispetto delle elezioni. Un repentino cambio di rotta e dei ruoli che potrebbe avere effetti disastrosi per la politica statunitense, il cui prestigio è oggi più a repentaglio che mai. ![]()
a cura di Luca Tonelli Aragoste rosse, carne bovina, vino rosso, zucchero, grano, orzo, legname, rame, carbone termico. Un elenco che parrebbe uscito dalla più rocambolesca spesa last minute – chi sarebbe tanto sbadato da accoppiare pregiati crostacei e materiale combustibile? – rivela invece l’eterogeneità di prodotti Made in Australia colpiti da sanzioni, o interdizioni, a marchio mandarino. La guerra commerciale in corso fra Pechino e Canberra sfida il dogma di un rapporto Occidente-Cina a compartimenti stagni. Conferma la massima di Adam Smith per cui “la difesa è molto più importante della ricchezza”, come se economia statale, concezione di sé e sicurezza nazionale potessero giocare le proprie carte su tavoli separati. A fronte di una scacchiera economica su cui la Regina Cinese fa la voce grossa rispetto a un Re Australiano che batte in scomposta ritirata, l’Asia-Pacifico inscena una piece oramai non più sorprendente: impegno politico e militare con Washington, da un lato, e dipendenza commerciale con Pechino, dall’altro, prendono rumorosamente il centro del palco. Cina ed Australia beneficiano di un trattato di libero scambio entrato in vigore nel 2015, il ChAFTA che, a cinque anni di distanza, ha reso il fu Regno di Mezzo il singolo partner commerciale più importante per il mercato australiano. Tale dipendenza dalla domanda cinese, specialmente in commodities, lascia perciò ben poco spazio di manovra. L’Aussie export vede 100% del nichel estratto approdare sulle coste cinesi, come il 95% del legname ricavato, l’83% del ferro strappato alle rosse terre aborigene, il 76% delle aragoste pescate, il 54% dell’orzo raccolto. E l’elenco potrebbe proseguire, impietosamente. La centralità di tali percentuali non è data solo dalla rigidità con cui è possibile soppiantare, sempre che sia possibile, una domanda di mercato come quella cinese. O dal fatto che il mantra “noi abbiamo bisogno della Cina come la Cina ha bisogno di noi” è progressivamente andato scemando (si veda per esempio la virata di 90° sul carbone Indonesiano da parte di Pechino in seguito al ban di quello australiano). È anche suggerita dalla sensibilità che il primario occupa nella politica interna australiana, dove le lobby del settore hanno peso specifico comparabile alle controparti a stelle e strisce per la Casa Bianca (con le dovute proporzioni, si intenda). Divampata in seguito alla richiesta da parte del Premier Scott Morrison di un’indagine internazionale sull’operato cinese nel contesto Covid, ma in gran parte da ricondurre già al 2017 con le accuse di presunte influenze cinesi nel processo legislativo australiano e al 2018 con le restrizioni applicate all’azienda Huawei (senza prove concrete, secondo Pechino), la war of words imperversante sul Pacifico rischia di colpire alla giugulare vari settori australiani. Fra questi, ve ne è uno spesso tenuto fuori dai riflettori, ma che ha rappresentato per anni un punto di contatto importante fra i due paesi: quello accademico. Il comparto universitario australiano, infatti, dipende strutturalmente dai flussi di studenti internazionali, più di un terzo cinesi. La mancanza di supporto economico da parte del governo australiano durante la crisi da Covid-19, unita ad un documentato incremento di atti razzisti nei confronti di individui aventi tratti asiatici, e ad una comunicazione politica strumentalizzata da ambo le parti, ha spinto molti cinesi a rivalutare le proprie priorità accademiche. Anche sotto caldo suggerimento del Partito, ça va sans dire. Questo ha già lasciato tangibili tracce sui budget e sulle offerte formative di alcune dei migliori istituti del Paese. Diffidenza, pertanto, è la parola chiave da ricercarsi. Pechino filtra il proprio rapporto commerciale con Canberra in termini securitari, accusando la propria miniera a cielo aperto di utilizzare un linguaggio politico provocatorio, spalleggiare gli Stati Uniti e l’India nel Mar Cinese Meridionale sotto il vessillo del QUAD, stringere accordi militari con Tokyo e sussidiare vasti settori della propria economia domestica. Rincarando la dose, il Partito ha recentemente operato analisi sulla condotta dei soldati australiani in Afghanistan (anche attraverso fonti poi riportate essere fake), nel tentativo di contraccambiare la generosa attenzione che il pubblico Aussie riserva alla gestione delle minoranze cinesi interne e al rispetto dei diritti umani. Premura che, a detta di Pechino, non viene riservata alla situazione debilitata delle comunità aborigene australiane. Dal canto suo, Canberra non manca di sottolineare l’opacità dell’operato del Partito nelle fasi iniziali dell’attuale pandemia. Non perde occasione di condannare la situazione nello Xinjiang. Estende visti a migliaia di Hongkongers ancora in Oceania. Le attuali dispute economiche, pertanto, non sono che parte di un puzzle regionale più ampio e complesso. Se gran parte delle nazioni della regione, per storia ed interesse, si producono in dinamiche di hedging, ossia parlano mandarino in contesto economico ma fluido texano quando la difesa della propria sovranità è in discussione, questo rimane difficilmente riproducibile per un popolo come quello australiano che guarda alla sponda opposta del Pacifico nella constante ricerca di presenza politica. Di segni vitali dei membri Five Eyes. Addolcire i toni verso la Cina sarebbe congeniale da un punto di vista economico e politico: allenterebbe le tensioni con un partner economico che non ha eguali sul panorama internazionale. Soprattutto, darebbe fondamenta alle previsioni di Canberra per il recupero economico post-pandemico, aggrappato a un +8% di crescita cinese nel 2021 per trascinare i canguri fuori dalla crisi, in un replay delle dinamiche post crollo finanziario del 2008. Dal canto suo, Pechino pianifica lo scacco al Re lavorando ai fianchi un’economia australiana impossibilitata a rispondere per le rime. L’offerta globale in settori chiave per Canberra è fluida e ricettiva. L’America Latina, in tal senso, è già in pole position. I canguri, pertanto, dovranno stringere i denti, continuando a solcare con lo sguardo le acque (poco) pacifiche dell’oceano. Nella spasmodica attesa di una chiamata da Washington, confideranno che l’inquilino entrante abbia un ricordo più vivido dei cugini alleati. Che il Pivot to Asia di stampo Obamiano e il FOIP di matrice Trumpiana siano seguiti da un più ampio abbraccio non solo securitario, quale è il QUAD, ma anche economico. L’accordo da 36 miliardi di dollari in prodotti agricoli americani strappato recentemente da Donald Trump a Xi Jinping non rema esattamente in questa direzione. ![]()
a cura di Daniele Congedi L’emergenza sanitaria mondiale scaturita dalla repentina diffusione del Covid-19 ha avuto (e sta avendo) delle pesanti ripercussioni sui sistemi economici a livello internazionale. Dopo qualche affanno iniziale l’Unione europea ha deciso di approntare delle ingenti misure per sopperire al crollo degli indicatori macroeconomici. In questo senso, la novità più rilevante è rintracciabile nella circostanza per cui sia venuto meno, almeno temporaneamente, quel dogma che ha da sempre accompagnato il cammino dell’integrazione europea, ovvero il divieto di contrarre debito in nome e per conto dell’Unione, quei tanto prospettati “eurobond” di sovente ritrovati nelle pagine dei giornali. A tal fine è stato presentato lo scorso aprile il “Next Generation EU”, un fondo da 750 miliardi di euro – di cui circa 390 miliardi di euro di prestiti e 360 miliardi di euro di finanziamenti a fondo perduto – che si presuppone l’obiettivo di guidare la transizione verso una società più verde e digitale, a misura delle prossime generazioni di cittadini europei. I capitali, raccolti sui mercati finanziari tramite dei prestiti sottoscritti dall’Unione europea (nello specifico dalla Commissione europea), dovranno essere impegnati entro il 2023, spesi entro il 2026 e restituiti, relativamente alla quota dei prestiti, dal 2027. Per ricevere le sovvenzioni, suddivise tra gli Stati membri in virtù di precisi criteri, i governi europei dovranno far pervenire a Bruxelles i propri piani entro il 30 aprile 2021, dettagliando accuratamente i programmi di spesa e di riforma sulla base delle indicazioni generali e delle raccomandazioni specifiche puntualmente rivolte dall'Unione europea ai singoli Paesi. L’ammontare di denaro reso disponibile attraverso il “Next Generation EU” dovrà essere distribuito in cinque macrosettori: coesione e competitività economica, coesione sociale e territoriale, istruzione e formazione, oltre ai già citati investimenti ambientali e digitali, i quali saranno fissati, rispettivamente, ad almeno il 37% e ad almeno il 20% del totale delle risorse destinate a ogni Stato membro. Le versioni finali dei piani nazionali saranno poi vagliate dalla Commissione europea in un termine massimo di due mesi dalla loro presentazione. Entro 4 settimane tale valutazione dovrà essere approvata dal Consiglio (nella sua formulazione composta dai 27 ministri dell’Economia, denominata Ecofin) a maggioranza qualificata, un sistema di votazione che prevede il raggiungimento di almeno il 55% degli Stati che rappresentino almeno il 65% del totale della popolazione dell’Unione europea. Oltre al costante monitoraggio che la Commissione eserciterà nelle diverse fasi di attuazione dei programmi – i cui esiti influiranno sull’elargizione o meno delle somme di denaro prefissate – e alle approvazioni in seno al Consiglio, gli Stati si sono riservati (in casi eccezionali) la facoltà di azionare il cosiddetto “freno di emergenza” nei riguardi degli altri Paesi, in modo da poter controllare la condotta dei propri partner e prevenire gli abusi. Risolte diverse criticità, incluso il veto di Ungheria e Polonia relativo al rispetto dello stato di diritto, il “Next Generation EU” richiede ancora ulteriori passaggi chiave per entrare in vigore, non da ultimo l’imprescindibile ratifica sulle risorse proprie da parte di ciascun parlamento nazionale, in conformità alle rispettive norme costituzionali. Premesso che l’iter di presentazione e approvazione dei programmi statali richiederà di esplicare, nei prossimi mesi, i diversi step di cui sopra, l’invito delle istituzioni europee è di anticipare il prima possibile l’invio del piano definitivo per poter avviare un dialogo con la Commissione europea, dando modo di accedere alla prima parte dei finanziamenti, pari al 13% dell'importo complessivo (circa 27 miliardi nel caso dell’Italia), tra la fine della primavera e l’inizio dell’estate del 2021. In questi giorni, mentre la maggior parte delle cancellerie europee è in grande fibrillazione, alcuni Stati sono già a buon punto nel limare i propri testi. La Spagna ha presentato il proprio piano a ottobre e fonti qualificate hanno confermato che è l’unico grande Paese dell’Unione (insieme a Grecia, Ungheria, Bulgaria, Portogallo, Slovenia e Repubblica Ceca) ad aver consegnato una bozza finale dopo le proficue trattative con Bruxelles. Risulta essere in fase di negoziato con la Commissione europea la Francia, la quale era partita prima di tutti, a settembre, con un documento molto dettagliato da 100 miliardi di euro (parte di un’iniziativa più ampia da 470 miliardi di euro) che affida al Ministro dell'Economia, Bruno Le Maire, il compito di gestire il procedimento nella sua interezza. La versione finale del piano di recovery francese è prevista entro il mese di gennaio. Dal canto suo, la Germania ha approvato il 16 dicembre 2020 la sua proposta di piano indirizzandola alla Commissione europea. Si tratta di circa 25 miliardi di euro che saranno utilizzati dai tedeschi per finanziare misure già decise nella legge di bilancio. Quanto all’Italia, in seguito alla pubblicazione delle linee guida generiche in settembre, il Consiglio dei ministri del 12 gennaio 2021 ha approvato la proposta di Piano nazionale di ripresa e resilienza (mitigando, in parte, il ritardo fin qui accumulato), che sarà esaminata dalle due camere della Repubblica. Allo stato attuale il documento circolante (non definitivo) vale 222 miliardi di euro, di cui 196 miliardi dal “Recovery and Resilience Facility”, lo strumento principale del “Next Generation EU”, e i restanti derivanti dall’utilizzo di altri fondi europei, come quelli di coesione. Le cifre per le diverse voci di spesa sono così ripartite: 68 miliardi per la “rivoluzione verde”, 37 miliardi per la digitalizzazione e la cultura, 32 miliardi per le infrastrutture, 26 miliardi per l’istruzione e la ricerca, 21 miliardi per l’inclusione e la coesione e 19 miliardi per la sanità. Secondo il dicastero dell’Economia l’attuale bozza permetterebbe una crescita del Prodotto interno lordo (Pil) nel 2026, l’ultimo anno del piano, più alta di 3 punti percentuali rispetto allo scenario tendenziale di base. Nota dirimente di tutta la partita del “Next Generation EU” è la struttura di governance italiana, ossia chi sarà preposto a gestire le risorse e il modus operandi adottato, questione di cui ancora non v’è certezza. Proprio questo punto è stato il casus belli delle burrascose vicende che accompagnano da un mese la maggioranza giallo-rossa e che stanno rendendo ancora più complicata la gestazione dello stesso piano. Se la crisi politica interna all’esecutivo non trovasse una sua repentina conclusione (di qualsiasi tipologia) l’intera impalcatura della ripresa italiana rischierebbe di restare impantanata per tanto tempo, innescando un circolo vizioso per il Sistema-Paese da cui non sarebbe agevole venir fuori. Incertezze di tal calibro non farebbero altro che evidenziare, per l’ennesima volta, le canoniche difficoltà nostrane nel saper impiegare correttamente, e in tempi celeri, le risorse europee. ![]()
a cura di Gianmarco Italia A vent’anni dalla Direttiva 2000/31 CE sul commercio elettronico, il 15 dicembre la Commissione UE ha presentato il Digital Services Act (DSA) ed il Digital Market Act (DMA): capisaldi di un ambizioso pacchetto normativo che risponde alle sfide di un mercato in continua evoluzione con un rinnovamento dell’infrastruttura digitale dell’Unione Europea. La proposta congiunta segue la consueta trafila di studi d’impatto e consultazioni con gli stakeholders, ed è ora al vaglio del Parlamento e del Consiglio dell’Unione Europea. Considerata la necessità di bilanciare gli interessi comunitari con quelli dei mastodonti delle piattaforme digitali, è pacifico attendersi un percorso di gestazione legislativa tutt’altro che agevole. Allo stesso tempo, in sede di presentazione, i Commissari Margrethe Vestager (Concorrenza e Digitale) e Thierry Breton (Mercato Interno) hanno chiarito che ambedue le misure mirano a garantire una vasta gamma di prodotti e servizi sicuri online e ad assicurare regole del gioco eque, competitive e pro-innovazione, in grado di tutelare le imprese operanti nel mercato unico da fenomeni di distorsione della concorrenza. Al fine di garantire un’analisi più accurata, è necessario inquadrare le misure separatamente. Digital Services Act In linea generale, il DSA è volto a regolamentare le attività dei fornitori di servizi digitali che agiscono da intermediari nel mercato unico, connettendo di fatto il consumatore finale a beni, servizi, e contenuti forniti da società terze. In sostanza, la Commissione mira ad assicurare il rispetto dei diritti fondamentali degli utenti stabilendo un regime di responsabilità chiaro ed azionabile per la gestione di contenuti illegali, entrando in rotta di collisione col principio di esonero della responsabilità dei fornitori di servizi online sancito dalla Direttiva 2000/31 CE. La bozza riporta esplicitamente alcuni contenuti illegali, come l’incitamento all’odio, gli abusi sessuali su minori e l’utilizzo non autorizzato di materiale coperto da diritti d’autore, ma lascia alle precedenti normative nazionali ed UE il compito di definirli, costringendo le policy di moderazione degli intermediari entro i confini legislativi dettati dagli stati membri. Il regime delineato dal DSA si applica a diversi soggetti, tra cui piattaforme e mercati online, prescrivendo obblighi di responsabilità e due diligence proporzionali all’incidenza dei fornitori di servizi digitali nelle dinamiche del mercato unico. La scelta di imporre oneri più gravosi a capo delle LOPS (large online platforms), individuate come quelle che erogano servizi a più di 45 milioni di persone, configura il DSA come uno strumento politico teso ad assicurare un’estesa libertà di parola ed informazione in rete, che per natura impone requisiti normativi più stringenti ai gatekeepers del mercato dei dati, ossia alle aziende in posizione dominante. Per quanto concerne l’ambito di applicazione, le norme del DSA disciplinano i servizi digitali nel mercato unico UE senza alcuna limitazione, estendendosi anche agli intermediari online stabiliti al di fuori dell’Unione europea che offrono i loro servizi nel mercato unico digitale. In ossequio ad una filosofia antitrust, il pacchetto sui servizi richiede agli intermediari l’ottemperanza a criteri ex ante (prevenzione di fenomeni anticoncorrenziali) ed ex post (ripristino della concorrenza). Dal lato della personalizzazione dell’esperienza digitale, Il DSA impone agli intermediari di comunicare agli utenti in modo trasparente le modalità con cui le piattaforme erogano i servizi di pubblicità online, incluse informazioni specifiche sugli algoritmi di profilazione ed i meccanismi che regolano i contenuti raccomandati. Le garanzie a tutela degli utenti, e di rimando, i limiti d’azione imposti alle piattaforme gestite dagli intermediari, contemplano anche il diritto di opt-out dalla pubblicità personalizzata e il diritto di informazione su chi finanzia gli annunci. Inoltre, stando alla bozza presentata dalla Commissione, il DSA impone nuove procedure di rimozione di contenuti illeciti alle piattaforme operanti nel mercato unico, che prevedono peraltro meccanismi d’assunzione di responsabilità in caso di inerzia e sanzioni pecuniarie. In ultimo, il pacchetto sui servizi digitale richiede alle piattaforme di approntare un sistema di salvaguardie azionabile dagli utenti per contestare le decisioni di moderazione e meccanismi di rimozione che premiano gli utenti che, sulla scorta di numerose segnalazioni, si dimostrano affidabili. Sul versante degli obblighi esterni, per partecipare al mercato unico le piattaforme devono costantemente svolgere audit per i rischi esterni, mantenere e fornire l’accesso ai repository pubblicitari su richiesta, e rimuovere prontamente contenuti illeciti, se esortati in tal senso dalle autorità nazionali. Digital Markets Act Seguendo un sentiero che ripercorre quello tracciato dal DSA, anche il DMA mira a regolamentare le azioni delle piattaforme che, in virtù di una posizione dominante e duratura nel mercato (gatekeepers), fungono da strozzatura tra imprese e consumatori e creano conseguentemente barriere alla libera concorrenza nel mercato unico digitale Nella bozza presentata dalla Commissione ai co-legislatori, è sottesa l’idea che la costruzione di uno spazio digitale aperto all’innovazione e all’avvicendarsi di start-up europee non possa prescindere dall’abbattimento del potere di mercato delle LOPS. Pur non menzionando esplicitamente le “Gafam” (Google, Amazon, Facebook, Apple, Microsoft), il DMA stringe la morsa sui giganti high-tech, esigendo dalle imprese che soddisfano determinati criteri quantitativi (volume di utilizzo da parte degli utenti, fatturato) e qualitativi (fornitori di servizi chiave) obblighi positivi (whitelist) e negativi (blacklist), svincolando al contempo i nuovi player europei alla ricerca di spazi di mercato da simili oneri. Oltre la bussola della restaurazione della libera concorrenza, il DMA mira a riequilibrare l’allocazione di parte della sovranità digitale in favore delle imprese UE. Su questa scia, ai gatekeeper è interdetta la possibilità di combinare i dati ottenuti dalla piattaforma con i dati raccolti da altri servizi erogati dallo stesso gatekeeper, e ciò assottiglia il potenziale delle rendite di mercato. Tra i dont’s, figura il riferimento specifico al divieto di discriminazione a favore dei propri servizi, ed anche pratiche di mercato predatorie come il leveraging (utilizzare la propria posizione dominante per bloccare l’ingresso di nuovi competitors) ed il self-preferencing (indicizzazione privilegiata dei propri servizi sulla propria piattaforma) ed il preferencing di terze parti. È interessante notare che il DMA non si serve di soli divieti per riequilibrare l’ago della bilancia a favore delle start-up europee. Accanto al divieto di adottare pratiche discriminatorie, è egualmente corposa la lista di prescrizioni positive che le LOPS sono tenute a predisporre. Tra queste, il DMA annovera l’obbligo di garantire l’interoperabilità con la propria piattaforma ad altre piattaforme concorrenti e di consentire agli utenti commerciali di accedere ai dati che generano utilizzando la piattaforma. ![]()
a cura di Francesco Rojch Dopo più di quattro anni dall’esito referendario del 2016, il Regno Unito e l’Unione Europea hanno trovato l’accordo sui negoziati post Brexit. Nelle ultime settimane i responsabili capo negoziatori, Michel Barnier per l’UE e David Frost sponda UK, avevano mostrato diverse perplessità sulla riuscita delle trattative, fino a che Boris Johnson, premier britannico, avrebbe paventato un “no deal”, cioè un’uscita del Regno Unito dall’Unione senza alcun accordo con Bruxelles. Su quest’ultima ipotesi pesavano le richieste dell’ex sindaco di Londra su un possibile Internal Market bill che violerebbe l’accordo di recesso con l’UE.Tale accordo prevede il controllo delle merci in transito tra Gran Bretagna e Irlanda del Nord, per verificare il rispetto della regolamentazione europea, in particolare qualora le merci proseguano la corsa entrando nel mare d’Irlanda, quindi all’interno del mercato unico europeo. La proposta formulata da Downing Street lascerebbe al governo britannico la possibilità di disattendere tali obblighi in quanto non rispettano la sovranità del Regno Unito. Va ricordato che è stato proprio il premier britannico a firmare quell’accordo solo pochi mesi fa. Il divorzio tra Europa e Regno Unito è stato inoltre esacerbato dalla diffusione di una nuova variante del Covid-19 nel territorio britannico. La Francia e altri 50 paesi hanno sospeso i collegamenti con il Regno Unito, bloccando inoltre il trasporto delle merci tra le due sponde della Manica per 48 ore, sia via mare che via terra. Emblematiche le immagini di centinaia di camion fermi nel porto britannico di Dover nella contea del Kent. Tuttavia lo stallo istituzionale si è concretizzato su tre dossier: l’accesso dei pescatori europei alle acque britanniche, il level playing field e il meccanismo di risoluzione per eventuali controversie. Sulle prime due tematiche il premier britannico pare abbia chiesto a David Frost, capo negoziatore per il Regno Unito, di non retrocedere di un passo. Il tema della pesca ha giocato un ruolo cruciale, in quanto Londra chiede venga introdotto un sistema di quote da rivedere ogni anno. La pesca rappresenta un valore simbolico per il Regno Unito, basti pensare che pesa lo 0,1% del PIL britannico, ma il leader del Partito Conservatore ne ha fatto un cavallo di battaglia durante la campagna elettorale facendo breccia nei cuori dei brexiteers. Boris Johnson, subito dopo l’accordo, ha detto che per la prima volta dal 1973 il Regno Unito sarà uno stato costiero indipendente con il pieno controllo delle proprie acque di pesca. Nei prossimi cinque anni e mezzo ci sarà una diminuzione del 25% del pesce pescato dalle imbarcazioni europee, soglia notevolmente inferiore rispetto alle richieste iniziali di 60-80%, e di rivedere l’accordo in tempi più rapidi. Questo potrebbe essere un problema per Londra, poiché non possiede grandi capacità di lavorazione e stoccaggio del pescato. Sul caso del level playing field, ovvero le regole per impedire che nel medio-lungo termine le aziende britanniche e quelle europee possano farsi concorrenza sleale, la questione è molto più complessa. Le parti si sono accordate su un livello minimo di mantenimento di standard ambientali, sociali e dei diritti dei lavoratori. Questo perché l’UE è spinta dal timore che il Regno Unito possa adottare, per le proprie aziende, delle norme molto meno stringenti rispetto a quelle europee nelle materie sopra elencate, e quindi trarne vantaggio con il risultato di concorrenza sleale da parte di Londra. Su questo punto l’Unione Europea ha ottenuto sufficienti rassicurazioni, anche se il Regno Unito potrà sviluppare un sistema di garanzie diverse da quelle europee, così come chiedevano i sostenitori della Brexit. Qualora il Regno Unito o l’Europa ritengano che una delle due parti non rispetti gli accordi presi, entrambe sono autorizzate ad intervenire attraverso delle procedure restrittive. Questo aspetto è molto importante in quanto serve a far sì che vengano rispettati gli accordi sulla pesca, sulla concorrenza, oppure ancora l’accordo di recesso per il quale il Regno Unito dovrà provvedere a effettuare controlli doganali nel mare d’Irlanda. La governante è un compromesso voluto da Bruxelles che consiste nell’istituzione di un meccanismo di arbitrato per permettere di attivare entro trenta giorni i provvedimenti presi da una delle parti, qualora si disattenda l’accordo, e applicare delle sanzioni anche sotto forma di dazi. Il punto più importante per il governo britannico è che il Regno Unito non sarà soggetto a nessun tipo di giurisdizione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea. L’accordo trovato il 24 dicembre scorso, ha determinato un altro effetto della Brexit: il governo britannico ha deciso di non partecipare al programma di scambio Erasmus +. Johnson ha parlato di scelta difficile ma necessaria, in quanto il programma di scambio europeo viene rendicontato in termini costosi da Downing Street. L’Erasmus verrà sostituito da un nuovo programma chiamato “Turing Scheme” dal nome del matematico Alan Turing. Secondo il premier britannico questo programma consentirà agli studenti inglesi non solo di studiare nelle migliori università europee, ma anche nelle migliori università del mondo. Lo spettro di una hard Brexit, soprattutto davanti alla pandemia, è stato scongiurato, ma quale sarà lo scenario e le sfide che dovrà affrontare l’Europa? Nel 2014 il referendum per l’indipendenza della Scozia aveva dato esito negativo, con il 55,3% degli scozzesi che ha votato per rimanere nel Regno Unito. Sarà ancora così? La premier scozzese Nicola Sturgeon attraverso un tweet ha comunicato la posizione della Scozia e vuole approfittare della Brexit per un nuovo referendum:“ La Scozia tornerà presto, Europa. Tenete la luce accesa”. ![]()
a cura di Riccardo Allegri Nella giornata del 9 gennaio 2021 si è consumato quello che parrebbe essere l’ultimo atto dell’interminabile confronto tra l’amministrazione statunitense guidata dal Presidente uscente Donald Trump e la Cina. In una nota pubblicata sul sito del Dipartimento di Stato, il titolare del dicastero, Mike Pompeo, ha eliminato quelle che ha definito “restrizioni auto-imposte” nei rapporti diplomatici tra Washington e Taipei. Il provvedimento, che potrebbe rappresentare il colpo di coda dell’Amministrazione Trump, va a toccare uno degli argomenti più spinosi nelle relazioni tra gli Stati Uniti e la Cina e si pone in aperto contrasto con le politiche adottate da tutti i governi precedenti. Dal 1979, infatti, gli USA hanno seguito i dettami di quella che viene definita la “One China Policy”, riconoscendo la piena legittimità della Cina comunista. Si trattò di un deciso cambio di rotta rispetto alle politiche precedentemente perseguite a Washington. Per lungo tempo, del resto, la Casa Bianca aveva intrattenuto relazioni diplomatiche ufficiali soltanto con la Cina nazionalista insediatasi a Taiwan nel 1949, dopo la sconfitta nella guerra civile. I rapporti con il governo di Taipei erano regolati dal “Taiwan Relations Act”, anch’esso risalente al 1979. Tale provvedimento garantiva a Taiwan la possibilità di continuare a ricevere armamenti dagli Stati Uniti, cosa questa che ha contribuito alla sopravvivenza stessa del governo di Taipei, ma non consentiva il mantenimento di rapporti diplomatici ufficiali tra i due paesi. Gli USA riconoscevano le rivendicazioni territoriali di Pechino rispetto all’isola, sebbene non le sostenessero. Taipei era dunque considerata un’entità sovrana sub-statale equivalente ad un paese straniero. Per questo motivo, le relazioni diplomatiche de facto furono mantenute, sebbene tramite meccanismi informali. Sull’isola è presente l’American Institute in Taiwan (AIT) che, sebbene non nominalmente, svolge in tutto e per tutto le funzioni di un’ambasciata. I diplomatici dei due paesi, però, non hanno mai potuto incontrarsi in sedi ufficiali ed i negoziati tra le parti sono raramente condotti ad alto livello. Sono queste le “restrizioni auto-imposte” a cui il Segretario di Stato Pompeo ha fatto riferimento. Le sue parole non sono del tutto inaspettate, considerando l’antagonismo che ha caratterizzato le relazioni tra USA e Cina durante gli anni della presidenza Trump e lo sviluppo delle rapporti tra il suo governo e Taiwan. Nei giorni immediatamente successivi alla sua vittoria nelle elezioni del 2016, il Tycoon aveva accettato di rispondere alla chiamata del premier taiwanese Tsai che intendeva congratularsi per il risultato raggiunto nella contesa elettorale. Già questo era stato visto come un affronto dalle autorità di Pechino. Nel 2020 il Segretario alla Salute Alex Azar si era recato in visita a Taipei, ove il contrasto alla diffusione del coronavirus era stato efficacissimo nonostante la vicinanza dell’isola all’epicentro della pandemia globale. Era la prima visita di un rappresentante del governo americano di così alto livello da moltissimi anni. La Cina, che non aveva apprezzato la cosa, aveva fatto sorvolare l’isola da due dei propri caccia, in segno di minacciosa e sdegnata protesta. L’ira di Pechino è montata ulteriormente l’8 di gennaio 2021, quando lo stesso Mike Pompeo ha dichiarato che l’ambasciatore americano alle Nazioni Unite, Kelly Craft, avrebbe raggiunto Taiwan per una visita della durata di tre giorni avente lo scopo di promuovere la partecipazione di Taipei nelle principali organizzazioni internazionali. Non bisogna dimenticare, infatti, che Taiwan non è più parte dell’ONU dal 1971, quando il suo posto fu preso dalla Cina comunista. Quest’ultima, dal canto suo, ha sempre profuso enormi sforzi per impedire al governo di Taipei di prendere parte ai lavori delle organizzazioni internazionali. Basti pensare al veto imposto da Pechino rispetto all’ingresso di Taiwan nell’Organizzazione Mondiale della Sanità, anche in un periodo di pandemia globale come quello attuale. È dunque comprensibile come la programmata visita di Craft abbia potuto scaldare gli animi dei dirigenti del Partito Comunista Cinese. I portavoce del governo hanno infatti duramente condannato tale iniziativa diplomatica, minacciando inoltre una rappresaglia molto pesante. Per il momento, invece, le autorità cinesi non hanno ufficialmente commentato il recente provvedimento di Pompeo volto ad instaurare normali rapporti diplomatici con Taiwan. È altamente probabile che, a poco meno di due settimane dall’insediamento della nuova amministrazione statunitense guidata dal democratico Joe Biden, Pechino non abbia voluto peggiorare ulteriormente le relazioni con Washington. La Cina, del resto, ha sostenuto la candidatura dello stesso Biden, tentando perfino di interferire in suo favore con il processo elettorale americano. La postura del Presidente-eletto nei confronti del governo di Pechino è decisamente meno antagonistica rispetto a quella del suo predecessore Donald Trump. Egli ha persino definito la guerra commerciale in atto tra i due paesi come controproducente, facendo presagire la possibilità di un alleggerimento della tensione, almeno in campo economico. Inoltre, un membro dell’entourage di Biden ha dichiarato al New York Times l’intenzione di quest’ultimo di conformare le proprie politiche ai provvedimenti del “Taiwan Relations Act” nel pieno rispetto della “One China Policy”. Dunque, per ora, la reazione della Cina è stata affidata soltanto agli organi di stampa collegati al partito, i quali hanno fortemente criticato le parole di Pompeo. L’operato del Segretario di Stato è stato addirittura definito folle. Per quanto riguarda Taiwan, i rappresentanti del governo di Taipei si sono dimostrati entusiasti del provvedimento. Il Ministro degli Esteri Joseph Wu ha espresso via Twitter tutta la propria gratitudine nei confronti di Washington e l’organo che svolge le funzioni di ambasciata taiwanese negli Stati Uniti, il Taipei Economic and Cultural Representative Office, ha sottolineato come l’operato dell’amministrazione Trump abbia migliorato ed approfondito le relazioni tra i due paesi. La mossa di Pompeo, però, ha anche importanti ripercussioni interne. Secondo alcuni analisti, essa si inserirebbe in quella che è l’eredità che Donald Trump vorrebbe lasciare al suo successore. In effetti sono numerosi i funzionari con idee anti-cinesi nominati dal Tycoon. Essi manterranno i rispettivi ruoli anche con la nuova amministrazione, rendendo più difficile il processo di allentamento della tensione tra le parti. In aggiunta, il provvedimento di Pompeo potrebbe rivelarsi una trappola per Joe Biden. Infatti, qualora egli dovesse abrogarlo, apparirebbe debole nei confronti di Pechino di fronte al popolo americano. Se invece dovesse mantenerlo, le relazioni tra USA e Cina potrebbero davvero peggiorare irrimediabilmente, vista l’importanza rivestita dalla questione per il governo cinese. Oltre ad avvelenare i rapporti che intercorrono tra Pechino e Washington, Taiwan rischia dunque di trasformarsi nel nuovo fronte caldo della politica interna statunitense. ![]()
10 anni dopo l'inizio della Primavera Araba: come la democrazia non si è “affermata” nell'area MENA11/1/2021
a cura di Davide Paolicchi Il 17 dicembre 2010, Mohamed Bouazizi, un giovane ambulante tunisino si dava fuoco in segno di protesta contro il ventennale regime di Ben Ali. Da parte dei numerosi osservatori geopolitici che hanno analizzato quest’ultimo decennio, questo evento viene considerato come la “scintilla” di un incendio che avrebbe lambito quasi ogni Stato del Nord Africa e Medio Oriente; il primo anno della cosiddetta Primavera Araba. Mohamed aveva iniziato la sua protesta come segno di protesta contro la brutalità della polizia, ma sicuramente nessuno poteva prevedere ciò che ne scaturì in seguito. Ogni regime dell’area MENA (Middle East-North Africa) ha ravvisato il rischio di essere deposto dall’enorme massa di folla che quotidianamente ne chiedeva l’uscita di scena immediata e quasi senza compromessi. Ancora dieci anni dopo, non tutti gli Stati hanno raggiunto uno stabile, reale e definitivo equilibrio politico-sociale al proprio interno. Infatti, attraverso la repressione violenta o l’accettazione di nuove riforme, ogni governo nazionale della Regione ha compreso il proprio status di sostanziale precarietà di fronte al malcontento, la sfiducia e la rabbia dei propri governati. Tre sono state le evoluzioni delle proteste o “rivoluzioni” in quest’area fortemente collegata al continente europeo e al centro delle maggiori contese geopolitiche degli ultimi quarant’anni: 1) stati in cui c'è stato un cambio di leadership, attraverso un passaggio di potere generalmente molto violento: Tunisia (Ben Ali), Libia (Gheddafi), Egitto (Mubarak) e Yemen (Saleh); 2) paesi in cui si sono riscontrate numerose proteste, spesso represse nella violenza da parte delle forze di sicurezza, ma che non hanno prodotto un cambio nella leadership: Marocco, Libano, Palestina, Siria (con una guerra civile ancora in corso), Iraq, Giordania, Kuwait, Bahrein, Arabia Saudita e Oman; 3) nazioni dove le proteste, pur se represse nel sangue, hanno prodotto un cambio di potere: Algeria e Sudan. Alcune rivolte e proteste hanno avuto una durata molto breve (penisola araba e Tunisia), diverse si sono protratte nel tempo e tutt’ora potrebbero produrre effetti e stravolgimenti nell’architettura politico-istituzionale interna (Libia, Algeria, Egitto e Iraq). Molti regimi autoritari, per poter placare le folle e salvaguardare sé stessi, hanno progressivamente introdotto alcune riforme costituzionali che, almeno sulla carta, dovrebbero consentire una maggiore liberalizzazione delle attività economiche e sociali (Marocco e Giordania). In ogni caso, nonostante alcuni relativi e circoscritti cambiamenti, la società araba continua a rimanere saldamente dipendente dal potere militare e religioso che caratterizza ogni governo della regione mediorientale e nordafricana. Quasi tutte le Primavere Arabe, accomunate dalla richiesta popolare di una maggiore libertà e affermazione dello stato di diritto, hanno generato una serie di movimenti politici più o meno radicali, i quali più o meno indirettamente hanno finito con l’indebolire la “forza” delle legittime rivendicazioni sociali. La longa manus di Al Qaeda e dei movimenti salafiti, spesso generosamente sostenuti dagli Stati del Golfo, ha provocato un crescente timore ed ansietà nei partner economico-strategici riguardo la stabilità ed i nuovi possibili assetti di quegli Stati attraversati da tensioni sociali, attentati e rivolte armate. I casi specifici di Siria, Libia, Egitto e Iraq possono testimoniare plasticamente come la maggioranza dei paesi occidentali ed i grandi attori globali (Russia e Cina), durante questi dieci anni, abbiano sostenuto più o meno apertamente quelle personalità laiche o “moderate” che garantissero una stabilità interna al proprio paese, la dura repressione delle frange politiche più estremiste e la riapertura degli scambi commerciali. Infatti, terrorismo fondamentalista e problema migratorio sono oggi le principali fonti di preoccupazione globale riguardo l’area MENA. Di fronte alle numerose escalations, l’Occidente non ha quasi mai fatto mancare il proprio sostegno politico ai vari processi di democratizzazione nell’area. Un costante richiamo al rispetto dei diritti umani, all’ascolto verso quella parte di società emarginata dal processo decisionale, nel tempo non ha mai prodotto un considerevole ammorbidimento del “pugno di ferro” dei regimi. Infatti, durante questi dieci anni, una costante è stata la linea di realpolitik assunta da quegli Stati caratterizzati da una democrazia matura, il cui obbiettivo si potrebbe sintetizzare con queste parole d’ordine: “stabilizzare ad ogni costo il partner arabo, tamponare ogni deriva estremistica impegnando lo sforzo militare minimamente indispensabile e riattivare i trattati commerciali”. La naturale conseguenza di questo intendimento non ha fatto altro che “tradire” le prospettive di cambiamento della società politica araba. Il mancato sostegno al possibile passaggio di potere da un regime autoritario ad una giovane democrazia non ha fatto che aumentare il valore delle azioni e promesse di quelle frange più intransigenti, così come di coloro che detenevano ininterrottamente il potere da decenni. Questi ultimi circoli politico-militari, assunta l’egemonia durante la fase post-coloniale (la primigenia “Primavera Araba”), si sono assunti il gravoso compito di stabilizzare e sorvegliare un ipotetico passaggio democratico di potere di fronte alla comunità internazionale preoccupata delle violazioni dei diritti fondamentali. L’affermazione di poteri “contro-rivoluzionari” in Egitto e Libia sono due chiari esempi di come la sola deposizione della precedente leadership non sia sufficiente per alimentare una nuova fase democratica. La posizione strategica geografica e la ricchezza di materie prime fondamentali per il mercato estero, non consentono lo sviluppo di una lunga fase transitoria del cambio di potere. Si aggiunga anche il fatto che un lungo periodo di autoritarismo possa improvvisamente tramutarsi nel suo contrappunto, dopo solo una relativamente breve fase di proteste e repressioni (Iraq e Sudan). L’elemento democratico, insito in ogni cultura e società, deve essere studiato, compreso e applicato attraverso un processo complesso insostituibile che, se interrotto, fatica a riprendere dal punto interrotto. In futuro, un passaggio fondamentale (oltre che una profonda riflessione) dovrà essere fatto dalle democrazie occidentali simpatizzanti verso il rovesciamento dei regimi più oppressivi in Nord Africa e Medio Oriente. Anziché supportare teorie politicamente infondate, quali “l’esportazione della Democrazia nel mondo” (Iraqi Freedom Operation) o giuridicamente discutibili come “l’intervento umanitario armato” (Prima Guerra Civile libica), l’Occidente dovrebbe rivedere la propria politica estera e commerciale con quegli stati totalitari dell’area MENA. Un maggiore supporto diplomatico alla transizione non-violenta del potere, che di fatto risponderebbe alle più basilari “richieste” della Primavera Araba (libertà sociale e diritti politici), potrebbe contribuire ad una stabilizzazione sociale ed economica dei paesi dell’area Mediorientale e Nordafricana. Essi sono partner commerciali imprescindibili, ma anche luoghi da cui partire per una dottrina di politica estera europea “più eticamente sostenibile”, che al tempo stesso sostenga uno sviluppo della realtà politica locale. In questo senso, la possibilità di accogliere e formare la nuova generazione/classe dirigente araba costituirebbe un punto vitale per “concretizzare” la prossima stagione di rivendicazioni politiche. Tale strategia, in ambito geopolitico, potrebbe risultare vincente anche in un’ottica di “dialogo fra le culture” (dichiarazione di Seyyed Mohammad Khātami presso le Nazioni Unite) e non più di “scontro tra le civiltà” (teoria di Samuel Huntington). ![]()
a cura di Lorenzo Giordano Sin dalla sua nascita, consacrata il 14 maggio del 1948, fu chiaro che ad uno stato che contava, in base al primo censimento, poco meno di un milione di abitanti e si estendeva per circa 22.000 km2, occorresse di più di un esercito regolare ben equipaggiato per far fronte ad un vicinato mediorientale turbolento, su cui incombeva l’irrisolta questione palestinese. La contingente necessità di porre al centro delle strategie di Israele la dimensione securitaria richiedeva il supporto di un’agenzia d’intelligence che fosse in grado di individuare e neutralizzare le minacce provenienti dal mondo arabo-musulmano. Fondato nel dicembre 1949, il Mossad, o “Istituto per l'intelligence e servizi speciali”, è la struttura civile d’intelligence direttamente coinvolta nelle operazioni all’estero di prevenzione e repressione di quelle attività che possano intaccare la sicurezza dello Stato e della società israeliana. La sua capacità di infiltrarsi nel cuore dei territori nemici e la perizia, unita alla brutalità, con cui ha portato a termine missioni critiche hanno reso il Mossad una componente rilevante nel quadro delle tattiche di politica estera di Israele e hanno fornito a Tel Aviv una sorta di legittimazione nell’ambito della “diplomazia della coercizione”. Oggi, il raggio d’azione ricoperto dal Mossad è figlio della postura assunta da Israele nel quadrante regionale e si snoda lungo la direttrice della lotta all’estremismo islamista, rappresentato da Hamas – organizzazione radicale palestinese che governa de facto la Striscia di Gaza – e dall’ala paramilitare di Hezbollah – organizzazione sciita libanese. L’altro filone gravita attorno all’escalation delle tensioni con l’Iran, soprattutto all’indomani dell’accordo definitivo sul nucleare iraniano, raggiunto a Vienna nel luglio 2015, che riconoscerebbe a Teheran il suo diritto di arricchimento dell’uranio entro i limiti stabiliti dall’intesa (3,67% per i successivi 15 anni). Inoltre, l’Iran sciita di Khamenei e Rouhani supporterebbe, nel contesto dell’“asse della resistenza” in chiave anti-israeliana, le forze di Hezbollah, non soltanto nell’area libanese meridionale confinante con il nord di Israele, ma anche in Siria, in cui Hezbollah è attivo sin dallo scoppio della guerra civile, a sostegno del regime di Bashar al Assad. Rientrano in quest’ottica gli omicidi mirati – o targeted killings –, fra il 27 e il 30 novembre scorso, dello scienziato Mohsen Fakhrizadeh e del generale Muslim Shahdan, che hanno esacerbato ulteriormente le relazioni fra Teheran e Tel Aviv. Fakhrizadeh, padre del programma nucleare iraniano, sarebbe stato ucciso alla periferia di Teheran da una mitragliatrice montata su un furgone e controllata da remoto a circa 150 metri di distanza; mentre Shahdan, comandante del Corpo delle Guardie della rivoluzione islamica – o pasdaran, “guardiani”, dal persiano –, sarebbe stato colpito da un drone mentre attraversava il confine tra Iraq e Siria nei pressi della cittadina di Qaim. In particolare, quest’ultimo deteneva il controllo sugli approvvigionamenti di missili e armamenti leggeri dai depositi in Iraq alle basi operative dei pasdaran e di Hezbollah sulle alture del Golan – zona parzialmente occupata da Israele sin dalla Guerra dei Sei Giorni (1967) ma rivendicata dalla Siria – e nelle basi a sud di Damasco. In entrambe le circostanze, secondo Teheran, il mandante sarebbe Israele. L’esecutore, invece, i servizi segreti del Mossad. In questo caso, le considerazioni etiche e giuridiche che vedrebbero i targeted killings come esecuzioni extragiudiziali portate avanti, per di più, al di fuori di un conflitto armato internazionale rivestono un ruolo marginale se rapportati ai vantaggi strategici e tattici per Israele. Le operazioni condotte dal Mossad, con l’ausilio fondamentale dell’intelligenza artificiale, oltre al violento impatto simbolico legato all’eliminazione dei vertici dei corpi militari e dei leader dell’area scientifica, sono funzionali proprio all’oggettivo indebolimento delle strutture di comando iraniane, scosse, in considerazione degli attacchi, da un profondo vuoto di potere e costrette ad impiantare reti di sicurezza che impongono costi economici elevati. Inoltre il ricorso agli omicidi mirati delinea una prassi in grado di minimizzare il coinvolgimento del governo e le proprie perdite militari. Tale prassi, distante rispetto all’uso convenzionale della forza, consente a Israele di ingaggiare dispute regionali a bassa intensità e non essere trascinato in un conflitto armato tradizionale, forte della remota probabilità che l’Iran si muova nella direzione di una guerra su larga scala contro Tel Aviv, su cui si distende l’ombra di Washington che, nonostante abbia in parte delegato allo Stato ebraico i propri interessi strategici nel teatro mediorientale, mantiene viva una prolifica cooperazione militare e nel campo dell’intelligence, come dimostrato in occasione dell’eliminazione del capo dei pasdaran Qassem Soleimani (3 gennaio scorso), portata a compimento mediante un drone MQ-9 “Reaper” dagli Stati Uniti, a cui il Mossad avrebbe fornito informazioni circa gli spostamenti del generale iraniano. Tali operazioni, imperniate sulla personalizzazione del nemico – assieme alle esplosioni dello scorso luglio nel sito nucleare di Natanz, unico impianto destinato ad attività di arricchimento dell’uranio – sarebbero in linea con il disegno di Israele non tanto di scatenare un conflitto nel breve periodo con Teheran, quanto piuttosto di portarlo al tavolo dei negoziati e ridiscutere le sue capacità nucleari: un’opzione di cui l’Iran, difficilmente, sarà disposto a privarsi. Un Iran tormentato da un senso di “solitudine strategica” che, nell’ultimo decennio, lo ha accompagnato in Medio Oriente, alla luce dell’instabilità dei suoi alleati (Siria e Iraq), della convergenza Iran-Arabia Saudita e della presenza americana in Afghanistan. Sul fronte della lotta al terrorismo, Israele mira ad evitare scenari futuri simili a quelli di inizio millennio, contrassegnati dalla seconda Intifada (2000) – la rivolta delle popolazioni arabe dei territori palestinesi occupati da Israele – e dalla disastrosa guerra contro Hezbollah (2006), a seguito della cattura di due soldati israeliani. Nonostante l’escalation militare con Hamas si sia relativamente attenuata, difficilmente il Mossad, che storicamente si è sempre elevato a protettore delle popolazioni ebraiche, allenterà la sua morsa sulla striscia di Gaza, rimarcando la sovranità israeliana. Allo stesso tempo, gli omicidi mirati dei vertici di Hezbollah seminano disorganizzazione e mancanza di coordinamento all’interno di un’organizzazione che fa della gerarchia uno dei punti di forza. In questo modo, l’impiego dei servizi segreti del Mossad permette di pareggiare la natura asimmetrica degli scontri tra Israele e i movimenti terroristici, i quali non ottengono una risposta indiscriminata – che porterebbe ad una radicalizzazione del conflitto – da parte dello Stato ebraico, bensì attacchi selettivi, catalizzatori di legittimazione per una diplomazia coercitiva che conferisce una “licenza di uccidere” in piena regola. ![]()
a cura di Riccardo Allegri Nel corso delle scorse settimane, sono ripresi i negoziati tra i Talebani ed i rappresentanti delle forze armate statunitensi in Afghanistan. Tali trattative vanno ad inserirsi nel lento processo di pace che, nelle intenzioni dei protagonisti, dovrà porre fine ad un conflitto che perdura ormai da quasi 20 anni. Il Generale Mark Milley si è incontrato con una delegazione talebana a Doha, in Qatar, ove questi ultimi hanno un ufficio di rappresentanza. L’obiettivo del Capo dello Stato Maggiore Congiunto statunitense era quello di persuadere la controparte a porre fine agli attacchi indiscriminati in modo tale da consentire una ripresa del parallelo negoziato in corso tra i Talebani ed il governo di Kabul. Tale negoziato non sta procedendo con la rapidità sperata a causa di disaccordi su questioni procedurali. Le parti hanno però confermato l’intenzione di riprendere i colloqui nel mese di gennaio, dopo aver raggiunto un compromesso. Milley, dal canto suo, è stato costretto ad intervenire a causa di una recrudescenza delle ostilità tra i belligeranti e, subito dopo essersi incontrato con i rappresentanti dei Talebani, ha avuto un colloquio con gli emissari del governo afgano. L’ondata di violenza che ha investito il paese, già vessato da quarant’anni di conflitti, ha portato morte e distruzione in numerose province. Oltre ad infrastrutture rilevanti come ponti o vie di comunicazione, i Talebani hanno preso di mira anche alcune figure di spicco all’interno delle amministrazioni locali. Ciò riflette un cambio di strategia da parte degli insorti, i quali hanno momentaneamente cessato di prendere di mira centri abitati e basi militari, concentrandosi sugli esponenti del governo e sulle forze di sicurezza afgane. Suddetto cambiamento parrebbe essere il frutto di un accordo tra le forze armate americane ed i Talebani volto a produrre una significativa riduzione della violenza. Non è un caso che, nonostante gli insorti abbiano fatto registrare il più alto numero di attacchi dall’inizio del conflitto, nel 2020 il numero di vittime civili sia stato insolitamente basso. Anche tra i soldati americani non si sono registrate perdite elevate. Ma come si è giunti a questi risultati, seppur controversi? A tal proposito, sembra che il 2020 sia stato un anno piuttosto proficuo. A febbraio è stata resa nota la firma di un accordo tra Baradar, il leader dei Talebani, e Zalmay Khalizad, in rappresentanza del governo degli Stati Uniti. Durante la cerimonia per il raggiungimento dell’accordo era presente anche il Segretario di Stato Mike Pompeo, il quale ha avuto modo di incontrare gli insorti. Si tratta del primo colloquio tra una delegazione di Talebani ed un membro del gabinetto americano. L’accordo di febbraio prevedeva il graduale ritiro del contingente statunitense entro 14 mesi. In cambio gli insorti avevano accettato di tagliare qualunque contatto con Al-Qaeda ed altre organizzazioni terroristiche attive nella regione. Inoltre, in base ai termini concordati, i Talebani avrebbero dovuto sedersi al tavolo delle trattative con gli altri gruppi della frammentata società afgana, compreso il governo di Kabul, mai riconosciuto come legittimo dai ribelli. Washington avrebbe comunque mantenuto un contingente armato numericamente limitato con lo scopo di combattere ciò che rimaneva dell’ISIS e di Al-Qaeda. Inoltre, l’accordo prevedeva uno scambio di prigionieri. Il governo di Kabul avrebbe liberato 5.000 combattenti Talebani mentre questi ultimi avrebbero rilasciato 1.000 soldati afgani catturati nel corso delle azioni di guerriglia. Rimaneva da chiarire se il governo afgano avrebbe accettato tale scambio, considerando che Kabul non aveva preso parte ai negoziati. In effetti la questione si era rivelata piuttosto spinosa, ma alla fine le autorità afgane avevano acconsentito alla graduale liberazione dei prigionieri. Gli insorti avevano celebrato la firma dell’accordo descrivendolo sui social network come una vittoria. In alcuni casi si erano spinti al punto di affermare di non sentirsi vincolati dalle condizioni del trattato sottolineando come esso servisse soltanto per consentire il ritiro del contingente americano prima della ripresa delle ostilità nei confronti del governo afgano. Dal canto loro, anche gli Stati Uniti non erano esenti da sospetti. Alcune personalità vicine al governo di Kabul avevano espresso le proprie preoccupazioni rispetto all’accordo, considerato una copertura diplomatica che potesse giustificare il ritiro delle truppe senza tener conto della reale situazione bellica nel paese. Inoltre, al momento della firma, era in corso un’aspra disputa interna al governo afgano su chi avesse effettivamente vinto le elezioni. Se da un lato Ashraf Ghani era stato proclamato presidente del paese, dall’altro il suo oppositore, Abdullah Abdullah, ed i suoi sostenitori avevano rifiutato di riconoscere il risultato della consultazione elettorale. Proprio pochi giorni prima dell’inizio dei colloqui tra le parti, dunque, i negoziati erano già in pericolo. Gli insorti, infatti, si erano rifiutati di sedere al tavolo delle trattative con i rappresentanti di Kabul poiché, stando alle loro stesse parole, la delegazione del governo afgano non era rappresentativa di tutti gli interessi della società. Il portavoce del presidente Ghani aveva respinto tali insinuazioni ma non era chiaro se Abdullah ed i suoi seguaci sostenessero il processo di pace. La disputa tra i due rivali era stata risolta con un accordo sulla condivisione del potere. Inoltre, Abdullah era stato nominato responsabile dei negoziati con i Talebani. Parallelamente, erano cominciati i colloqui per il rilascio dei prigionieri, con una delegazione di insorti che si era recata a Kabul. Era la prima visita ufficiale di un gruppo talebano nella capitale sin dal 2001, quando la guerra era cominciata. Il governo afgano non era per niente propenso a liberare alcuni Talebani, in quanto essi erano considerati molto pericolosi per la stabilità del paese. Soltanto dopo il parere positivo di una loya jirga, ovvero una riunione tra i capi dei diversi clan presenti in Afghanistan, Ghani aveva acconsentito a procedere con lo scambio di detenuti. Nello stesso momento, gli Stati Uniti avevano ridotto sensibilmente il proprio contingente militare, nel rispetto dei termini dell’accordo di febbraio. Infatti, entro gennaio saranno 2.500 i soldati statunitensi in Afghanistan, contro i 13.000 dell’anno passato. L’ingresso di Abdullah nell’esecutivo afgano, la liberazione dei prigionieri ed il contestuale progressivo ritiro delle forze d’occupazione avevano dato nuovo slancio al processo di pace ed il 12 settembre, le trattative tra Kabul ed i Talebani erano cominciate, arrestandosi però quasi immediatamente. Dopo l’interruzione forzata a cui si è fatto riferimento in precedenza, il 3 dicembre le parti hanno trovato un accordo sulle regole per portare avanti il negoziato. In questo contesto si inserisce l’intervento del Generale Milley per salvaguardare il processo di pace alla luce di una recrudescenza degli scontri. I belligeranti, dunque, rimangono su posizioni divergenti e gli USA sono ansiosi di abbandonare l’Afghanistan. Al momento, tutto è ancora possibile. ![]()
a cura di Angela D’Ambrosio Dal 1986 l’Uganda ha avuto sempre un unico vincitore alle elezioni presidenziali: Yoweri Museveni, alla guida del paese da 34 anni. Protagonista di elezioni quasi mai trasparenti e fautore di riforme costituzionali (una nel 2005 e l’altra nel 2017) volte a garantirgli il titolo di presidente eliminando il limite d’età o di mandati, l’attuale presidente continua a adoperare oppressione e violenza quali strumenti per fronteggiare i candidati rivali alle prossime elezioni previste per gennaio 2021. Quando, nel 1986, Museveni acquisì il controllo del potere in Uganda, lo fece evidenziando la necessità di interrompere quella che era (ed è evidentemente ancora oggi) una tradizione di forti personalità che detengono il potere in alcuni stati africani senza dare spazio al progresso democratico e alla sua vera attuazione. Di fatti, dopo 34 anni alla guida del paese, Museveni si presenta di nuovo, per la sesta volta, come l’unico candidato alle presidenziali del suo partito, il Movimento di Resistenza Nazionale (NRM). Nel 1986, il paese martoriato dalla precedente guerra civile era pronto a credere al programma di politiche pacifiste e riformiste messe in campo dal nuovo presidente. Tuttavia, dopo 34 anni di presidenza in cui l’Uganda ha assistito costantemente ad elezioni truccate e oppressione dell’opposizione, oggi qualcosa sembra muoversi nel contesto elettorale del Paese. Sin dal principio della campagna elettorale, il presidente Museveni ha dichiarato apertamente di esser pronto a prendere provvedimenti contro chiunque avesse ostacolato un pacifico processo elettorale, accusando paesi terzi di intromettersi nelle elezioni e dimostrando, con azioni chiare ed inequivocabili, quanto egli non sia pronto ad affrontare i candidati rivali senza ricorrere a mezzi di oppressione, talvolta anche violenti. Più di un anno prima delle nuove elezioni, nel mese di novembre 2019, il Presidente ha chiuso ufficialmente il processo di registrazione elettorale dei nuovi cittadini aventi diritto di voto. Così facendo, alcuni membri dell’opposizione hanno stimato che circa un milione di giovani ugandesi non potranno esprimere la propria preferenza alle prossime elezioni presidenziali. Mentre questa scelta è parzialmente giustificata dalla mancanza di tempo e strumenti da parte della Commissione Elettorale Nazionale dell’Uganda, altri provvedimenti adottati da Museveni non lo sono, e sembrano addirittura essere gli unici modi in cui l’attuale Presidente riesca a dare visibilità alla sua campagna elettorale. In questo contesto spicca, tra i candidati avversari a Museveni, Robert Kyagulanyi, aka Bobi Wine, giovane cantante e politico ugandese. Kyagulanyi, arrestato il 3 novembre 2020 subito dopo esser stato nominato candidato alle elezioni presidenziali 2021, ha presto compreso cosa significa essere un candidato presidenziale contro Museveni. L’episodio del 3 novembre, infatti, è solo il primo di una serie in cui la violenza ha fatto da padrone nel contrastare la campagna elettorale di Bobi Wine e i suoi numerosi sostenitori. Il 18 novembre, a seguito di un nuovo arresto ai danni di Kyagulanyi, accusato di non rispettare le norme anti covid-19, gruppi di suoi sostenitori si sono riversati nelle strade di Kampala per protestare e richiedere la scarcerazione del giovane candidato. La risposta è arrivata brutale e violenta da parte delle autorità locali, con numerosi arresti e più di 45 morti, segnando uno dei giorni più tristi dall’inizio delle campagne elettorali. Il 2 dicembre, Bobi Wine si è visto costretto a dover sospendere per un breve periodo la sua campagna elettorale data l’enorme violenza adottata dalle forze dell’ordine contro il suo staff ed i suoi sostenitori. Con il pieno controllo di forze di polizia, esercito e Commissione Elettorale, l’attuale Presidente costituisce l’ostacolo principale al tanto acclamato pacifico processo elettorale. I candidati ed i partiti all’opposizione si trovano spesso in situazioni nelle quali gli viene negato l’accesso ai media nazionali durante la campagna elettorale, e pur non essendo questo uno strumento violento di repressione, rappresenta pur sempre un ostacolo a quello che dovrebbe essere uno dei più importanti momenti in quella che si ritiene una democrazia. Non sorprende sapere che non ci saranno osservatori internazionali alle prossime elezioni nel Paese, e che gli osservatori locali stanno agendo con grande prudenza, viste le condizioni di violenza in cui le elezioni si svolgeranno. L’Unione Europea ha infatti dichiarato che nessun risultato è stato ottenuto a seguito delle raccomandazioni fatte per le tornate elettorali degli anni precedenti in Uganda, e non ce ne saranno di nuove per queste prossime elezioni. A conti fatti, Museveni sembra essere il vincitore annunciato delle prossime elezioni e le speranze in un cambiamento del processo elettorale sono pressoché vane. Tuttavia, diversi fattori vanno analizzati per capire cos’è che si sta muovendo, come detto precedentemente nell’articolo, nel contesto politico ugandese. Se è vero, infatti, che sarà difficile per uno tra i dieci candidati all’opposizione vincere contro Museveni, è anche vero che la campagna elettorale di Bobi Wine e l’enorme supporto che quest’ultimo sta ricevendo dalla popolazione ugandese sta mettendo in luce le debolezze del partito guidato dall’attuale Presidente e le nuove esigenze della popolazione. A dispetto di ciò che Museveni aveva previsto, la popolazione ugandese ha dato vita ad un movimento che chiede a gran voce di essere coinvolto maggiormente nella vita politica del paese e, soprattutto, esige una transizione democratica che sia trasparente e genuina. In questo contesto, Bobi Wine si pone alla guida di tale movimento, introducendo una campagna che sfida apertamente le vecchie politiche conservatorie del National Resistance Movement e prefissa l’ottenimento delle piene libertà come obiettivo ultimo del cambiamento politico. Pubblicizzata fortemente tramite l’utilizzo dei social media, la campagna di Bobi Wine lascia indietro quella di Museveni, che fatica a adattarsi alle nuove strategie tecnologiche di comunicazione, ma soprattutto a comprendere che gli ideali dell’NRM sono ormai obsoleti e mancano di nuove spinte ispiratrici, capaci di attirare la giovane popolazione ugandese. Per quanto lontana sembri essere la vittoria di Bobi Wine, o di un altro candidato, alle prossime elezioni ugandesi, è invece straordinariamente vicina la voglia di un cambiamento politico all’interno del paese: la popolazione ugandese è pronta a voltare pagina. ![]()
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