a cura di Carlo Comensoli e Miriam Viscusi, Elections Hub
Il prossimo mercoledì i cittadini olandesi saranno chiamati alle urne per il rinnovo della Camera dei Rappresentanti. Si tratta del ramo degli Stati Generali (questo il nome del Parlamento dei Paesi Bassi con sede all’Aja) che ha l’iniziativa di legge e che, tra le altre funzioni, vota la fiducia al governo. La camera è composta da 150 seggi attribuiti con un sistema proporzionale puro basato sui risultati delle elezioni legislative. Vista la legge elettorale e la partecipazione di un alto numero di partiti (quest’anno ben 37 partiti parteciperanno alle elezioni), il governo è normalmente il risultato di un accordo di coalizione. Il Primo Ministro viene nominato con decreto reale in base alla maggioranza alla Camera Basse, che vota poi la fiducia al governo. A differenza della Camera, il Senato è composto da membri eletti da rappresentanti provinciali; può esercitare il diritto di veto ma non può proporre disegni di legge o emendamenti. Gli Stati Generali si riuniscono in sessione congiunta solo una volta ogni dodici mesi in occasione dell’inaugurazione dell’anno parlamentare, momento celebrato in genere da un discorso del monarca. Il voto del 2017 aveva determinato una coalizione di governo di centrodestra formata dal Partito Popolare per la Libertà e la Democrazia (VVD), di cui è segretario il Primo Ministro uscente Mark Rutte, Appello Cristiano Democratico (CDA), partito che esprime il Ministro delle Finanze Wopke Hoekstra, l’Unione Cristiana (CU) ed il partito liberale centrista D66. Stando ai sondaggi a una settimana dal voto, la prossima legislatura vedrebbe comunque una maggioranza di centrodestra. Infatti, secondo una recente proiezione riportata da Peilingwijzer, il voto del 17 marzo prossimo dovrebbe portare a un incremento delle preferenze per il VVD, nonostante la recente crisi di governo e le dimissioni dello scorso 15 gennaio. Secondo questi sondaggi, infatti, il partito guidato dal Primo Ministro uscente sarebbe intorno al 24% delle preferenze, quasi tre punti percentuali in più rispetto alle scorse legislative del 2017. Sempre all’interno della coalizione di governo, secondo le ultime stime, la CDA vedrebbe l’11% circa dei consensi, risultato che se fosse confermato alle urne registrerebbe un leggero calo rispetto a quello di cinque anni fa. Invece, il partito liberale europeista D66 nei sondaggi è dato in calo intorno al 9,7%, due punti in meno rispetto al voto del 2017, mentre la CU dovrebbe consolidare il proprio elettorato intorno al 4% delle preferenze. Per quanto riguarda i partiti dell’opposizione, il Partito della Libertà (PVV) di Geert Wilders, conservatore ed euroscettico, così come cinque anni fa sarebbe il secondo per numero di consensi, stimati intorno al 12%. Per il partito di estrema destra Forum per la Democrazia (FvD) guidato da Thierry Baudet, invece, le legislative del 2021 non si prospettano un successo: le battaglie interne al partito probabilmente influiranno sui risultati elettorali con un calo dei consensi. Il FvD attualmente occupa due seggi alla Camera, e secondo i sondaggi di queste settimane alle prossime legislative non dovrebbe ottenere più del 3% delle preferenze. Il voto del 2017 aveva visto un exploit del PVV e al contempo l’implosione del centrosinistra, area in cui il Partito del Lavoro (PvdA) era crollato dal 24,8 al 5,7%. Dopo quattro anni, i consensi per il PvdA sarebbero in leggero aumento, intorno all’8%. Tuttavia, qualora questo risultato fosse confermato, non gli permetterebbe comunque di entrare a far parte della maggioranza di governo. Lo stesso vale per il Partito Socialista (SP), dato intorno al 7%, due punti percentuali in meno rispetto a quattro anni fa. Nonostante le ricadute dello scandalo dei sussidi sull’opinione pubblica e la criticata gestione della pandemia, una vittoria della sinistra è quindi improbabile. Alla luce dei possibili scenari post-voto, si prefigura una nuova coalizione di centrodestra al governo guidata da Mark Rutte, per il quale sarebbe il quarto mandato come Primo Ministro. Il fattore che potrebbe eventualmente determinare una svolta rispetto alla legislatura uscente è l’ingresso del PVV nella maggioranza. Nonostante fosse il secondo gruppo per numero di seggi alla Camera dei Rappresentanti, il partito di Wilders quattro anni fa aveva preferito rimanere all’opposizione. Rispetto alle scorse elezioni del 2017, il Partito della Libertà ha presentato un programma di cinquanta pagine più articolato; durante la campagna elettorale, inoltre, Wilders si è reso disponibile a formare una coalizione di governo con i partiti che risulteranno vincitori alle urne. Da un lato, nonostante le evidenti divergenze ideologiche, questo potrebbe eventualmente favorire la formazione di una maggioranza più solida. Ciononostante, durante la campagna elettorale i rappresentanti dei partiti rappresentativi della maggioranza governativa, compreso Rutte, hanno chiaramente escluso la possibilità di un accordo di governo con Wilders. Se da un lato, quindi, a una settimana dal voto si prospetta un nuovo esecutivo guidato da Mark Rutte, l’incognita più grande rimane la possibile coalizione di governo che dovrà lavorare su temi delicati come la gestione del post-pandemia, la ripresa economica, l’utilizzo dei fondi del Recovery plan e la crisi ambientale. a cura di Erika Frontini Recentemente, si è ripreso a parlare di limitazioni alla libertà di espressione in Ungheria. A scatenare il dibattito è stata la notizia, lo scorso 15 febbraio, della fine delle trasmissioni radio di Klubrádió, secondo molti l’ultima emittente indipendente nel Paese governato da Viktor Orbán. Nel settembre 2020, l’Autorità ungherese per i media ha deciso di non rinnovare la licenza di Klubrádió per via di alcune violazioni amministrative. L’emittente - che già in passato aveva subito simili attacchi ed era stata confinata alla sola capitale - si è appellata al tribunale di Budapest lamentando di essere vittima di discriminazioni sulla base di motivazioni politiche, ma la corte ha dato ragione all’Autorità. La questione non è di certo passata inosservata in Europa, incluso a Bruxelles, da dove la Commissione europea ha inviato una lettera al Governo ungherese chiedendo che la radio possa continuare ad usufruire della frequenza fin quando la decisione finale non diventerà vincolante. A pochi giorni di distanza da tali avvenimenti, la Commissione ha avviato una nuova procedura d'infrazione contro l'Ungheria per la mancata implementazione della sentenza con cui, nel giugno 2020, la Corte di giustizia europea aveva bocciato una legge adottata dal Parlamento ungherese nel 2017, la quale richiede alle ONG che ricevono fondi dall’estero di farne esplicita dichiarazione. Secondo la Corte, tale legge viola le norme Ue sulla libera circolazione dei capitali, il diritto alla protezione dei dati, nonché la libertà di associazione. Tuttavia, forse non tutto è perduto: Klubrádió potrebbe ottenere di nuovo la frequenza, essendo attualmente l’unica partecipante alla gara per la ri-assegnazione della stessa, mentre il Governo ungherese ha dichiarato che la legge sulle ONG sarà modificata. D’altra parte, se tali crisi circoscritte sembrano risolvibili, la situazione generale in Ungheria per quanto riguarda democrazia e stato di diritto appare molto più complessa. Da anni il Paese - un tempo capofila nel processo di adesione all’Ue - è frequentemente citato come caso esemplare di regressione democratica in uno Stato membro. Tale inversione di tendenza si è manifestata a partire dall’ascesa al governo di Fidesz, il partito guidato da Orbán, nel 2010. Forti della maggioranza assoluta nell’Assemblea nazionale, i tre successivi governi Orbán hanno intrapreso una progressiva trasformazione dell’assetto costituzionale ed istituzionale del Paese, concentrando il potere nell’esecutivo ed indebolendo significativamente il sistema di checks and balances. Ciò si concretizza in continue pressioni sul potere giudiziario, un forte controllo sui media e vari tentativi di depoliticizzare la già fragile società civile (tra i quali rientra la già citata legge anti-ONG). Nel 2017, le autorità ungheresi si sono spinte fino a minacciare la libertà accademica costringendo, di fatto, la Central European University (CEU) a spostare le proprie attività a Vienna. Proprio in seguito a tale avvenimento, il Parlamento europeo ha attivato la procedura all’art. 7 del Trattato sull’Unione Europea, che prevede la possibilità di sanzionare uno Stato membro in cui si verifichi una violazione grave e persistente dei valori fondamentali dell’Ue, tra i quali figurano democrazia e stato di diritto. Fino a quel momento, la risposta delle istituzioni europee ai fatti ungheresi era stata debole e parziale: la Commissione ha aperto diverse procedure d’infrazione, concentrandosi su singole questioni problematiche e solo indirettamente legate a trasgressioni dei principi democratici su cui l’Ue si fonda, in quanto formalmente non ha la competenza di sanzionare direttamente violazioni sistematiche dei valori fondamentali. Per esempio, nel 2011 la Commissione ha portato una legge ungherese che stabiliva il pre-pensionamento coatto dei giudici (vista come un tentativo del Governo di liberarsi di magistrati sgraditi) all’esame della Corte di giustizia, sulla base della presunta violazione delle norme Ue anti-discriminazione. Come in altri casi simili, la Corte ha dato ragione alla Commissione, ma si è trattato di una vittoria apparente: l’Ungheria ha implementato la sentenza cancellando la legislazione incriminata, ma - complice la lunghezza della procedura Ue - molti giudici non hanno potuto assumere nuovamente le cariche precedenti perché queste erano già state occupate. D’altronde, l’attivazione dell’art. 7 non ha alterato di molto la situazione: è infatti necessario un voto all’unanimità degli Stati membri (escluso il Paese interessato dalla procedura) per adottare sanzioni. Prospettiva pressoché improbabile, dato che, oltre all’Ungheria, anche la Polonia è attualmente oggetto dello stesso procedimento per ragioni molto simili. E’ l’esemplificazione di un dilemma esistenziale dell’Ue: secondo i requisiti di adesione, solo i Paesi dotati di stabili istituzioni democratiche possono entrare a far parte dell’Unione. Tuttavia, le istituzioni non dispongono di strumenti adeguati ad assicurare il rispetto degli stessi principi democratici una volta che uno Stato è membro a pieno titolo. Tale criticità è nota all’interno dell’Ue, tanto che negli ultimi anni sono state avanzate numerose proposte per rafforzare la capacità dell’Unione di preservare la propria democrazia. Alcune di queste hanno avuto un seguito, come l’introduzione di un report annuale sullo stato di diritto in ciascuno Stato membro, redatto dalla Commissione a partire dal 2020. Si tratta di un prezioso strumento di monitoraggio e prevenzione, che potrebbe fungere da deterrente rispetto a potenziali trasgressioni future. Ciononostante, esso risulta poco utile in situazioni avanzate come quelle ungherese e polacca - se non per il fatto di continuare a mantenere vivo il dibattito sui problemi relativi a tali Stati, stessa funzione ormai assunta dall’art. 7. Diverso è il discorso per il meccanismo volto a legare i fondi europei al rispetto dello stato di diritto, la cui adozione è stata fortemente ostacolata proprio da Ungheria e Polonia. Il veto posto dai due Paesi ha fatto sì che la versione finale dello strumento - che non verrà applicato fin quando la Corte di giustizia europea non avrà dato un parere positivo sulla sua legittimità - sia molto più diluita rispetto all’idea originale. Malgrado ciò, si tratta comunque di un segnale della volontà dell’Unione di proteggere i propri valori fondanti, nonché di un punto di partenza verso possibili azioni future. Tuttavia, se si vogliono ottenere risultati davvero significativi, saranno necessarie una maggiore reattività da parte delle istituzioni Ue e una forte volontà politica degli Stati membri. ![]()
A cura di Simone Biggio, Osservatorio sull'Unione europea
Nell’ultimo ventennio il cambiamento climatico ha intensificato lo scioglimento dei ghiacci dell’Oceano Artico, creando nuove opportunità di sviluppo per gli Stati Artici. Il disgelo delle acque artiche ha favorito l’apertura di nuove rotte marittime che, nei prossimi anni, potrebbero veicolare i flussi del commercio globale. Tra queste rotte commerciali la Rotta del Mare del Nord (NSR) è quella più interessante dal punto di vista dell’Unione Europea. Infatti, la NSR permette di risparmiare alle navi cargo che viaggiano tra Europa ed Asia dai 10 ai 15 giorni di navigazione, rispetto alla tradizionale rotta di Suez, passando lungo la costa artica della Russia[1]. Le Potenzialità dell’Artico L’apertura di questa rotta commerciale marittima assume un’importantissima connotazione strategica non solo perché permette di accorciare i tempi di navigazione, ma anche per via dei ricchissimi giacimenti di idrocarburi ancora inutilizzati presenti nei fondali dell’Artico. Secondo la revisione dello US Geological Survey del 2008, la quantità di risorse energetiche presenti nel fondale oceanico dell’Artico ammonta approssimativamente a 90 miliardi di barili di petrolio, 1700 bilioni di piedi cubici di gas naturale e 44 miliardi di barili di GNL, che corrispondono al 13% dei giacimenti di petrolio e al 30% delle riserve di gas naturale mondiali[2]. La stragrande maggioranza di queste risorse si trova sotto la giurisdizione della Russia, all’interno della sua zona economica esclusiva, definita dall’art. 5 della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare[3]. Attraverso il controllo della rotta e lo sfruttamento delle risorse naturali, la Russia mira ad aumentare la sua influenza a livello internazionale con l’intento di ottenere nuovamente lo status di great power, perduto dopo la fine della Guerra Fredda. L’Alleanza Sino-Russa Nel gennaio 2018 la Repubblica Popolare Cinese ha annunciato per la prima volta la sua politica artica all’interno di un White Paper, in cui si evidenzia la volontà della Cina di investire nello sfruttamento delle risorse energetiche dell’Artico e nell’utilizzo della Rotta del Mare del Nord, ribattezzata Polar Silk Road[4]. Per questo motivo Russia e Cina hanno iniziato una stretta collaborazione economica, che permette alla Russia di sopperire alle sanzioni economiche, imposte dall’Occidente in seguito alla Guerra di Crimea, e alla Cina di avere un ruolo privilegiato nello sviluppo e nell’utilizzo della rotta per soddisfare la necessità economica di una diversificazione dell’importazione di energia[5]. Se l’alleanza sino-russa dovesse consolidarsi nel tempo potrebbe costituire una minaccia per la stabilità politica ed economica della vicina Unione Europea e più in generale dell’Occidente. Attualmente, gli investitori cinesi stanno cercando di siglare accordi bilaterali sia con gli Stati Artici membri dell’Unione Europea, sia con quelli all’interno dello Spazio Economico Europeo (Islanda e Norvegia), per la costruzione di infrastrutture navali preposte allo sviluppo della rotta. Il piano della Cina è quello di stabilire nuove rotte commerciali, sia marittime che terrestri, in modo da svincolarsi dalla dipendenza economica della rotta commerciale passante per gli stretti di Suez e Malacca, dove la forte presenza militare statunitense influenza le mosse strategiche di Pechino. La Politica Artica Europea e il Ruolo dell’Unione Europea L’attuale politica artica dell’Unione Europea risale al 2016 ed è illustrata nella Comunicazione Congiunta della Commissione intitolata: “Politica Europea Integrata per l’Artico”[6]. All’interno del documento lo svolgimento di un ruolo di primo piano nella regione artica costituisce un interesse strategico per l’Unione Europea, motivato non solo dai legami con gli Stati Europei facenti parte del Consiglio Artico (Danimarca, Svezia, Finlandia, Norvegia e Islanda), ma anche da una serie di attività che l’UE conduce in diversi campi, da quello energetico a quello della ricerca e delle osservazioni spaziali, nonché dalle politiche adottate in settori come la pesca e i trasporti, che hanno un impatto sugli sviluppi economici nella regione[7]. La politica artica dell’Unione Europea riprende la Strategia Globale Europea del 2016 ed è incentrata su tre priorità: la lotta ai cambiamenti climatici e la tutela dell'ambiente artico; la promozione dello sviluppo sostenibile nell'Artico in collaborazione con i suoi abitanti e il rafforzamento della cooperazione internazionale sulle questioni riguardanti la regione artica, riaffermando l'importanza del Consiglio artico. Nel dicembre 2019 il Consiglio ha invitato la Commissione e l'Alto Rappresentante a proseguire l'attuazione della politica dell'UE per l'Artico e ad avviare nel contempo un processo volto ad aggiornarla. Di conseguenza, il 20 luglio 2020 la Commissione ha avviato una consultazione pubblica che si è conclusa nel novembre 2020. Il 26 gennaio 2021 la Commissione europea e il Servizio Europeo per l'Azione Esterna hanno pubblicato la sintesi dei risultati della consultazione ha confermato la continua rilevanza di tre priorità: lotta ai cambiamenti climatici e protezione dell'ambiente, promozione dello sviluppo sostenibile e rafforzamento della cooperazione internazionale. Inoltre, secondo i contributori, l'Unione Europea dovrebbe: assumere una strategia di lungo periodo volta a scoraggiare qualsiasi pratica non sostenibile dal punto di vista ambientale; stabilire un legame più forte tra il Green Deal Europeo e la politica artica aggiornata per realizzare lo sviluppo sostenibile dell'Artico e, infine, mantenere la scienza e la ricerca al centro delle politiche artiche. Alla luce di questa consultazione, la Commissione europea e il SEAE riesamineranno il ruolo dell'UE negli affari artici e aggiorneranno la comunicazione congiunta del 2016 su una politica integrata dell'Unione europea per l'Artico entro la fine del 2021[8]. L’orientamento della politica artica europea sembra escludere la possibilità che l’Unione Europea possa partecipare allo sviluppo della Rotta del Mare del Nord, perlomeno non allo stato attuale. Infatti, un avvicinamento con Mosca risulta ormai assai improbabile visto il crescente inasprimento dei rapporti con l’Unione Europea. Una distensione con la Russia costituirebbe un corrispettivo allontanamento dell’Unione Europea dagli Stati Uniti, che condividono con gli Europei una storica alleanza militare e i valori della democrazia, rafforzati dalla recente elezione di Joe Biden alla Presidenza degli Stati Uniti, che ha riacceso la speranza di una rinnovata alleanza con l’Unione Europea. Inoltre, la profonda divergenza tra Russia ed Unione Europea su alcune tematiche fondamentali come la questione climatica e la tutela dei diritti degli indigeni non costituisce un terreno fertile per una collaborazione sullo sviluppo della rotta. Un impegno politico ed economico da parte dell’Unione Europea sullo sviluppo di una rotta commerciale, basata sullo sfruttamento di combustibili fossili, striderebbe con il Green Deal Europeo appena inaugurato dalla nuova Commissione guidata da Ursula Von der Leyen e su cui si basa il Quadro Finanziario Pluriennale (MFF) 2021-2027. [1] SRM-Italian Research Center for Economic Studies (2020), The Arctic Route: Climate Change Impact, Maritime and Economic Scenario, Geo-Strategic Analysis and Perspectives, Napoli, p. 10-12. [2] United State Geological Survey (2008), Circum-Arctic Resource Appraisal: Estimates of Undiscovered Oil and Gas North of the Arctic Circle. [3] ONU (1982), Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare, Giamaica, art.5. [4] The State Council Information Office of People’s Republic of China (2018), China’s Arctic Policy, Beijing. [5] Hossain K. (2019), China’s Bri Expansion And Great Power Ambition: The Silk Road On The Ice Connecting The Arctic, Cambridge Journal of Eurasian Studies, London, p.7. [6] European Commission (2016), An integrated European Union policy for the Arctic, Brussels. [7] Cesca E. (2016), Una politica europea integrata per l’Artico, Affari Internazionali, www.affarinternazionali.it/2016/08/una-politica-europea-integrata-per-lartico/ [8] EU Commission and EEAS (2021), Summary of the results of the public consultation on the EU Arctic policy, Brussels. A cura di Gregorio Staglianò, Responsabile del Programma sulla politica estera italiana
Come previsto dalla legge 124/2007 anche quest’anno è stata pubblicata la “Relazione sulla politica dell’informazione per la sicurezza”, preparata dal Comparto Intelligence - DIS, AISE e AISI -, con la quale il Governo riferisce al Parlamento con un rapporto - non classificato – sulle minacce esterne ed interne, gli equilibri globali e le sfide alla sicurezza, relative al 2020 appena conclusosi. Il documento evidenzia come l’emergenza sanitaria abbia esacerbato e articolato il quadro delle minacce, agendo su più piani – investendo l’economia nazionale e internazionale, condizionando dinamiche geopolitiche e aggravando vulnerabilità sistemiche – e accelerando alcune linee di tendenza – cronicizzando conflitti, evidenziando le difficoltà del multilateralismo, l’antagonismo tra le potenze globali, la corsa al primato tecnologico l’aggressiva competizione economica. Le sfide rilevate dai Servizi si sommano così a quelle variabili che incidono sulla sicurezza dei cittadini e nazionale che già oggi sono in cima alle priorità delle agende politiche: dai cambiamenti climatici agli squilibri demografici, dai piani di ripresa nazionali al posizionamento dell’UE nello scenario globale. Temi, questi, di assoluta rilevanza strategica per l’Italia che quest’anno ha assunto la Presidenza di turno del G20, e che dunque si trova nella posizione di poter utilizzare il forum come cassa di risonanza alle tematiche evidenziate dal Comparto Intelligence nella Relazione annuale che hanno una diretta incidenza sulla nostra politica estera. Sul versante esterno, l’intelligence italiana evidenzia come area prioritaria la regione mediterranea, oggetto di instabilità diffusa a dieci anni circa dalle Primavere Arabe: dalle proteste in Tunisia, alla crisi politica in Algeria, fino alla minaccia delle frange qaediste e legate all’ISIS in Egitto. Cruciale per gli interessi nazionali italiani soprattutto lo scenario libico al quale la Relazione dedica una notevole attenzione in linea di continuità con il passato e a supporto della salvaguardia dell’azione del nostro Paese per stabilizzare e presidiare il quadrante. Dalla protezione dei rifornimenti energetici alle misure di contrasto al terrorismo e all’immigrazione clandestina, la Libia è uno dei dossier più complessi e verso il quale la politica estera italiana dedica più sforzo nell’ottica di pacificare un contesto che si riflette sulla sicurezza regionale e internazionale, alimentando traffici illeciti e circuiti di sostegno al terrorismo jihadista. I negoziati per la stabilizzazione dell’area – secondo l’intelligence – procedono, soprattutto dopo che il 23 ottobre scorso il Comitato Militare Congiunto - formato da cinque rappresentanti dell’Esercito Nazionale Libico (LNA) e da altrettanti membri del governo di Tripoli – riunitosi a Ginevra, sotto l’egida delle Nazioni Unite ha firmato un cessate-il-fuoco permanente, consentendo anche la ripresa delle attività petrolifere. Tuttavia, a ostacolare questa intesa concorrono alcuni elementi che hanno caratterizzato la crisi libica almeno fin dal 2011: l’ostilità manifesta tra i vari gruppi armati che hanno difeso Tripoli e il nodo del loro reintegro negli apparati di sicurezza “nazionali”, lo stillicidio di mercenari – provenienti dalla Russia, dalla Siria, dal Sudan e dal Chad prevalentemente -, gli interessi degli attori “nazionali” coinvolti nel conflitto e il carattere di “procura” che la crisi ha assunto nel momento in cui potenti attori regionali e internazionali hanno cominciato a sostenere – economicamente e militarmente – le due maggiori fazioni in lotta, con Turchia e Qatar al fianco di Tripoli, ed Egitto, Emirati Arabi Uniti e Russia a sostegno della Cirenaica. Il protrarsi della pandemia, delle privazioni di cui soffre la popolazione libica e il delicatissimo mosaico di interessi, gruppi armati e attori coinvolti chiarisce perfettamente il motivo per il quale i nostri Servizi abbiano voluto dedicare attenzione prioritaria all’area. L’Italia sta assumendo un ruolo più definito anche nella regione del Sahel, - con la partecipazione ai lavori del Gruppo Ristretto d’indirizzo politico della Coalizione per il Sahel e con la missione bilaterale Niger-MISIN delle Forze Armate Italiane - in un’area esposta ad un notevole decadimento securitario, crocevia di flussi migratori verso il Mediterraneo. L’analisi dell’intelligence evidenzia il venir meno “dell’anomalia saheliana”, cioè quella tendenza che negli anni passati aveva registrato una sinergia logistico-operativa tra i gruppi armati qaedisti e quelli afferenti allo Stato Islamico, in direzione opposta rispetto ad altri teatri. Il 2020 ha invece visto l’esplodere di un’agguerrita contrapposizione tra i gruppi di diversa affiliazione sul territorio, che si è tradotta in numerosi attacchi terroristici contro postazioni di polizia, avamposti militari e obiettivi stranieri. Una minaccia simile la Relazione la individua anche nel Corno d’Africa, un’area in cui il nostro Paese è impegnato in molteplici attività bilaterali e multilaterali. Si tratta di un teatro che oltre a subire le attività di formazioni qaediste somale come Al-Shabaab o quelle relative alle branche locali dell’ISIS, si è ritrovato al centro dell’interesse di numerosi attori internazionali, come le monarchie del Golfo, la Turchia, la Cina e la Russia, attente a implementare le rispettive partnership nel settore economico ed energetico – basti pensare alla Grand Ethiopian Renaissance Dam, la cui costruzione è terminata proprio nel 2020. L’intelligence ha dedicato particolare spazio e attenzione anche al Libano, realtà di profondo interesse sia per la presenza del contingente UNIFIL a comando italiano, sia per la Missione Militare Bilaterale in Libano-MIBIL, sull’orlo dell’ennesima drammatica crisi finanziaria; all’Iraq, teatro i cui la presenza italiana è testimoniata dall’impiego delle unità italiane nelle missioni internazionali della NATO e nella Coalizione anti-Daesh; all’Iran, alla Giordania, ai Territori Palestinesi, a Israele e ai Paesi del Golfo alla catastrofe umanitaria nello Yemen e all’Afghanistan: teatro in cui circa 900 militari italiani sono impegnati nella missione NATO Resolute Support. Monitorati nella Relazione anche la Russia e lo spazio post-sovietico, aree queste, caratterizzate da numerosi avvenimenti come i primi scontri armati tra Armenia e Azerbaijan (luglio 2020), le proteste post-elettorali in Bielorussia, l’avvelenamento dell’oppositore politico Aleksej Navalny a Tomsk (agosto 2020), il conflitto in Nagorno-Karabakh (settembre 2020) e le tensioni in Kirghizistan (ottobre 2020), tra gli altri. Uno degli attori principali dell’anno appena trascorso che rappresenta un quadrante di notevole interesse per l’intelligence è senz’altro la Cina, che è riuscita a trasformare in opportunità alcuni fattori di rischio legati alla pandemia: internamente implementando il sistema di controllo sociale ed esternamente potenziando la collaborazione diplomatica su base bilaterale e multilaterale. Dalla questione uigura nello Xinjiang, ai fatti di Hong Kong, dall’attivismo in Africa e in America Latina alla proiezione nello spazio, la Cina ha assunto una postura globale che ad oggi rappresenta uno dei maggiori temi di analisi e di interesse del Comparto Intelligence italiano. Miriam Viscusi, Elections Hub
Il 17 marzo si terranno le elezioni legislative nei Paesi Bassi. I partiti iscritti risultano essere ben 37, un numero così elevato da riflettere la frammentazione ideologica che il paese sta vivendo in questo momento storico. L’attuale governo, dimessosi il 15 gennaio, era composto da una coalizione nata nel 2017 tra Partito della Libertà e della Democrazia (VVD), Appello Cristiano Democratico (CDA), Democratici (D66) e Unione Cristiana (CU). Mark Rutte, Primo Ministro dal 2006 nonostante le sue dimissioni, correrà anche questa volta alle elezioni con il suo partito VVD. Dei 37 partiti in corsa, quelli con maggiori possibilità di entrare in Parlamento sembrano essere comunque i 13 partiti già precedentemente eletti. Oltre a quelli uscenti, vanno ricordati anche i partiti attualmente all’opposizione. GroenLinks, in ascesa, è il partito della sinistra ecologista ed europeista: l’ambiente è al centro del suo programma, ma anche la lotta al razzismo e contro le discriminazioni rappresentano una parte importante del programma. Visioni simili ha il Partito degli animali (PvdD), che insiste sull’ inversione di rotta rispetto allo sfruttamento delle risorse naturali del Pianeta. Il Partito Socialista (SP) include nel suo programma anche l’occupazione, senza però tralasciare l’istruzione, la solidarietà e l’ecologia. Il PvdA invece, il Partito dei lavoratori, insiste su concetti sociali quali lavoro e salario minimo. Quest’ultimo rappresenta il punto cardine del programma, insieme al diritto alla casa e all’istruzione garantita per tutti. Il partito più vecchio dei Paesi Bassi è il Partito Politico Riformato (SGP): fondamentalista, protestante e vicino alla CU. DENK, il cui nome significa allo stesso tempo “pensare” in olandese e “uguaglianza” in turco, è il partito delle minoranze, che tra i suoi punti programmatici inserisce obbligo vaccinale, lotta all’islamofobia e più diritti sociali. Infine, Volt, il partito a vocazione europeista e internazionalista, sceglie come temi centrali le migrazioni, il clima e la sicurezza. Tra le new entry quelle più significative sono tre: la coalizione Code Oranje, formata da fuoriusciti dal PVV e dalla lista Fortuyn; BIJ1, il partito multiculturale e multietnico guidato da Sylvana Simons e JA21, formato da ex FVD. I temi centrali dei programmi sono più o meno gli stessi per tutti i partiti, i quali però accordano priorità diverse a seconda della posizione nello spettro politico. Stando all’istituto nazionale di statistica dei paesi bassi (CBS), che ha studiato i programmi di undici partiti, in totale vengono proposte oltre mille misure economiche. I temi più ricorrenti sono la spesa pubblica, la salute, la lotta alla disoccupazione il raggiungimento di una sostenibilità finanziaria nazionale. Al contrario delle elezioni del 2012, quando il Paese stava uscendo dalla crisi finanziaria mondiale, questa volta i partiti dovranno presentare proposte pubbliche appetibili, anche in vista dei fondi in arrivo dal Recovery Fund. Alla fine del mandato 2021, la maggior parte dei partiti si aspetta un aumento del potere d’acquisto dovuto al miglioramento della situazione economica. la previsione più alta è quella del Partito Socialista (SP), seguito da PvdA e GroenLinks. Tutti i partiti prevedono di aumentare la spesa pubblica, tranne DENK che prevede un aumento delle tasse e della vendita del gas. Sul tema occupazione, invece, le proposte degli schieramenti si differenziano: i partiti di destra intendono creare impiego nel settore privato (CDA e VVD), mentre quelli di sinistra (D66, groenlinks, PvdA sono orientati a spendere per creare impiego nel settore pubblico. Per quel che riguarda la spesa per l’istruzione invece, D66, GroenLinks e PvdA prevedono massicci investimenti nei propri programmi. Al contrario, nel centrodestra VNL propone dei tagli a favore di investimenti per difesa e sicurezza. Anche la salute, visti il periodo, sta giocando un ruolo fondamentale: SP ha intenzione di aumentare in modo significativo le spese per la salute e migliorare il Fondo sanitario nazionale, ma ci sono partiti come VVD, CDA, D66, ChristenUni e SGP che prevedono una minore spesa in sanità. Alcuni fra D66, GroenLinks, SP, PvdA, CU e Denk propongono una riduzione dei premi dell’assicurazione sanitaria oltre ad aumentare il salario minimo, i sussidi e le indennità. Gli elettori però sembrano preoccupati non tanto dalla gestione della pandemia, ma di quello che accadrà in seguito: secondo un sondaggio, per 7 elettori su 10 i programmi elettorali non contemplano abbastanza l’Olanda post-covid. In altre parole, mancherebbe, stando al sondaggio, una visione di lungo periodo. La questione ambientale, ad esempio, nonostante sia uno dei temi più caro per gli elettori, sembra quasi assente dalla campagna elettorale: viene menzionato nel proprio programma solo da una decina di partiti. Ma di questi, solo tre (GroenLinks, SP e D66) prevedono un consistente aumento della spesa pubblica per affrontare la crisi climatica. Il grande ritorno sembra invece essere il nucleare: la maggior parte dei partiti olandesi lo considera una soluzione all’emergenza climatica e si impegnerebbe a implementare una soluzione nucleare nel Paese. Infine, il punto che accomuna tutti i partiti è la volontà di aumentare le tasse per le imprese, puntando al tempo stesso ad un alleggerimento della pressione fiscale a favore delle famiglie. Data la peculiarità del sistema olandese nella creazione di governi di coalizione, è molto probabile che le stesse si formeranno in futuro, pur non essendo così scontate. Infatti, sia Mark Rutte che il leader della CU, Wopke Hoekstra, hanno preso le distanze dal PVV con cui avevano in precedenza governato. Anche tra i due, però, vi sono delle divergenze: Rutte non accetta di buon grado le promesse elettorali del leader CDA legate alla sanità, considerandole esagerate. Tenendo conto che le ultime proiezioni vedono la vittoria della destra, ad oggi la composizione di un’ipotetica coalizione sembra ancora rimanere un’incognita. A cura di Federica Pesci, Osservatorio sull'Unione europea
Il 22 febbraio 2021 un convoglio del World Food Programme (WFP) è stato attaccato nei pressi di Goma, città a pochi km di distanza dalla Capitale del Nord Kivu e quasi al confine con il Rwanda. Si tratta dell’area del parco nazionale del Virunga, dove è fortemente presente il gruppo di miliziani hutu denominato Forze Democratiche per la liberazione del Ruanda (FLDR). Durante l’attacco, sono rimasti uccisi l’Ambasciatore italiano, Luca Attanasio, e il Carabiniere, Vittorio Iacovacci, nonché l’autista Mustapha Milambo. Il convoglio era diretto nell’area di Rutshuru, a seguito dell’invito esteso all’Ambasciatore da parte del Vice-direttore del WFP, Rocco Leone, per visionare il nuovo programma alimentare. Si tratta di uno dei tanti e tristi episodi di violenza che devastano questa area del Paese, rendendola teatro di scontri tra i gruppi armati, la polizia locale e i corpi specializzati dell’ONU. A causa di questi episodi, il Congo rappresenta, dopo la Siria, uno dei Paesi dove si registra il maggior numero di sfollati interni al mondo. Il Congo e il ruolo dell’ONU Secondo il rapporto del Kivu Security Tracker[1], il numero dei gruppi armati sarebbe aumentato esponenzialmente dal 2017, concentrandosi in particolare nelle tre principali province del Nord del Congo: Nord Kivu, Sud Kivu, Tanganyka. A partire dal 2000, in queste aree si sono formati i primi gruppi di milizie, come le Allied Democratic Forces (ADF), che hanno cercato di contrastare la presenza dell’esercito congolese sul territorio. I continui e violenti attacchi alla popolazione locale sono stati sferrati per dimostrare la fragilità delle attività dell’ONU nell’assistere la società civile. Da ormai vent’anni, l’ONU è presente sul territorio congolese. Infatti, il Consiglio di Sicurezza ha istituito con la ris. 1279 del 1999 l’operazione MONUC. Quest’ultima è stata, poi, sostituita con la successiva ris. 1925 del 2010 dalla missione MONUSCO, i cui obiettivi sono la protezione dei civili e del personale impiegato nelle operazioni umanitarie e la stabilizzazione e il consolidamento della pace nella RD del Congo. Recentemente, il Consiglio di Sicurezza ha esteso il mandato della missione fino al 20 dicembre 2021, con la ris. 2556 del 2020[2]. Inoltre, si è definita un’exit strategy che prevede il ritiro dei contingenti da Kansai nel 2021 e da Tanganyika nel 2022[3]. L’Unione Europea e la prima missione militare ARTEMIS L’ONU non è il solo attore che agisce sul territorio della RD Congo. Nel corso degli anni, il ruolo dell’Unione Europea è diventato sempre più importante in queste zone. In passato, Bruxelles aveva autorizzato alcune missioni, civili e militari, al fianco di MONUC, divenuta successivamente MONUSCO. Inizialmente, l’Unione Europea aveva assistito le Nazioni Unite con l’avvio di una missione militare denominata ARTEMIS. L’operazione era stata organizzata a seguito dell’adozione della ris.1484 del 2003[4] in seno al Consiglio di Sicurezza e della dichiarazione 2003/423[5] su una Joint Action da parte del Consiglio dell’Unione Europea. L’obiettivo dell’operazione era quello di garantire la stabilità del Paese, in particolare nella regione dell’Ituri. L’art. 9 della decisione 2003/423[6] dispose una stretta la cooperazione tra l’allora Rappresentante Speciale dell’Unione per la regione dei grandi laghi[7] e il capo della missione MONUC. Operativa su richiesta delle Nazioni Unite, ARTEMIS fu tuttavia considerata come la prima missione militare condotta in piena autonomia dall’Unione Europea[8]. Lo scopo dell’operazione era quello di costituire ed impiegare in anticipo una forza multinazionale, per riportare quelle aree sotto il controllo dell’ONU. Indipendente da ogni tipo d’intervento della NATO e con la partecipazione di taluni Stati terzi, l’operazione ARTEMIS cessò ufficialmente di essere operativa a settembre del 2003, passando il testimone a MONUC. Da EUPOL Kinshasa a EUPOL RD Congo In un secondo momento, fu avviata un’altra missione dell’Unione Europea su richiesta delle autorità congolesi, questa volta di carattere civile. Le missioni civili dell’Unione Europea si dividono in quattro categorie: di monitoraggio, di polizia, di frontiera e di stato di diritto. Nella Repubblica Democratica del Congo vennero avviate due operazioni di polizia. La prima, EUPOL Kinshasa[9], ebbe un mandato biennale dal 2005 al 2007. Nel rispetto del mandato istitutivo, si potevano distinguere due importanti obiettivi: quello di creare una nuova unità di polizia, che s’integrasse con le forze nazionali congolesi, e quello più importante di affiancare le autorità nazionali nelle fasi fondamentali della transizione politica[10]. Durante il periodo di fine mandato di EUPOL Kinshasa, è stata successivamente attiva la missione EUPOL RD Congo. Quest’ultima fu avviata, a seguito della ris. 1756 del 2007[11] del Consiglio di Sicurezza che estendeva il mandato dell’allora missione MONUC. Nella risoluzione, si ribadiva l’importanza della presenza di altri attori internazionali, tra cui l’Unione Europea, la quale con decisione del Consiglio dell’Unione Europea[12], organizzò la missione EUPOL RD Congo. I suoi obiettivi erano quelli di sostenere la security sector reform, assistere la polizia congolese e creare un network di collaborazione tra sistema giudiziario e di polizia. L’operazione si concluse nel 2014, dopo essere stata rinnovata due volte e aver raggiunto i principali obiettivi, passando la gestione alle Nazioni Unite. Venne, tuttavia, istituito uno speciale corpo di polizia, a tutela delle donne e dei bambini, che collabora con UNDP e MONUSCO. L’Unione Europea oggi in Congo L’Unione Europea ha assunto recentemente l’impegno, su richiesta del Presidente della Repubblica del Congo Tshimbolo, di assistere il Paese nello svolgimento delle elezioni politiche del 2019[13]. Il ruolo dell’UE è quello di fornire sostegno anche alla società civile, in linea con la roadmap[14] adottata nel 2014. L’Unione Europea ha continuato ad essere attiva sul territorio anche con il sostegno fornito all’operazione MONUSCO, di cui in più di un’occasione ha ribadito l’importanza. Inoltre, il Consiglio dell’Unione Europea ha adottato la decisione[15] per l’estensione delle sanzioni economiche individuali fino al dicembre 2021. Seppur non gestisca più operazioni alla pari di quelle precedenti, la presenza europea è ancora oggi garantita dalle attività della Delegazione Europea nella Repubblica Democratica del Congo e dal sostegno che l’Unione Europea fornisce all’operazione MONUSCO. La tragedia del 22 febbraio dimostra gli evidenti limiti che queste operazioni internazionali dagli obiettivi elevati incontrano nel loro dispiegarsi. In particolare, si può osservare, in questa circostanza, anche un forte deficit del sistema di sicurezza. I corpi specializzati dell’ONU e del WFP avevano etichettato la strada percorsa il 22 febbraio “sicura”, nonostante quella zona fosse, da tempo, considerata una delle più pericolose[16], come emerso anche da interrogazioni di europarlamentari[17] rivolte all’Alto Rappresentante dell’UE, Joseph Borrell. [1] https://kivusecurity.nyc3.digitaloceanspaces.com/reports/39/2021%20KST%20report%20EN.pdf [2]Consiglio di Sicurezza, 18 dicembre 2020, Ris. 2556 del 2020 (link: https://monusco.unmissions.org/sites/default/files/s_res_25562020_e.pdf) [3] Ulteriori informazioni sul mandato dell’operazione MONUSCO https://monusco.unmissions.org/en/mandate [4] Consiglio di Sicurezza, 28 luglio 2003, Ris. 1484 del 2003 (link: http://unscr.com/en/resolutions/doc/1484) [5]Chrisochoidis M., 2003, Joint Action Consiglio dell’Unione Europea 2003/423/PESC (link: https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:32003E0423&qid=1614529535680&from=EN) [7] Figura già presente, come si può osservare dalla dichiarazione sulla Joint Action adottata dal Consiglio dell’UE 2002/962 https://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2002:334:0005:0006:EN:PDF [8] Giordano S, Le relazioni UE-ONU nell’ambito della strategia di sicurezza europea, 2003 (link: https://www.difesa.it/InformazioniDellaDifesa/periodico/IlPeriodico_AnniPrecedenti/Documents/Le_relazioni_UE-ONU_nellambito_d_512europea.pdf) [9] Consiglio dell’Unione Europea, 9 dicembre 2004, Decisione 2004/847/PESC, https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:32004E0847&qid=1614530293560&from=EN. [10] Nel 2006 si sarebbero tenute le nuove elezioni nazionali, che avrebbero posto la base per l’avvio della missione EUPOL RD Congo. [11] Consiglio di Sicurezza, 15 maggio 2007, Ris n 1756 del 2007 (link: http://unscr.com/en/resolutions/doc/1756) [12] Consiglio dell’Unione Europea, 12 giugno 2007, Joint Action 2007/405/PESC (link: L_2007151IT.01004601.xml (europa http://publications.europa.eu/resource/cellar/cdbe4636-f9f9-46ff-8ae6-c5d361ae9d84.0012.02/DOC_1.eu). [13] Si evince dalle conclusioni del Consiglio dell’Unione Europea riportate in questo documento https://data.consilium.europa.eu/doc/document/ST-14462-2019-INIT/it/pdf. [14] Di seguito, s’indica il link dove è possibile consultare i vari punti della roadmap congo_brazza_roadmap_final_pour_publication_01092014_fr.pdf (europa.eu) [15] Le sanzioni individuali furono adottate già nel 2016, nel corso delle operazioni a tutela del corretto svolgimento delle attività elettorali. Rinnovate nel 2018, sono state estese fino al 12 dicembre 2021 https://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/PDF/?uri=CELEX:32020D2033&from=EN [16] Human rights report, World Report 2020 – Republic Democratic of Congo, (link https://www.ecoi.net/en/document/2022711.html). [17] Ansa, 22 febbraio 2021, Bruxelles Congo: Cozzolino (S&D), attacco è colpo a presenza europea - La voce degli eurodeputati - ANSA.it a cura di Elisabetta Crevatin Quale ruolo ha la NATO nel disarmo nucleare? Questo il tema centrale del ciclo di conferenze organizzato dall’Istituto Affari Internazionali (IAI) in collaborazione con la Farnesina nei giorni 15 e 16 Febbraio. Il primo appuntamento ha visto una tavola rotonda tra giovani professionisti e quattro importanti accademici che hanno discusso le loro recenti pubblicazioni: Rose Gottemoeller, Katarzyna Kubiak, Leopoldo Nuti e Wilfred Wan. La seconda giornata, invece, è stata incentrata nell’esaminare le loro ricerche con altri relatori internazionali per snocciolare il presente e il futuro della NATO. A livello generale, fin dagli anni Sessanta, l’Alleanza Atlantica si è posta come obiettivo quello di contenere la diffusione delle armi nucleari a livello orizzontale – limitando gli stati che possono detenerle – e verticale – garantendo che gli armamenti dei “P5” continuino a svolgere un ruolo deterrente senza proliferazione. Essendo però numerose le sfide geopolitiche che stanno mettendo a repentaglio la credibilità sia dell’Alleanza che delle altre potenze mondiali riguardo al disarmo, il seminario è stato un’arena di approfondimento di tali tematiche. Conviene quindi partire enucleando quelle più pressanti. Tra le sfide principali, la prima domanda è se la deterrenza nucleare sia strategicamente compatibile con il controllo degli armamenti. Se Jessica Cox, Direttrice del NATO Nuclear Policy Directorate, ha stabilito che “la deterrenza nucleare rimane una priorità per la NATO, considerando le recenti violazioni della Russia in merito al trattato dei missili a medio raggio e a irregolari esercitazioni nucleari”, Gottemoeller e Hill concordano che la deterrenza è un aspetto chiave dell’identità dell’Alleanza Atlantica. Procedere alla totale denuclearizzazione atlantica, senza che la Russia e la Cina svolgano lo stesso, provocherebbe un’enorme destabilizzazione geopolitica. Ed è proprio a tal proposito che la maggioranza dei membri NATO si è astenuta nel votare a favore del recente Trattato per la Proibizione delle Armi Nucleari (TPNW), ritenendo che esso vada in contrasto con i principi del Trattato di non Proliferazione. A rovescio della medaglia, il delegato austriaco Alexander Kmentt ha osservato come tale mossa disincentivi il dialogo e la credibilità stessa della NATO riguardante il disarmo. In aggiunta, sono proprio le nazioni che detengono gli arsenali nucleari, coloro che dovrebbero promuovere con più determinazione tali politiche. Secondo enigma è il fatto che la NATO non è una coalizione tra pari, essendo gli Stati Uniti coloro che possiedono la stragrande maggioranza delle testate, con Francia ed Inghilterra a loro seguito. Sebbene altri cinque paesi europei hanno nel loro territorio degli armamenti nucleari, essi sono americani, creando quindi uno squilibrio strategico. Durante più mandati, come quelli di Bush Junior e Trump, gli Stati Uniti hanno preso decisioni in merito al nucleare senza consultare adeguatamente gli altri paesi membri. Gli stati europei, quindi, necessitano di avere più voce in capitolo a tal riguardo, date le numerose minacce in materia di sicurezza che devono affrontare: dall’invasione russa della Crimea alle esercitazioni nucleari irregolari a Kaliningrad, per non dimenticare la crisi degli euromissili. In tale marasma, quale ruolo detiene l’Unione europea? Rimarrà la NATO il centro nevralgico di dialogo tra paesi europei a proposito del controllo degli arsenali? Considerando che un’Europa senza nucleare è possibile, sebbene improbabile, tali domande devono trovare una risposta tempestiva. A complicare ancora il tutto è il multipolarismo destabilizzante di paesi che possiedono armamenti nucleari: dall’India alla Corea del Nord, dal Pakistan alla Cina. Come ricorda il Professore Eric Terzuolo, “i paesi europei stanno guardando con sempre più allarmismo ad Oriente”, e l’avvento di nuove tecnologie sta accelerando tale processo. Nonostante le avversità, la maggioranza dei paesi e delle organizzazioni concordano nell’avanzamento del disarmo nucleare, e quindi la causa di attriti è il metodo con cui arrivarci, non l’obiettivo stesso. A tal proposito, come l’Ambasciatore Carlo Trezza ha precisato, la presidenza Biden è un vento di speranza in ambito di disarmo, avendo già aderito assieme alla Russia nel prorogare il Trattato New Start. E’ inoltre risaputa l’inclinazione dell’attuale Presidente nell’agire più concretamente in ambito di controllo degli armamenti, e nel consultare proattivamente gli stati membri della NATO. Jens Stoltenberg è un altro personaggio positivo per la causa, avendo “lanciato” da poco il piano NATO 2030, che tra gli altri obiettivi prevede l’implementazione e rinnovo del Trattato di non Proliferazione Nucleare, e la modernizzazione del documento di Vienna. Inoltre, satelliti e droni sono beni potenziali per rafforzare il monitoraggio delle testate nucleari, e un migliore uso del “C3” potrebbe limitare i danni causati da attacchi cyber. A livello dottrinale, la riduzione del rischio nucleare è efficace per minimizzare la possibilità di detonazione, riducendo “falsi positivi” ed escalations tra stati, così da allontanarsi dalla possibilità di una guerra nucleare. Nella pratica, i codici di condotta dovrebbero circoscrivere gli scenari per poter utilizzare il nucleare; e la cooperazione tra stati e organizzazioni, come la NATO, dovrebbe essere rafforzata, per lo scambio di informazioni riguardanti attacchi terroristici svolti da attori non statali. Per ultimo, ma non per importanza, è la continua adattazione e messa in vigore di convenzioni concernenti le armi di distruzione di massa. Tra gli altri, il Trattato sui Cieli aperti, quello sui missili nucleari a medio raggio (INF) e il Trattato di non Proliferazione Nucleare – la cui conferenza avverrà quest’anno - garantiscono ciò. Bisogna continuare la discussione riguardante l’entrata in vigore del TPNW e incentivare il dialogo tra Iran e Stati Uniti in promozione dell’accordo sul nucleare iraniano. Se la NATO non è la soluzione a tutti i mali, ha sicuramente giocato un ruolo fondamentale a riguardo del nucleare, sia a livello di deterrenza che nel disarmo. L’Alleanza Atlantica, con buona probabilità, continuerà ad attuare questo doppio approccio strategico, ed è dovere di tutti gli attori internazionali quello di continuare a prioritizzare la denuclearizzazione nelle loro agende, nonché disincentivare “l’egemonia a basso costo”. ![]()
La crisi post-elettorale nella Repubblica Centrafricana: tra instabilità ed emergenza umanitaria27/2/2021
a cura di Angela Centurione A seguito delle elezioni presidenziali del 27 dicembre 2020, la Repubblica Centrafricana (RCA) è diventata teatro di continui scontri e di una grave crisi umanitaria che la comunità internazionale sembra ignorare. Il conflitto vede da una parte le forze governative che appoggiano il presidente Faustin-Archange Touadéra, eletto per un secondo termine, e dall’altra le coalizioni dei gruppi armati che rifiutano l’esito delle elezioni e appoggiano l’ex presidente François Bozizé, ora accusato di colpo di stato. Il persistere della crisi ha spinto il presidente a dichiarare lo stato di emergenza e ad accettare l’aiuto degli alleati stranieri per cercare di mantenere la direzione del paese, ora controllato per i due terzi dai ribelli. Nelle settimane immediatamente precedenti alle elezioni la situazione era già molto tesa: a causa della precaria situazione di sicurezza nel paese solamente un cittadino su tre ha potuto votare, mentre il 14% dei seggi elettorali è rimasto chiuso. La Coalizione dei patrioti per il cambiamento (CPC), un’alleanza tra le sei milizie principali del paese, si è fatta portatrice di diversi attacchi in segno di protesta contro la decisione della Corte costituzionale di escludere dai candidati François Bozizé, che con un colpo di stato nel 2003 si era imposto come presidente del paese. Nel 2013 Bozizé aveva lasciato la RCS dopo che il gruppo ribelle Séléka, una coalizione a maggioranza musulmana, aveva attaccato numerose città scatenando una guerra civile. Le azioni del gruppo Séléka avevano portato alla creazione di una coalizione ad essa opposta, l’Anti-Balaka, a maggioranza cristiana. Bozizé, accusato di appoggiare l’Anti-Balaka, era stato sottoposto a delle sanzioni da parte delle Nazioni Unite, provvedimento che ha spinto la Corte costituzionale a negarli la possibilità di correre per la presidenza. Gli scontri tra i ribelli e le forze governative, iniziati il 3 gennaio 2021, hanno visto i lealisti dell'ex Presidente François Bozizé attaccare e prendere il controllo di diverse importanti città, tra cui Bangassou e Bouar. Le gravi violazioni dei diritti umani da parte dei ribelli e la carenza di cibo e aiuto umanitario causata dal blocco delle principali vie commerciali hanno costretto quasi più di 200.000 persone alla fuga. Tra questi, decine di migliaia hanno cercato rifugio nei paesi vicini: Camerun, Ciad, Repubblica Democratica del Congo (RDC) e Repubblica del Congo. Per di più, secondo le Nazioni Unite, metà della popolazione è diventata dipendente dagli aiuti umanitari. Il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha condannato le violenze e gli attacchi dei ribelli, augurandosi l’apertura di un dialogo tra le parti. Prospettiva che sembra ancora molto lontana e che evidenzia sempre di più la fragilità del potere di Touadéra, costretto a rimanere nella capitale Bangui. La capitale è stata più volte soggetta ad attacchi da parte dei ribelli, che sono stati respinti dalle forze armate del paese, appoggiate dai 12mila caschi blu delle Nazioni Unite e dai rinforzi mandati da Russia e Ruanda. Anche la Francia, accusata più volte dal presidente Touadéra di ambiguità nel suo appoggio al governo, si è apertamente schierata con le forze governative e ha condannato l’attività del CPC. Tuttavia, l’aiuto militare francese si è ridotto al minimo dopo un iniziale appoggio nelle settimane precedenti le elezioni. A difendere e ad appoggiare concretamente il governo di Touadéra sono rimaste le due alleate del RCA: Ruanda e Russia. L’aiuto militare da parte del Ruanda è in linea con la strategia del presidente Paul Kagame di accrescere i rapporti tra i due paesi: già nell’ottobre 2019 la RCA e il Ruanda hanno stipulato accordi economici e militari che prevedono, tra l’altro, l’accesso da parte del governo ruandese alle risorse minerarie del paese centrafricano. Per quanto riguarda invece l’appoggio della Russia, questo si è esplicitato con l’invio di 300 istruttori militari e centinaia di soldati appartenenti non alle forze armate regolari ma al Wagner Group, organizzazione paramilitare privata molto vicino al Cremlino. L’alleanza tra la RCA e Mosca risale al 2017, quando il governo russo aveva sostenuto il governo di Touadéra in cambio di importanti concessioni minerarie. Le relazioni tra due paesi si sono poi fatte più strette quando il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite aveva approvato una missione di addestramento russa per implementare la capacità delle forze armate del paese. In seguito, nel 2019, un’ex spia russa si è affermata come consigliere di Touadéra per la sicurezza nazionale, mentre il gruppo privato Wagner ha assunto sempre più importanza nella sicurezza personale del presidente. La RCA gioca infatti un ruolo importante nel piano strategico di Mosca, volta ad imporsi in aree di interesse occidentale e ad accrescere la sua influenza politica ed economica nel continente africano. Non solo il paese centrafricano ha considerevoli risorse come uranio, oro e diamanti, ma è anche una porta di accesso a paesi ricchi di materie prime come il Camerun e il Congo-Brazzaville. Lo scenario che si profila non lascia molto spazio all’ottimismo: la Repubblica Centrafricana è uno dei paesi africani più poveri e instabili, un paese che è stato segnato da otto anni di guerra civile e che ora deve fare i conti con una rinnovata violenza. Se le elezioni del 27 dicembre avevano fatto sperare in un passo avanti verso la pace e la stabilità del paese, il conflitto che ne è derivato ha esposto le vulnerabilità non solo del governo, ma anche della missione di pace delle Nazioni Unite inviata a seguito del colpo di stato del 2013. Nonostante Touadéra goda dell’appoggio delle Nazioni Unite e di altri attori internazionali, è improbabile che il CPC deponga le armi. I ribelli hanno la possibilità di appropriarsi di aree ricche di materie prime e di controllare la principale via che collega il paese con il Camerun. Tuttavia, una prospettiva di cambiamento sarà plausibile solo se le forze alleate e altri attori regionali incrementeranno il loro coinvolgimento nella crisi. ![]()
Verso le legislative nei Paesi Bassi: le dimissioni di Rutte e l’attuale situazione politica26/2/2021
A cura di Carlo Comensoli, Elections Hub
Lo scorso 15 gennaio il Primo Ministro dei Paesi Bassi Mark Rutte ha rassegnato le dimissioni in seguito a uno scandalo riguardante il sistema fiscale olandese. Il governo rimane tuttora in carica per gli affari correnti fino alla regolare scadenza della legislatura e alle elezioni per il rinnovo dei centocinquanta seggi della Camera dei Rappresentanti fissate per il prossimo 17 marzo. Lo scandalo che ha causato le dimissioni del governo è stato portato alla luce da un rapporto parlamentare riguardante dei sussidi familiari. A partire dal 2012, lo Stato olandese, sulla base di false accuse di frode fiscale, ha spesso richiesto la restituzione dei sussidi a molte famiglie destinatarie degli stessi. Il rapporto ha evidenziato l’approccio troppo intransigente del fisco nello stabilire il criterio per la sospensione dell’assegno mensile, pensato originariamente come aiuto economico per la crescita dei figli. A causa di semplici errori burocratici come una firma mancante, circa ventimila famiglie hanno dovuto restituire quanto percepito mensilmente, arrivando in alcuni casi a indebitarsi. Mentre i risultati dell’inchiesta parlamentare parlano di “ingiustizia senza precedenti”, da un’indagine indipendente è emerso come in molti casi le accuse di frode fossero peraltro discriminatorie nei confronti di famiglie di doppia cittadinanza e di origine straniera. Molti osservatori, inoltre, hanno sottolineato come questo rigido sistema fiscale e lo zelo degli ispettori delle imposte nell’attribuzione di assegni familiari coesiste di fatto con delle politiche molto flessibili nei confronti delle multinazionali, che hanno portato i Paesi Bassi a essere considerati un paradiso fiscale nel cuore dell’Unione europea. Per Rutte, in carica consecutivamente dal 2010, si è trattato del terzo mandato come Primo Ministro olandese. Quest’ultimo governo a cui era a capo era il risultato di una coalizione di centro-destra formatasi dopo le elezioni del 2017, formata dal Partito Popolare per la Libertà e la Democrazia (noto anche all’estero con la sigla olandese VVD e di cui Rutte è leader dal 2006), Appello Cristiano Democratico (CDA, partito che nella colazione esprime il Ministro delle Finanze dimissionario Wopke Hoekstra), il partito liberale europeista D66, aderente all’ALDE, e l’Unione Cristiana, un partito centrista con posizioni conservatrici sui diritti civili. Nessuno dei partiti che compongono l’attuale maggioranza ha optato per lo scioglimento dell’assemblea legislativa, e questo ha permesso all’esecutivo di rimanere in carica per il regolare svolgimento degli affari correnti e la gestione della pandemia fino alle elezioni che erano già state regolarmente programmate per il mese prossimo. Lo scandalo ha coinvolto anche l’opposizione: nel centro-sinistra, Lodewijk Asscher, si è dimesso dall’incarico di leader del Partito del Lavoro (PvdA) a soli due mesi dalle elezioni. Tra il 2012 e il 2017, infatti, quando si sono verificati numerosi casi che hanno poi portato all’inchiesta sui sussidi familiari, Asscher era Ministro degli Affari Sociali e del Lavoro in coalizione con Mark Rutte. Le scorse elezioni legislative del 2017 avevano poi portato a una significativa perdita di consensi per il PvdA e contemporaneamente a un exploit del Partito per le Libertà (PVV), sovranista ed euroscettico, noto all’estero per il leader Geert Wilders. Pur non facendo parte della coalizione di governo, il PVV attualmente occupa venti seggi nella Camera dei Rappresentanti. La campagna elettorale per le prossime legislative coincide con un momento cruciale per la gestione della pandemia di COVID-19. Proprio in concomitanza con le dimissioni di Rutte, il 17 gennaio scorso è avvenuta la prima delle tre manifestazioni non autorizzate contro la decisione del governo di imporre un coprifuoco generale. In quell’occasione come anche durante le ulteriori proteste del 24 gennaio, la polizia ha risposto con la violenza e con l’arresto di centinaia di manifestanti. Sembra comunque che, nonostante i disordini delle scorse settimane, la maggior parte della popolazione sia a favore delle misure messe in campo dal governo in questi mesi per contrastare la diffusione del contagio. A livello europeo, il Primo Ministro olandese durante i negoziati per il Next Generation EU, figurava tra i leader dei Paesi cosiddetti “frugali”, e si era inizialmente opposto al piano di rilancio delle economie dell’Unione, soprattutto per quanto riguarda i finanziamenti a fondo perduto. Stando ai sondaggi di opinione, questa presa di posizione era apprezzata dal 61% dell’elettorato. Se però da un lato nel 2017, con l’ascesa del PVV di Geert Wilders, l’appartenenza all’Unione europea era un tema centrale della campagna elettorale, ad oggi la gestione della pandemia e il piano vaccinale, oltre allo scandalo del sistema fiscale olandese, sembra saranno i temi cruciali delle prossime settimane. Bibliografia scientifica: Tax Justice Network, The State of Tax Justice 2020: Tax Justice in the Time on COVID-19, novembre 2020, https://bit.ly/3bEe4Ki a cura di Valentina Berneri Il 1° maggio 2004 l’Unione europea accolse dieci nuovi paesi membri. Il grande allargamento modificò l’assetto dei suoi confini, portando l’Ue a rapportarsi con paesi economicamente e politicamente instabili. Per creare un’area di pace, stabilità e prosperità ai propri confini venne istituita la Politica Europea di Vicinato (PEV), una delle politiche esterne attraverso cui l’Ue si impegna a garantire assistenza finanziaria e tecnica a progetti volti allo sviluppo locale dei paesi partner. In gran parte i progetti mirano al progresso democratico, al rispetto dei diritti umani e ad una stabilizzazione socio-economica. La PEV regola i rapporti con sedici paesi: Armenia, Azerbaigian, Bielorussia, Georgia, Moldavia, Ucraina localizzati al confine orientale e Algeria, Egitto, Israele, Giordania, Libano, Libia, Marocco, Palestina, Siria, Tunisia al sud. L’Ue si relaziona con i paesi partner sia attraverso accordi bilaterali che in due quadri di cooperazione multilaterale: il Partneriato Orientale, istituito nel 2009, e l’Unione per il Mediterraneo, dal 2008. Le relazioni con il primo sono state esaminate frequentemente negli ultimi anni a causa delle crescenti tensioni tra Ue e Russia. In controtendenza, in occasione del decimo anniversario della Primavera Araba, questo articolo esamina l’ evoluzione della cooperazione tra Ue e paesi del Mediterraneo. Proprio in questo periodo, dieci anni fa, le popolazioni che abitano le regioni del Medio Oriente e del Nord Africa insorsero in una serie di proteste di massa a cui i media occidentali si riferiscono con il nome di Primavera Araba. L’appellativo è un voluto riferimento alla primavera dei popoli, in quanto, come in quell’occasione, i dissidenti si ribellavano contro i regimi autoritari. I manifestanti erano in gran parte giovani e lamentavano le limitate libertà individuali, la crescente corruzione, le ripetute violazioni dei diritti umani e la difficili condizioni socio-economiche. I paesi maggiormente coinvolti furono Algeria, Egitto, Libia, Siria e Tunisia. Di fronte all’insorgere delle proteste, l’Ue non poté che constatare il fallimento della prima versione della PEV, che fu sottoposta a diverse critiche. Quelle maggiormente condivise riguardavano i suoi obiettivi ritenuti troppo approssimativi e non abbastanza eterogenei. Secondo i critici la PEV forniva soluzioni insufficientemente dettagliate alle problematiche rilevate e non prevedeva strumenti di monitoraggio di un eventuale progresso. Inoltre, non trattava con abbastanza realismo le diverse condizioni di partenza e le ambizioni future dei paesi coinvolti adottando un approccio rivelatosi non funzionale, quello del “one size fits all”. Presa coscienza dei suoi punti deboli, e con l’intento di adeguare la PEV alle esigenze contemporanee, nel 2011 la Commissione europea approvò una seconda versione. Identificò nella promozione di una democrazia sostenibile e nello sviluppo economico inclusivo le priorità di cooperazione. A questo scopo incoraggiò un approfondito dialogo con la società civile, istituendo due nuovi strumenti, il Civil Society Facility e l’European Endowment for Democracy, il cui compito era monitorarne gli eventuali progressi. In secondo luogo, introdusse il principio di condizionalità, per premiare i paesi che dimostravano un maggiore impegno nel perseguire una transizione democratica stabile rispettosa dello stato di diritto. Pochi anni dopo, nel 2015, in risposta ai drammatici sviluppi verificatisi ai suoi confini (si pensi allo scoppio della guerra nel Donbass e all’aggravarsi della guerra in Siria), l’Ue si impegnò a rettificare nuovamente la PEV. Con la seconda modifica, la stabilizzazione, ovvero la risoluzione dei conflitti in atto e la prevenzione di quelli futuri, sostituì lo sviluppo democratico come priorità assoluta. Nonostante l’Ue avesse dichiarato che avrebbe continuato a perseguire le questioni legate ai diritti umani e alla democrazia, essa si dichiarò disponibile a cooperare anche con gli stati che non dimostravano una piena volontà di trasporre i valori europei a livello locale. A tal fine venne istituito il principio di cotitolarità secondo cui l’Ue e i paesi partner avrebbero collaborato solo nei settori di comune interesse. Questi si rivelarono spesso essere secondari alle priorità della società civile e ciò causò un netto peggioramento dell’opinione pubblica locale nei confronti dell’Ue. L’11 febbraio 2019 il Parlamento Europeo pubblicò una relazione sull’evoluzione della cooperazione con i paesi mediterranei in cui osservava che gran parte degli obiettivi non sono stati raggiunti, riferendosi in particolare allo sviluppo democratico e al miglioramento delle condizioni socio-economiche. Il 28 Maggio 2020 la Direttrice di Amnesty International per il Medio Oriente e il Nord Africa, Amna Guellali, e Younes Abouyoub, il direttore della Divisione di Governance e State-Building nella Regione MENA delle Nazioni Unite, si sono dichiarati preoccupati dalle conseguenze che la pandemia causata dal Covid-19 potrebbe causare nella regione esaminata. Essi sostengono che le misure di contenimento attuate per contrastare la pandemia abbiano ulteriormente peggiorato le già instabili condizioni socio-economiche e minacciato in diversi casi lo sviluppo democratico e il rispetto dei diritti umani. A sostegno di ciò, riportano che in Tunisia (considerato il paese piu democratico del vicinato meridionale) sono state bloccate diverse riforme necessarie per consolidare lo sviluppo di un assetto politico democratico, mentre in Algeria e in Marocco sono state approvate leggi che limitano notevolmente la libertà di espressione. Di conseguenza, gli interlocutori non escludono che potranno verificarsi nuove proteste in futuro. Sembra però che l’Ue si stia prontamente adeguando ai vari cambiamenti che si stanno verificando nel mondo geopolitico, istituendo uno ![]()
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