a cura di Cristiana Oliva Sei episodi, sei finestre per affacciarsi sulla società saudita in una nuova serie Netflix “Six Windows in the Desert”. Il progetto consiste in sei cortometraggi raccolti in una serie, girata negli ultimi cinque anni in diverse città del Regno da Telfaz11, uno studio multimediale creativo dell'Arabia Saudita specializzato in contenuti di intrattenimento di rilevanza locale. Ogni finestra tratta un tabù della società del Regno, come l’estremismo, il ruolo della donna e il patriarcato. Episodio 1: Wasati (2016) – L’estremismo “Wasati” di Ali Alkalthami, regista, produttore, scrittore di contenuti, attore e co-fondatore di C3Films e Telfaz11, si basa su eventi reali accaduti durante uno spettacolo teatrale a Riad dieci anni fa. Lo spettacolo si chiamava "Wasati bela Wastiah" che si traduce approssimativamente in "Un moderato senza una via di mezzo". Durante lo spettacolo, eseguito dagli studenti dell'Università Al Yamamah di Riyadh, un gruppo di estremisti attaccò il teatro. L'evento attirò molta attenzione nella società saudita e ora si pone come una delle ultime vestigia della vecchia posizione del Regno nei confronti delle arti. Ciò che distingue il film, tuttavia, non è la sua rappresentazione dell'incidente, ma il modo in cui riesce a trasformare ciò che è accaduto e renderlo un evento positivo nella storia saudita moderna. Il Regno è rappresentato da un personaggio che lavora in un negozio di musica e inizia a perdere la vista gradualmente, fino a quando un giorno è completamente cieco. Prima di farlo, però, attraversa un periodo di esplorazione artistica, guardando film classici e ammirando dipinti da tutto il mondo. Il cieco viene quindi visto assistere alla fatale recita universitaria e, mentre tutti erano impegnati con i combattimenti, una scarpa gli colpisce la testa e in qualche modo gli restituisce parzialmente la vista. Un'allegoria di un campanello d'allarme. Episodio 2: Is Sumyati going to Hell? (2016) – La Kafala Un film di Meshal Aljaser, girato attraverso gli occhi di Layan, la figlia più piccola di una famiglia che impiega la cameriera Sumyati. Dovendo affrontare il razzismo dei suoi datori di lavoro, Sumyati cerca di sopravvivere a un sistema noto come kafala. La kafala è un quadro giuridico che definisce la relazione tra i lavoratori migranti e i loro datori di lavoro in Giordania, Libano e tutti gli stati arabi del Golfo, tranne l'Iraq. Il sistema è stato creato per fornire manodopera abbondante e a buon mercato in un'epoca di forte crescita economica, ed i suoi difensori sostengono l’idea che avvantaggi le imprese locali e aiuti a guidare lo sviluppo. Ma il sistema è diventato sempre più controverso a causa della mancanza di regolamenti e tutele per i diritti dei lavoratori migranti, che spesso si traduce in salari bassi, cattive condizioni di lavoro e abusi sui dipendenti. La discriminazione razziale e la violenza di genere sono endemiche. In base a questo sistema, lo stato concede a individui o aziende locali permessi di sponsorizzazione per assumere lavoratori stranieri. Poiché i visti di soggiorno e di occupazione dei lavoratori sono collegati e solo gli sponsor possono rinnovarli o revocarli, il sistema conferisce ai privati cittadini, piuttosto che allo stato, il controllo sugli status legali dei lavoratori, creando uno squilibrio di potere che gli sponsor possono sfruttare. Inizialmente, il sistema favoriva principalmente i lavoratori arabi dei paesi vicini come l'Egitto. Ma dopo il boom del petrolio degli anni '70, la preferenza si è rivolta ai lavoratori non arabi, specialmente quelli dell'Asia meridionale, a causa del desiderio di manodopera più economica e dei timori che gli espatriati arabi avrebbero diffuso un'ideologia panaraba che avrebbe potuto minare le monarchie del Golfo. I lavoratori asiatici diventarono la maggioranza dopo la prima guerra del Golfo, quando circa due milioni di egiziani, palestinesi e yemeniti furono espulsi dalla regione per il sostegno dei loro governi all'invasione del Kuwait da parte dell'Iraq di Saddam. Episodio 3: Predicament in Sight (2016): – La convivenza Un cortometraggio di fantascienza ambientato negli anni '70. Diretto da Fairs Godus, il corto racconta la storia di alcuni sopravvissuti a un incidente aereo in un'area desertica e isolata. I superstiti sono costretti a coesistere dopo che i molteplici tentativi di comunicare con il mondo esterno sono falliti. Nelle difficoltà e nell'angoscia, la verità umana può apparire senza falsificazioni e abbellimenti, soprattutto quando si sente il pericolo di perdere la vita, facendo emergere l'istinto di sopravvivenza. Episodio 4: The Rat– L’autorità patriarcale “The Rat” è il corto più sovversivo. Il film inizia con il riferimento a uno dei classici della letteratura moderna attraverso la frase di apertura: "Questa è la storia dell'uomo che divenne un topo". Questo ci porta direttamente alla "Metamorfosi" di Franz Kafka, che inizia con la trasformazione del protagonista Franz Samsa in un grande insetto. Questo incipit inquadra i temi del film, che sono l'autorità patriarcale da sempre associata alla biografia di Kafka e alla sua critica della burocrazia nei romanzi. Il primo fotogramma del film conferma questo tema, e addirittura prevede la fine del film attraverso la vecchia televisione con le sue sfumature nere e la frase “la paura trionfa” nell'angolo dello schermo. Episodio 5: 27th of Shaban (2019) – L’amore All'inizio degli anni 2000, Mohammed e Nouf si incontrano per un appuntamento; un atto proibito in Arabia Saudita. Questo film di Mohamed Al Salman mostra come si svolge l’incontro. Le relazioni prematrimoniali rimangono ancora un tabù in una società in cui il matrimonio è generalmente deciso dagli anziani della famiglia, costringendo le coppie a mantenere la loro storia d'amore non autorizzata in silenzio. Inoltre, è considerato sia immorale che illegale che due persone di sesso opposto non imparentate e non sposate trascorrano del tempo insieme. Gli appuntamenti segreti rivelano la doppia vita dei giovani sauditi, in cerca di libertà sociali che non vengono fornite dal Paese. Episodio 6: Curtain (2018) – Molestie nei confronti delle donne lavoratrici In questo film, la protagonista, Maryam, un'infermiera saudita, affronta le sfide del suo presente e del suo passato nei suoi primi giorni di carriera in ospedale. La ragazza sfugge a eventi traumatici e deve affrontare la paura e il giudizio sul posto di lavoro. La violenza contro le donne è una sfida importante per il Regno. I tipi comuni di violenza includono molestie fisiche, abusi sessuali, aggressioni, mobbing e bullismo. Alcuni studi hanno mostrato come sia molto comune per le infermiere ricevere delle molestie da parte di pazienti, parenti e colleghi. In un paese come l'Arabia Saudita le cui istituzioni formali sono fortemente mediate da meccanismi informali di autorità, le dinamiche sociali hanno un peso politico maggiore che altrove. Una società piramidale, dove la perdita di un singolo tassello comporterebbe il crollo dell’intero sistema. La Casa dei Saud ha così dovuto costruire nei suoi pochi anni di vita una cultura che potesse legittimare il suo potere. Ed in questo continuo processo di nation building, l’Islam, il ruolo della donna nella società, il patriarcato, il collettivismo ed il rapporto con “l’altro” sono elementi in evoluzione che stridono con l’imposizione culturale voluta dal regime. Negli anni trascorsi da quando il principe ereditario Mohammed bin Salman è salito al potere come sovrano de facto dell'Arabia Saudita, nel regno ultraconservatore sono state introdotte diverse riforme sociali che hanno catturato i titoli dei giornali. Inizialmente, il ritmo ha permesso al principe ereditario di dipingere se stesso come un modernizzatore. Tuttavia, come si indaga nel documentario di FRONTLINE, la sua ascesa al potere è stata accompagnata da una repressione del dissenso politico e dell'attivismo. Più del 60% della popolazione saudita ha meno di 30 anni e tra questi gruppi demografici vi sono un gran numero di giovani insoddisfatti dell'attuale contratto sociale, che è vincolato a regole rigidamente conservatrici. È indubbio che il regno necessita di un cambiamento prima che imploda dall’interno.
A cura di Daniele Congedi, Osservatorio sull'Unione europea
Il diffondersi del Covid-19 ha contribuito a far vacillare alcune delle granitiche certezze dell’Unione europea, quali la resistenza dei vari Stati membri a mutualizzare il debito pubblico – parzialmente superata con il Next Generation EU – e la sospensione degli stringenti vincoli del Patto di stabilità e crescita (PSC)[[1]], uno degli strumenti normativi di coordinamento fiscale più discussi dell’ordinamento europeo. In particolare, quest’ultimo è oggi oggetto di discussione in ambito istituzionale: l’intenzione è quella di tentare una riforma che superi l’assetto vigente del Patto, superando restrizioni che hanno posto seri limiti alla crescita dei Paesi europei. La prima versione del Patto si collocava nel contesto della nascente Unione economica e monetaria (UEM)[[2]]. Specificamente, l’originaria base normativa si fonda sulla risoluzione del Consiglio europeo del 17 giugno 1997 (97/C 236/01) e sui regolamenti n. 1466 e n. 1467 del Consiglio del 7 luglio 1997. Il PSC è stato oggetto di una serie di rettifiche successive, avvenute nel 2005, nel 2011 con il Six Pack e nel 2013 con il Two Pack[[3]]. L’attuale struttura si basa su quattro variabili: sorveglianza della spesa; saldo del bilancio strutturale; il controllo del disavanzo, che non può sforare il 3% del Pil; supervisione del debito pubblico, il cui limite è fissato al 60% del Pil[[4]]. In alternativa, la parte di debito eccedente il 60% deve essere ridotta di un ventesimo all'anno, calcolato come media dei tre precedenti esercizi finanziari (oppure nel periodo di tre anni successivi all'ultimo anno con dati disponibili)[[5]]. Il PSC è composto da un “braccio preventivo”, che ha lo scopo di garantire politiche fiscali sostenibili attraverso il raggiungimento di un obiettivo di bilancio a medio termine (OMT) – riguardante il saldo di bilancio strutturale – che gli Stati membri si impegnano a realizzare in un certo periodo (solitamente tre anni). Il Patto è anche caratterizzato da un braccio correttivo, che mira ad assicurare l’implementazione delle opportune misure negli Stati che oltrepassano, o sono a rischio di oltrepassare, i valori di riferimento previsti nel Patto. Il mancato rispetto di queste due regole porta, potenzialmente, ad una “procedura di infrazione per disavanzi eccessivi”. Tuttavia, con il fine di garantire agli Stati membri spazi di manovra per politiche fiscali espansive e, dunque, fronteggiare anti-ciclicamente lo shock causato dalla pandemia, il 23 marzo scorso la Commissione europea ha deciso di congelare la procedura di infrazione per il superamento della soglia percentuale del rapporto deficit/PIL nella valutazione di conformità alle regole dettate dal PSC (congelamento prorogato ufficiosamente sino al 2022[[6]]). Il tutto è avvenuto mediante l’attivazione, per la prima volta nella storia dell’Unione, della clausola di salvaguardia generale (General Escape Clause) del PSC[[7]]. Questa decisione, ed in generale il nuovo scenario politico-economico, ha riacceso il dibattito accademico e istituzionale sulle problematicità del Patto come effettivo strumento di coordinamento fiscale, oltre alla sua efficacia nel garantire una crescita omogenea all’interno dell’Unione[[8]]. A questo proposito, sono arrivate sul tavolo della Commissione una serie di proposte di riforma che tentano di superare l’eccessivo rigore in bilancio – con particolare riferimento all’eccessivo e problematico focus sull’equilibrio strutturale e l’output gap – garantendo invece un focus più proficuo sul tipo di spesa e il suo impatto nel medio-lungo periodo. L’European Fiscal Board (EFB), organo consultivo indipendente della Commissione europea[[9]], nel suo rapporto di agosto 2019[[10]] propone una radicale semplificazione delle regole, che dovrebbero focalizzarsi esclusivamente su un unico elemento, il debito pubblico, utilizzando come parametro di controllo il rapporto tra la spesa nominale e il reddito potenziale (determinato considerando gli ultimi cinque anni dalla presa in esame e i successivi cinque). Inoltre, l’organo propone una programmazione triennale, superando dunque i vincoli di bilancio annuali. Il modello di riforma del PSC caldeggiato in questi giorni dal Commissario europeo agli affari economici Paolo Gentiloni pare voglia seguire proprio la logica di quest’ultima proposta[[11]]. Un’altra proposta, avanzata anche dal Vice Presidente della Commissione UE Valdis Dombrovskis, è l’introduzione di una golden rule limitata ad alcune tipologie di investimento pubblico, la quale offrirebbe l’opportunità di scorporare dal calcolo della spesa nominale gli investimenti relativi ai progetti approvati dalla Commissione, e ritenuti non gravosi per il debito nel medio/lungo-periodo. In tal modo, non tutti gli investimenti pubblici verrebbero considerati dai meccanismi di calcolo del Patto[[12]]. Infine, vi è l’indicazione di abbandonare il poco proficuo sistema di sanzioni, sostituendolo con degli incentivi, che consentirebbero l’accesso ai fondi europei solo attraverso l’osservanza delle prescrizioni del Patto. È evidente come questo dibattito stia aprendo la strada ad una nuova stagione per il coordinamento delle politiche fiscali europee. Se da un lato si propenderà per un diverso approccio nella regolazione delle politiche dei singoli Stati membri, questo non vorrà dire libertà di spesa senza criterio. Se ci sarà una minore pressione sul numeratore – il debito –, ciò vorrà dire che sarà necessaria una crescita sostenuta – un focus sul denominatore – e quindi incentivi alla crescita, rintracciabili nel NGEU: una ricetta “keynesiana” riadattata. Non è ancora chiaro se nel nuovo Patto, per gli investimenti, sarà mantenuto il criterio di cofinanziamento, ma va da sé che questa flessibilità sulla spesa dovrà coniugarsi ad una progettualità negli investimenti, che abbiano un impatto nel medio-lungo periodo. Niente più investimenti a pioggia, progetti incompiuti e “cattedrali nel deserto”. [[1]] Consiglio. Statement of EU ministers of finance on the Stability and Growth Pact in light of the COVID-19 crisis, 23 marzo 2020. Disponibile all’indirizzo: https://www.consilium.europa.eu/en/press/press-releases/2020/03/23/statement-of-eu-ministers-of-finance-on-the-stability-and-growth-pact-in-light-of-the-covid-19-crisis/. [[2]] Eur-Lex. Patto di stabilità e crescita. Disponibile all’indirizzo: https://eur-lex.europa.eu/summary/glossary/stability_growth_pact.html?locale=it. [[3]] Villani, Ugo. Istituzioni di Diritto dell’Unione europea. Bari: Cacucci editore, 2020. [[4]] Trabucco, Daniele. Gli strumenti economici-finanziari dell’Unione europea per fronteggiare le conseguenze della pandemia causata dal Covid-19, Diritto pubblico europeo rassegna online, 2020. Disponibile all’indirizzo: http://www.camerablu.unina.it/index.php/dperonline/article/view/7006/7958. [[5]] Camera dei deputati. Politica economica e finanza pubblica: la regola del debito. Disponibile all’indirizzo: https://temi.camera.it/leg17/post/la_regola_del_debito. [[6]] Commissione europea. Communication from the Commission to the Council, 3 marzo 2021. Disponibile all’indirizzo: https://ec.europa.eu/info/sites/info/files/economy-finance/1_en_act_part1_v9.pdf. [[7]] Giannini, Bianca, e Oldani, Chiara. Governance fiscale e sostenibilità del debito pubblico. Moneta e credito, dicembre 2020. Disponibile all’indirizzo: https://ojs.uniroma1.it/index.php/monetaecredito/article/view/17302/16527. [[8]] B. Maarad, [Online]. L’UE sospenderà il patto di stabilità anche nel 2022. Agenzia giornalistica italiana, 3 marzo 2021. Disponibile all’indirizzo: https://www.agi.it/economia/news/2021-03-03/ue-patto-stabilita-sospeso-11623540/. [[9]] Commissione europea. European Fiscal Board. Disponibile all’indirizzo: https://ec.europa.eu/info/business-economy-euro/economic-and-fiscal-policy-coordination/european-fiscal-board-efb_en. [[10]] Commissione europea. European Fiscal Board: Assessment of EU fiscal rules with a focus on the six and two-pack legislation, agosto 2019. Disponibile all’indirizzo: https://ec.europa.eu/info/sites/info/files/2019-09-10-assessment-of-eu-fiscal-rules_en.pdf. [[11]] Commissione europea. Remarks by Commissioner Gentiloni on the updated approach to the fiscal policy response to the coronavirus pandemic, 3 marzo 2021. Disponibile all’indirizzo: https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/en/SPEECH_21_1012. [[12]] Bartolucci, Luca. La riforma delle regole fiscali europee: la proposta dello European Fiscal Board. Forum di quaderni costituzionali rassegna, 10 dicembre 2019. Disponibile all’indirizzo: https://iris.luiss.it/retrieve/handle/11385/191903/91058/La-riforma-delle-regole-fiscali-europee-la-proposta-dello-European-Fiscal-Board-%e2%80%93-L.-Bartolucci-1.pdf. A cura di Elisabetta Crevatin, Osservatorio sull'Unione europea
La Serbia in questo 2021 si è dimostrata particolarmente amichevole verso la Bosnia Erzegovina, esprimendo la volontà di regalarle 5000 vaccini AstraZeneca e acconsentendo la richiesta di quest’ultima di aprire un consolato a Novi Pazar.[1] Non è sempre stato questo il caso, in quanto i due stati hanno vissuto un passato travagliato, dalla guerra fratricida dovuta alla disgregazione della Jugoslavia ai conseguenti decenni di riassestamento. Sebbene Bosnia e Serbia continuino ad avere memorie discordanti della guerra, la loro volontà di entrare nell’Unione Europea ha avuto un’influenza importante sul loro riavvicinamento. Come dimostrato di seguito, infatti, l’UE ha notevolmente influenzato il rapporto serbo-bosniaco riguardo alla giustizia transizionale, alla cooperazione regionale e alla prevenzione dei conflitti. Prima di approfondire questi aspetti, è rilevante ricordare che l’allargamento dell’Unione Europea è un processo tortuoso composto da diverse fasi, i cui più importanti passaggi sono l’Accordo di Stabilizzazione e Associazione (ASA) e il successivo negoziato dei 35 capitoli di Copenaghen.[2] I paesi candidati devono conformarsi alla legislazione comunitaria nelle tematiche politiche ed economiche, quindi armonizzarsi all’Acquis communautaire.[3] A differenza dei processi di integrazione precedenti,[4] quello che sta avvenendo nei paesi balcanici è stringente. In particolare, se i candidati non dimostrano progressi sostanziali nei capitoli 23 (diritti fondamentali e il sistema giudiziario) e 24 (giustizia, sicurezza e libertà), i paesi membri possono interrompere il processo di integrazione.[5] Questo sistema di premi e punizioni è comunemente chiamato condizionalità dell’Unione Europea. Sia Bosnia che Serbia sono quindi condizionate dall’UE nelle politiche interne ed estere, con la differenza che la Serbia è una candidata ufficiale all’allargamento, mentre la Bosnia sta ancora finalizzando la messa in vigore del suo ASA.[6] Questa disparità può essere spiegata non solo comparando i loro PIL, ma anche il loro livello di coesione sociale. La Costituzione bosniaca è tutt’ora considerata non allineata con le raccomandazioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo siccome impedisce ai cittadini che non sono di minoranza bosniaca, serba o croata di assumere la presidenza del Paese.[7] Tale sistema consociativo tripartitico è il risultato del compromesso siglato dalle tre minoranze etniche durante gli accordi di pace, ed è quindi una clausola difficilmente ritrattabile. Anche la Serbia presenta le sue problematiche, in quanto il livello di corruzione, la mancanza di un’opposizione parlamentare solida e il conflitto diplomatico con il Kosovo stanno rallentando i suoi negoziati.[8] Dal 2008, però, la riorganizzazione dei partiti serbi ha marginalizzato sentimenti anti-europeisti, e incentivato un’agenda politica che dà la priorità alle richieste dell’Unione Europea.[9] Infatti, l’Unione Europea ha influenzato il comportamento dei due Paesi e posto come requisito tassativo quello della cooperazione regionale nei Balcani tramite forum regionali e bilaterali.[10] Serbia e Bosnia sono quindi state costantemente incentivate a mantenere buoni rapporti di vicinato, e a garantire una stabilità geopolitica ai margini dell’Unione. In modo da rafforzare questo rapporto bilaterale, l’UE si è occupata della giustizia transizionale riguardo alle violazioni dei diritti umani avvenuti durante la guerra in Bosnia.[11] Due sono i fronti principali: il genocidio di Srebrenica e la cooperazione con il Tribunale Penale Internazionale per l'ex-Jugoslavia (TPIJ). Parlare di Srebrenica è infatti tutt’ora problematico in quanto la Serbia non riconosce l’uccisione di ottomila mussulmani da parte delle truppe serbo-bosniache nel 1995 come genocidio. Questo suscita sdegno nella comunità internazionale e in Bosnia, la cui popolazione sta ancora rimarginando le ferite di guerra.[12] Per colpa di ciò, numerose volte i due Paesi si sono scontrati diplomaticamente, e nel 2015 il Primo Ministro serbo, Aleksandar Vučić, è stato aggredito durante la commemorazione annuale a Srebrenica.[13] In questo marasma, l’Unione Europea ha inequivocabilmente condannato le violenze avvenute e messo pressione alla Serbia affinché riconoscesse Srebrenica in quanto genocidio.[14] L’influenza che l’UE ha avuto verso la Serbia nel cooperare con il TPIJ è altrettanto rilevante. In particolare, ha posto come condizione per ricevere il visa free o l’entrata in vigore del ASA quella di perseguire i criminali di guerra serbi.[15] Gli arresti ed estradizioni di Karadžić (2009), Mladić (2011) e Hadžić (2011) hanno generato una risposta positiva da parte dell’UE, in quanto il Consiglio Europeo ha concesso alla Serbia lo status di candidata ufficiale nel 2012 e diversi organi dell’Unione Europea si sono congratulati con la Serbia per la sua cooperazione.[16] Tale mossa ha compiaciuto anche la Bosnia, che ha finalmente visto dei passi concreti da parte della Serbia nel prendere responsabilità delle avvenute violazioni dei diritti umani. Seconda sfera tematica di cui si è occupata l’UE è l’implementazione dell’accordo di Dayton in Bosnia. Sin dalla fine della guerra, infatti, l’Unione Europea si è proclamata guardiana di tale trattato ed esercita pressione sui politici bosniaci perché garantiscano la funzionalità della Costituzione.[17] La ripartizione della Bosnia in due entità amministrative, ovvero la Federazione croato-bosniaca e la Republika Srpska, ha generato più volte paralisi istituzionali e tensioni tra Serbia e Bosnia. Questo perché l’esponente serbo-bosniaco Milorad Dodik è feroce sostenitore di una possibile secessione della Republika Srpska e della sua successiva annessione alla Serbia; prospettiva che è stata caldeggiata sia dalla Russia che dalla Serbia stessa in passato.[18] Avere quindi l’Unione Europea come garante di Dayton è fondamentale nell’arginare qualsiasi spinta secessionistica, e nel ricordare sia alla Bosnia che alla Serbia che i confini vigenti non possono essere modificati. La disposizione della missione militare EUFOR Althea (2004) in Bosnia ha rafforzato tale concetto, creando deterrenza e ricordando ad altri attori internazionali, quali Russia e Cina, che l’Unione Europea rimane il principale arbitro nella regione.[19] I due Paesi sono lontani dal considerarsi buoni vicini, e ancora più remota è la possibilità di una repentina integrazione di Bosnia e Serbia all’interno dell’UE. Comparando però l’attuale situazione con gli avvenimenti dei decenni passati, entrambe le nazioni hanno fatto passi enormi, e l’Unione Europea è la principale fautrice di questa positiva metamorfosi. Al fine di raggiungere gli obiettivi finora perseguiti, l’UE deve continuare a focalizzarsi sulla cooperazione serbo-bosniaca, magari attuando una strategia simile a quella che usa verso il problema kosovaro. Il TPIJ è stato ormai chiuso, ma questo non vuol dire che i due Paesi non debbano continuare a lavorare per una solida giustizia transizionale. Inoltre, deve essere chiaro che la pressione russa verso la Serbia, sia a livello militare che petrolifero, è tutt’ora consistente.[20] Siccome l’Unione Europea guarda con preoccupazione a tutto ciò, è opportuno che ricordi alla Serbia i molteplici aspetti positivi derivanti all’integrazione UE nel breve e nel lungo periodo. Azioni come queste potrebbero prevenire sconvenienti disequilibri strategici in una delle più instabili regioni europee. [1] Reuters Staff. [Online] Former enemy Serbia donates COVID-19 vaccines to Bosnia's Muslims, Croats. Reuters. 2021. https://www.reuters.com/article/us-health-coronavirus-serbia-bosnia-idUSKBN2AU1HR . ; Talha Ozturk. [Online] Bosnia welcomes Serbian consent on opening of consulate. Anadolu Agency. 2021. https://www.aa.com.tr/en/politics/bosnia-welcomes-serbian-consent-on-opening-of-consulate/2158241. [2] Čaušević, Mirza and Gavrić, Tanja. Legal and economic aspects of integration of Bosnia and Herzegovina in the European Union. EU and comparative law issues and challenges series (ECLIC), 3, 2019. https://hrcak.srce.hr/ojs/index.php/eclic/article/view/8996 . [3] Ibid. [4] Srdjan Majstorović. [Online] To be or not to be – the case for Serbia’s European integration. Globalfocus. 2020. https://www.global-focus.eu/2019/08/not-case-serbias-european-integration/ . [5] Ibid. [6] European Commission. Key findings on the 2020 Report on Bosnia and Herzegovina. European Commission, 2020. https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/en/country_20_1793 ; European Commission. Key findings of the 2020 Report on Serbia. European Commission, 2020. https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/en/COUNTRY_20_1792 . [7] Ibid. [8] Ibid. [9] Vachudova, Milada Anna. EU enlargement and state capture in the Western Balkans. In: The Europeanisation of the Western Balkans. Palgrave Macmillan, Cham, 2019. https://www.researchgate.net/profile/Milada-Vachudova/publication/327823453_EU_Enlargement_and_State_Capture_in_the_Western_Balkans_A_Failure_of_EU_Conditionality/links/5f049466458515505091d75f/EU-Enlargement-and-State-Capture-in-the-Western-Balkans-A-Failure-of-EU-Conditionality.pdf . [10] Emini, Donika and Marku, Donika. Regional Security Cooperation in the Western Balkans. Institute for Democracy “Societas Civilis”. Skopje, North Macedonia, 2019. https://idscs.org.mk/wp-content/uploads/2019/06/a5_regional_security.pdf . [11] Wentholt, Niké. Mirroring transitional justice. Construction and impact of European Union ICTY-conditionality. Südosteuropa, 65.1, 2017. https://www.degruyter.com/document/doi/10.1515/soeu-2017-0005/html . [12] Alasdair Sandford. [Online] Srebrenica 25 years on: World leaders urged to counter Serbian genocide denial. Euronews. 2020. https://www.euronews.com/2020/07/11/srebrenica-25-years-on-world-leaders-urged-to-counter-serbian-genocide-denial . [13] Petrovic, Milenko and Wilson, Garth. Serbia’s relations with its Western Balkan neighbours as a challenge for its accession to the EU. Australian and New Zealand Journal of European Studies, 10.3, 2021. https://openjournals.library.sydney.edu.au/index.php/ANZJES/article/view/15203 . [14] Dragović-Soso, Jasna. Apologising for Srebrenica: the declaration of the Serbian parliament, the European Union and the politics of compromise. East European Politics, 28.2, 2012. https://rsa.tandfonline.com/doi/abs/10.1080/21599165.2012.669731. [15] Wentholt, Niké. Mirroring transitional justice, 2017. [16] Ibid. [17] Nielsen, Anton Holten, et al. Towards A Shared Future: Evaluating the Process and Structure of Europeanization and Conditionality as EU Accession Tools for Bosnia-Herzegovina. International Journal on Rule of Law, Transitional Justice and Human Rights, 11.11, 2020. https://www.ceeol.com/search/article-detail?id=932533 [18] Bećirević, Edina and Turčalo Sead. Russian influence in Bosnia and Herzegovina: How Russia’s support for anti-NATO forces could re-shape the country and the region. Democracy and Security in Southern Eastern Europe, 10:59, 2020. [19] Pulko, Ivana Boštjančič, Muherina, Meliha and Pejic, Nina. Analysing the effectiveness of EUFOR Althea operation in Bosnia and Herzegovina. European Perspectives, 8.2, 2016. https://www.researchgate.net/publication/318502143_Analysing_the_Effectiveness_of_EUFOR_Althea_Operation_in_Bosnia_and_Herzegovina . [20] Żakowska, Marzena. Strategic challenges for Serbia’s integration with the European Union. Ceon Repozytorium, 2016. https://depot.ceon.pl/bitstream/handle/123456789/15428/Strategic%20challenges%20for%20Serbia%20s%20integration%20with%20the%20European%20Union.pdf?sequence=3 . A cura di Irene Fratellini, Osservatorio sull'Unione europea
Il programma CASSINI (Competitive Space Start-ups for INnovatIon), annunciato nella EU SME Strategy 2021-2027, è un’iniziativa della Commissione Europea che promuove la competizione tra Piccole e Medie Imprese (PMI) nell’industria spaziale, stimolando la genesi di modelli imprenditoriali basati sulla tecnologia e la navigazione satellitare[1]. Le PMI sono il target di questa politica in quanto, costituendo più del 90% del tessuto industriale europeo, giocano un ruolo fondamentale nei programmi di sviluppo pro tempore, soprattutto nella transizione gemella di sostenibilità e digitalizzazione[2]. L’Unione Europea (UE) riconosce in CASSINI la potenzialità di aumentare la risonanza alle politiche di sostenibilità e cyber-sviluppo già in atto. Improntato sul dialogo costante tra istituzioni e imprese, CASSINI adotta un approccio bottom-up, per cui gli innovatori nel settore industriale sono chiamati a presentare il proprio progetto di imprenditoria spaziale, partecipando ai vari bandi di gara. Ai vincitori sarà data la possibilità di realizzare le proprie proposte tramite finanziamenti ed attività di coaching virtuale[3]. Il programma rappresenta un caso interessante nell’ambito della legislazione europea. In assenza di programmi imprenditoriali di tipo tecnologico-spaziale a livello nazionale, l’idea è di compiere un avanzamento congiunto su questo fronte. Tuttavia, analizzando questa iniziativa sulla base di tre dei criteri cardine di fitness-check, ossia efficacia, coerenza e valore aggiunto europeo[4], essa presenta alcune criticità di fondo. In primo luogo, la mancanza di un quadro di regolamentazione di tipo industriale-spaziale impedisce di verificare la coerenza esterna della norma, che quindi può essere esaminata solo in relazione al quadro normativo di difesa. La base legale è stata identificata nell’Articolo 6 del programma spaziale dell’Unione, che consente l’istituzione di programmi di sostegno finalizzati al potenziamento dell’innovazione e della competizione del settore spaziale dell’UE[5]. Di conseguenza, CASSINI sarà gestito solo ed esclusivamente dal DG DEFIS[6]. In secondo luogo, quest’iniziativa è, in embrione, figlia di una prospettiva mono-oculare. Ciò significa che non vi sarà alcuna regolamentazione nell'area della concorrenza, delle telecomunicazioni o della sicurezza dei prodotti. L’illecito concorrenziale nello spazio non esiste ancora. Perciò, all’atto pratico, un’impresa potrebbe danneggiare il satellite di un suo concorrente, rimanendo impunita[7]. Quest’ultimo aspetto rischia di diventare una grave mancanza nel lungo termine, potenzialmente minando l’efficacia dell’iniziativa. Per di più, il processo di implementazione delle proposte imprenditoriali è ad oggi già attivo, al netto della conclusione delle prime competizioni, come il Galileo Masters[8] ed il Copernicus Accelerator[9]. Pertanto, è della massima urgenza creare un quadro normativo industriale sul fronte spaziale, che rispecchi quello terrestre. Senza uno sforzo legislativo coerente, gli eventuali progetti sarebbero realizzati in un contesto normativo indefinito e confusionale, nel quale le imprese dovrebbero agire senza conoscere con certezza i limiti delle loro azioni. Questo potrebbe portare a una vera e propria corsa verso le “bandiere di convenienza”, ignorando l’impatto che ogni piano di sviluppo ha sugli altri[10]. Una seconda riflessione riguarda il valore aggiunto per l’UE che CASSINI rappresenterebbe. Lanciando un’iniziativa di impresa non convenzionale, l'Unione rafforza l'innovazione nei piani di crescita a fronte di un contesto che forse richiede un’azione più completa, volta a valorizzare le tecnologie spaziali come cardini dello sviluppo sostenibile e della collaborazione internazionale. Più nello specifico, l’evidenza empirica suggerisce come un piano di crescita che integri l'uso delle tecnologie spaziali sia particolarmente valido nel settore primario e sanitario[11]. L’introduzione di queste risorse potrebbe dare una svolta agli standard di produttività sostenibile nel campo della produzione agricola. Infatti, l’UE si è impegnata a riformare la Politica Agricola Comune (PAC) integrandovi misure “verdi”, senza tuttavia raggiungere gli obiettivi preposti[12]. In seno alla valutazione del pacchetto di riforme della PAC del 2013, si evince la necessità di adottare in primis un approccio decentralizzato e capillare che profili un intervento ad-hoc. Questo si allinea alla logica del CASSINI, che incoraggia l’elaborazione di piani di sviluppo dal basso. In più, anello mancante al supporto dell’agricoltura sostenibile è una puntuale strategia di monitoraggio[13]. L’uso della tecnologia spaziale risulta particolarmente utile su questo fronte. Gli agricoltori potrebbero monitorare l’andamento sostenibile delle colture avvalendosi di una navigazione satellitare intelligente che segnali dati-chiave circa lo status di fertilità del suolo, della copertura nevosa e della produttività. Queste innovazioni potrebbero portare a una gestione più cosciente delle risorse naturali, attraverso l’applicazione della cosiddetta agricoltura di precisione[14]. D’altro canto, l’applicazione di tecnologie di telerilevamento nel settore sanitario può produrre dati geo-spaziali utili ai dipartimenti di ricerca delle aziende chimico-farmaceutiche per il monitoraggio della diffusione delle malattie, nonché per la previsione delle aree a rischio. Ciò potrebbe aumentare le possibilità delle PMI – e start-up - europee di (ri)creare una comunità sana, accelerando al tempo stesso la loro crescita. A questo scopo, Galileo Masters ha esortato i partecipanti al bando di gara corrente all’elaborazione di soluzioni che utilizzino i dati spaziali per sviluppare applicazioni innovative a contrasto della diffusione del COVID-19[15]. Incoraggiare le PMI europee a spingersi oltre ai confini terrestri, valorizzando i propri progetti e identificandole come punto di partenza per il progresso industriale nello spazio è già sinonimo di innovazione. Il modello su cui si struttura sta mostrando una certa efficacia, che rende anche possibile identificare ulteriori aree di applicazione. Ciononostante, questo potenziale è attenuato da una vera e propria vacatio legis industriale in ottica spaziale, tale per cui, se “nessuna politica esiste nel vuoto”[16] citando il mantra della Commissione Europea, per CASSINI sembra non essere così. A maggior ragione, trattandosi di una strategia per le PMI - spesso in difficoltà a conformarsi con la complessità delle norme che le regolano - il margine di azione deve essere chiaro e definito. Se davvero è previsto un supporto concreto per le piccole realtà, è bene che esse siano messe nella posizione di poter valutare le proprie scelte imprenditoriali, senza lo spettro di sorprese future o riforme a singhiozzo. [1]Startup Europe Club, Cassini. 2020.Disponibile a: https://startupeuropeclub.eu/cassini/ [2] Commissione Europea, Entrepreneurship and Small and medium-sized enterprises (SMEs). 2018. Disponibile a: https://ec.europa.eu/growth/smes_nl [3] Startup Europe Club, Cassini. 2020. Disponibile a: https://startupeuropeclub.eu/cassini/ [4] Commissione Europea. Chapter VI, Guidelines on evaluation (including fitness checks). Better regulation guidelines. 2017. Disponibile a: https://ec.europa.eu/info/sites/info/files/better-regulation-guidelines-evaluation-fitness-checks.pdf [5] Commissione Europea, COM(2018) 447 final. 2018. Disponibile a: https://eur-lex.europa.eu/resource.html?uri=cellar:33f7d93e-6af6-11e8-9483-01aa75ed71a1.0003.03/DOC_1&format=PDF [6] Directorate-General of Defence Industry and Space [7] Pwc. Main trends and challenges in the space sector. 2019. Disponibile a: https://www.pwc.fr/fr/assets/files/pdf/2019/06/fr-pwc-main-trends-and-challenges-in-the-space-sector.pdf [8] Galileo Masters, The Leading Innovation competition for satellite navigation. 2020. Disponibile a: https://galileo-masters.eu [9] Copernicus Accelerator, Copernicus Accelerator. 2020. Disponibile a: https://accelerator.copernicus.eu/start-ups/ [10] Pwc. Main trends and challenges in the space sector. 2019. Disponibile a: https://www.pwc.fr/fr/assets/files/pdf/2019/06/fr-pwc-main-trends-and-challenges-in-the-space-sector.pdf [11] Commissione per la scienza e la tecnologia per lo sviluppo, Exploring space technologies for sustainable development and the benefits of international research collaboration in this context. 2019. Disponibile a: https://unctad.org/system/files/official-document/CSTD2019-2020_Issues02_Space_en.pdf [12] Commissione Europea, COM(1999) 0022 final. 1999. Disponibile a: https://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/HTML/?uri=CELEX:51999DC0022&from=EN [13] Parlamento Europeo, Research for Agri Committee – Policy support for productivity vs. Sustainability in EU Agriculture: Towards viable farming and green growth. 2017.Disponibile a: https://www.europarl.europa.eu/RegData/etudes/STUD/2017/585905/IPOL_STU(2017)585905_EN.pdf [14] Commissione per la scienza e la tecnologia per lo sviluppo, Exploring space technologies for sustainable development and the benefits of international research collaboration in this context. 2019.Disponibile a: https://unctad.org/system/files/official-document/CSTD2019-2020_Issues02_Space_en.pdf [15]Galileo Masters, The Leading Innovation competition for satellite navigation. 2020. Disponibile a: https://galileo-masters.eu [16] Commissione Europea. Chapter VI, Guidelines on evaluation (including fitness checks). Better regulation guidelines. 2017. Pg. 62. Disponibile a: https://ec.europa.eu/info/sites/info/files/better-regulation-guidelines-evaluation-fitness-checks.pdf A cura di Carlo Comensoli e Rossella Savojardo, Elections Hub
Gli esiti delle elezioni per il rinnovo della Camera Bassa olandese confermano l’attuale maggioranza di governo guidata dal leader del Partito Popolare per la Libertà e la Democrazia (VVD) Mark Rutte. Nonostante la crisi di governo e le dimissioni dello scorso gennaio, la sua riconferma come Primo Ministro è già data quasi per scontata dalle prime proiezioni. I risultati delle legislative del 17 marzo portato comunque con sé grandi novità relative soprattutto alla riconfigurazione, anche se non del tutto, dell’assetto politico del parlamento olandese. Nel complesso l’elezione ha visto un’alta affluenza, ha votato infatti circa l’80% degli aventi diritto. Un dato che si riempie anche di un valore simbolico dal momento che le legislative nei Paesi Bassi di ieri sono uno dei principali appuntamenti elettorali in Europa durante la pandemia da COVID-19. L’alta partecipazione è stata possibile anche grazie alle misure messe in campo per l’occasione, con un parziale allentamento delle restrizioni, l’apertura dei seggi per tre giorni consecutivi e la possibilità di votare per corrispondenza. Con le elezioni di questa settimana, il VVD di Rutte rimane il primo partito guadagnando tre seggi, per un totale di trentasei sui centocinquanta totali della Camera. Ma la principale novità è stato il risultato del partito liberale europeista D66 che, stando alle proiezioni all’indomani del voto, ha registrato un incremento delle preferenze, contrariamente a quanto previsto dai sondaggi. Passando da diciassette a ventiquattro seggi, il partito guidato dalla Ministra del commercio estero e dello sviluppo economico Sigrid Kaag sarà il secondo partito per numero di Rappresentanti nella prossima legislatura. Infatti, se già dal 2017 il D66 faceva parte della coalizione guidata da Rutte, grazie ai risultati di ieri avrà più voce in capitolo, a discapito degli altri due partiti al governo. Mentre infatti l’Unione Cristiana (CU) mantiene i cinque seggi attuali, l’Appello Cristiano Democratico (CDA), partito di centrodestra guidato dal Ministro delle Finanze uscente Wopke Hoekstra, passa da diciannove a quindici seggi. Anche all’opposizione si registra una riconfigurazione, dovuta innanzitutto al calo di preferenze del Partito per la Libertà (PVV) guidato da Geert Wilders. Se il PVV, noto per le posizioni euroscettiche, era stato la principale novità alle scorse elezioni del 2017, da cui uscì come il secondo partito per numero di seggi pur non entrando poi in coalizione con Rutte, quest’anno ha registrato una perdita di tre seggi, posizionandosi dietro al D66. Già prima delle elezioni, quando si pronosticava una perdita più limitata per il PVV, Rutte e gli altri rappresentanti dei partiti al governo avevano escluso qualsiasi ipotesi di coalizione con Wilders. Visti i risultati, il Partito per la Libertà nei prossimi quattro anni avrà meno influenza sulla scena politica olandese, anche per il semplice fatto di essere stato scalzato proprio dalla principale forza europeista di centro. Sempre a destra, contrariamente alle aspettative, il partito conservatore di estrema destra Forum della Democrazia (FvD) è riuscito a ottenere otto Rappresentanti. Un risultato migliore di quanto previsto dai sondaggi delle scorse settimane, ma comunque lontano da quanto si prospettava nel 2019. Prima della pandemia e della crisi all’interno del partito, il FvD di Thierry Baudet sembrava infatti destinato a ottenere più di venti seggi. Continuano invece le difficoltà per il centrosinistra nel tentativo di rafforzare la propria presenza dopo la disfatta del 2017. Il Partito per il Lavoro (PvdA), che dovrebbe essere la forza principale di quest'area politica, rimane fermo ai soli nove Rappresentanti che già aveva durante la scorsa legislatura, segno di una stagnazione per certi versi simile a quella del Partito Socialista in Francia. Il problema di quest’area dell’opposizione è stata la mancanza di una leadership credibile che potesse rappresentare un’alternativa al centrodestra di Rutte. Lo stesso PvdA lo scorso gennaio ha anche sofferto a causa delle dimissioni del leader Lodewijlk Asscher, che era Ministro degli affari sociali e del lavoro in coalizione con Rutte all’epoca dei casi che hanno poi portato all’inchiesta parlamentare sullo scandalo dei sussidi per cui lo scorso governo si è dimesso. Di per sé la riconferma di Mark Rutte alla guida dell’esecutivo non costituisce una novità ed era già stata pronosticata nelle scorse settimane, quando la vittoria alle elezioni del leader liberale sembrava già l’unico scenario possibile. Si può anche osservare che l’inizio del suo quarto mandato avviene a pochi mesi dalle elezioni legislative in Germania che vedranno l’uscita di scena di Angela Merkel, cancelliera da quindici anni. Rutte ne esce quindi sicuramente rafforzato, anche nel panorama europeo. Già l’anno scorso il Capo dell’esecutivo olandese, durante i negoziati per il lancio del piano Next Generation EU, era di fatto alla guida dei leader dei Paesi cosiddetti “frugali”, con una posizione scettica per quanto riguarda gli aiuti a fondo perduto. Stando ai sondaggi di opinione, questa presa di posizione la scorsa estate vedeva l’approvazione della maggior parte dell’elettorato olandese. Al netto dei risultati delle elezioni, nonostante l’ampia vittoria del centrodestra e sconfitta della sinistra, l’assetto parlamentare dei Paesi Bassi che sembra costituirsi riflette la frammentazione della situazione politica e ideologica dell’intero paese. Sebbene per i prossimi quattro anni si prospetti una coalizione di governo con gli stessi quattro partiti precedenti, l’exploit del partito D66 dovrebbe cambiare gli equilibri all’interno della maggioranza: la crescita di consensi per il partito liberale europeista potrebbe infatti portare Mark Rutte ad avere un approccio meno intransigente nei confronti delle politiche comunitarie. a cura di Laura Schella Stati Uniti e Arabia Saudita stabilirono le prime relazioni diplomatiche già a partire dagli anni ’30 del Novecento: a solo un anno dalla fondazione del Regno, avvenuta nel 1932, la Standard Oil Company of California (oggi nota con il nome Chevron) vinse una concessione sessantennale per esplorazioni petrolifere in territorio saudita. Nei decenni successivi i rapporti tra questi due Paesi si sono rafforzati e in diverse occasioni hanno collaborato per mantenere stabilità nella regione mediorientale. Dal punto di vista dell’Arabia Saudita, solo gli Stati Uniti possono garantire la sicurezza militare contro attacchi esterni, soprattutto provenienti dalla Repubblica Islamica dell'Iran; dall’altro lato gli americani hanno interesse ad accedere alle abbondanti risorse petrolifere della Monarchia saudita. La partnership tra questi due Stati è stata sempre definita da entrambe le parti come “strategica” ma recenti episodi, tra cui l’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi, potrebbero spingere la nuova amministrazione statunitense del Presidente Joe Biden a ricalibrarla. Dal 2017 l’immagine della monarchia saudita è incarnata da Mohammad Bin Salman Al Sa’ud, il figlio dell’attuale re Salman, salito al trono nel gennaio del 2015 dopo la morte del fratellastro Abd Allah. Nel 2017 Muhammad sostituì Muhammad bin Nayef come Principe della Corona (principe ereditario) e divenne dunque futuro successore dell’attuale sovrano. Il Principe, data la sua giovane età, si è costruito consenso soprattutto nella fascia della popolazione al di sotto dei trent’anni, dove le sue istanze di modernizzazione sono state accolte con entusiasmo. Parimenti, le riforme a favore delle donne, tra cui la possibilità di guidare, hanno incontrato l’appoggio dell’opinione pubblica internazionale che, soprattutto dopo gli attentati terroristici dell'11 settembre 2001, guarda con diffidenza la rigida interpretazione del pensiero dell’Islam sunnita propugnato dal Wahhabismo, l’ideologia prevalente in Arabia Saudita. Queste riforme, seppur contenute, a favore delle donne sembrano essere parte del progetto di crescita economica di lungo termine, noto come Vision 2030. Nell’introduzione del documento ufficiale di presentazione, lo stesso Principe ereditario afferma che “Tutte le storie di successo iniziano con una visione e le visioni di successo si basano su forti pilastri”: la visione è quella di rendere il Paese “un pioniere, un modello globale di successo di eccellenza su tutti i fronti”, sfruttando l’importanza simbolica di “cuore” del mondo islamico, la determinazione di diventare un centro globale di investimenti e un hub di raccordo delle supply chain di Europa, Asia e Africa. La grandiosa visione sostenuta dal Principe bin Salman potrebbe tuttavia essere compromessa da alcune problematiche: in primo luogo, perché il Paese possa crescere secondo le aspettative della Vision 2030, è necessario mantenere un’immagine di affidabilità e stabilità che possa attirare investitori esteri ma il crescente autoritarismo non sembra favorire il giusto clima di fiducia per gli investimenti stranieri. Inoltre, la ricchezza dell’Arabia Saudita dipende dall’andamento dei prezzi del petrolio che, nella primavera del 2020, avevano subito un crollo vertiginoso ulteriormente incrementato dalle difficoltà nel trovare un accordo sulla produzione giornaliera di barili tra Russia ed Arabia Saudita. I due Stati riuscirono poi ad accordarsi, ma recentemente le autorità saudite hanno dichiarato che anche durante il mese di aprile 2021 sarebbe proseguito il taglio volontario di produzione di un milione di barili al giorno, per mantenere il prezzo del petrolio stabile ed evitare un eccessivo margine di differenza tra domanda ed offerta. Se i prezzi del greggio dovessero rimanere bassi la crescita economica saudita potrebbe essere seriamente compromessa. Venerdì 26 febbraio 2021 la nuova amministrazione del Presidente Biden ha declassificato un report del National Intelligence che evidenzia le responsabilità di bin Salman nell’uccisione del giornalista Jamal Khashoggi. Le conclusioni a cui l’intelligence statunitense è giunta si basano sul fatto che “dal 2017 il Principe ereditario ha assoluto controllo delle organizzazioni di sicurezza e di intelligence del Regno, conseguentemente sarebbe altamente improbabile che gli ufficiali sauditi abbiano portato avanti un’operazione di questa natura senza [la sua] autorizzazione”. I rapporti tra la monarchia saudita e la precedente amministrazione di Donald Trump sono stati positivi: l’Arabia Saudita ha fortemente appoggiato la decisione statunitense di ritirarsi dall’accordo sul nucleare con l’Iran e in più occasioni tra i due Paesi sono stati conclusi accordi per la vendita di materiale bellico. Ora, la nuova presidenza Biden sembra voler ritornare a porre l’accento su democrazia e rispetto dei diritti umani, valori questi che potrebbero portare ad un riassetto delle relazioni tra Stati Uniti e Arabia Saudita. Un’altra fonte di tensione è la guerra in Yemen. Lo scorso febbraio gli Stati Uniti hanno parzialmente bloccato la vendita di armi all’Arabia Saudita: l’obiettivo è quello di mantenere l’impegno nella lotta contro il terrorismo e il comune nemico iraniano ma, allo stesso tempo, porre fine alla sanguinosa guerra civile in Yemen. La decisione statunitense è chiaramente in rottura con l’amministrazione precedente: fino agli ultimi giorni della sua presidenza, Trump ha concluso accordi di vendita di materiale bellico (è bene ricordare che secondo l'International Institute for Strategic Studies l’Arabia Saudita era al terzo posto nella classifica dei paesi che spende di più nel settore militare) e ha inoltre incluso il gruppo ribelle degli Houthi nella lista delle organizzazioni terroristiche. L’Arabia Saudita potrebbe diversificare maggiormente i suoi rapporti diplomatici, per esempio con Russia e Cina. Nel primo caso, le tensioni con Mosca la scorsa primavera non lasciano presagire un ruolo decisivo della Russia come partner strategico saudita, nel secondo caso le relazioni tra i due Paesi, benché rilevanti, riguardano essenzialmente l’esportazione di petrolio verso il mercato cinese. In conclusione, la partnership strategica tra Stati Uniti e Arabia Saudita è destinata a durare, pur forse subendo un ridimensionamento. La stesso Presidente Biden, pur adottando sanzioni contro i responsabili dell’uccisione di Khashoggi, non ha rilasciato dichiarazioni di aperta condanna nei confronti del Principe bin Salman. Dall’altro lato, potrebbe essere molto difficile da parte saudita trovare un’alternativa valida capace di fornire la sicurezza militare e l’accesso a tecnologie avanzate come gli Stati Uniti.
A cura di Marco Monaco, Osservatorio sull'Unione europea
Il 2021 potrebbe rappresentare un importante punto di svolta per l’Unione Europea (UE) in tema di sicurezza e difesa. Il 16 giugno 2020, il Consiglio Affari Esteri ha tenuto una videoconferenza in merito all’elaborazione di un nuovo documento, denominato Strategic Compass e mirato al rafforzamento di una cultura di sicurezza e difesa comune a livello europeo. [1] Al contrario dell’ormai consolidato percorso di integrazione economica, negli ultimi trent’anni gli sforzi europei verso l’acquisizione di un ruolo autonomo come attore di sicurezza e politica estera sono stati ripetutamente ostacolati dall’ingerenza degli stati membri, intenzionati a mantenere alcune fondamentali prerogative caratteristiche della propria sovranità, particolarmente in tema di difesa ed uso della forza. Non è un caso, a tal proposito, che la Politica di Sicurezza e Difesa Comune (PSDC), responsabile dell’implementazione delle operazioni militari e missioni civili dell’UE, sia di fatto nelle mani degli stati membri, piuttosto che delle istituzioni sovranazionali dell’UE. Ciò in quanto gli stati europei detengono un sostanziale potere di veto grazie al sistema di voto all’unanimità nei processi di decision-making di tale settore.[2] In altre parole, l’ambito della sicurezza e della politica estera dell’Unione Europea non ha mai pienamente superato la fase di intergovernamentalismo. Nel 2016, l’elaborazione della ‘Global Strategy for the European Union’s Foreign And Security Policy’ ha permesso all’Unione di compiere, almeno al livello dichiaratorio, un importante passo in avanti verso la desiderata autonomia strategica. Il documento della Global Strategy, presentato con l’idea di elaborare una ‘visione condivisa per un’azione comune’, ha di fatto donato un fondamentale orientamento concettuale alla politica estera e di sicurezza dell’Unione. [3] Entrando nella ristretta cerchia dei documenti che compongono il cosiddetto ‘discorso securitario europeo’, la Global Strategy definisce il contesto internazionale contemporaneo come motivo di crisi per l’Unione, in cui “lo scopo e persino l’esistenza della nostra Unione sono messi in discussione”. [4] Per tale motivo, il documento focalizza la propria attenzione sulle minacce e le priorità dell’UE in termini di azione esterna e politica di sicurezza, ponendo cinque priorità fondamentali: la sicurezza dell’UE, la resilienza statale e sociale nelle periferie meridionali ed orientali, il raggiungimento di un approccio integrato verso i conflitti e le crisi, lo sviluppo di cooperazione e governance a livello regionale, ed infine, ma non per importanza, lo sviluppo di una governance globale. [5] È questo il contesto in cui il sopracitato Strategic Compass prende vita. Rispondendo alla richiesta della Global Strategy di incrementare il livello di ambizione, la credibilità e le capacità di risposta dell’Unione Europea, la nuova ‘bussola strategica’ mira a tradurre le priorità dichiarate nel 2016 in capacità pragmatiche. Sebbene il focus principale dello Strategic Compass dovrebbe riguardare l’ambito militare, l’evoluzione del concetto stesso di sicurezza ed il progressivo emergere di minacce ibride porterà con tutta probabilità all’inclusione di numerosi elementi non strettamente legati all’uso della forza. A simboleggiare il significativo passo in avanti verso una reale integrazione e concretizzazione delle capacità che lo Strategic Compass spera di apportare alla sicurezza e difesa europee, la prima fase dell’elaborazione del documento ha già coinvolto un’importante novità rispetto al passato. L’Unione ha infatti effettuato per la prima volta un’analisi delle minacce completa ed approfondita tramite un lavoro congiunto del EU Intelligence Centre e del EU Military Staff Intelligence. La mancanza di un’analisi di questo genere in ambito sovranazionale aveva fino ad oggi seriamente ostacolato la capacità di stabilire quale fosse la portata delle minacce più incombenti e quali misure fossero necessarie per affrontarle. [6] L’analisi, presentata ai governi degli Stati Membri, costituisce ad oggi un documento classificato, di cui non è possibile conoscere il contenuto nel dettaglio. Tuttavia, ciò che il Servizio Europeo per l’Azione Esterna ha dichiarato è che sono state dovutamente analizzate ed identificate le minacce di carattere globale (tra cui la crescita della rivalità economica tra grandi potenze e il cambiamento climatico), regionale (principalmente relative ad instabilità e conflitti) e di carattere ibrido (cyber-threats, disinformazione, terrorismo) che metteranno negli anni a venire a dura prova la sicurezza dell’Unione e dei suoi membri. [7] Alla luce di ciò, sono state definite quattro macroaree fondamentali, o baskets, in cui lo Strategic Compass dovrebbe intervenire per consolidare e rafforzare le capacità dell’UE: le missioni di crisis management, la resilienza, lo sviluppo capacitivo ed i partenariati. I passi successivi verso l’elaborazione del documento vedranno il 2021 come teatro di un potenziale passo in avanti determinante per la sicurezza e la difesa europee. Innanzitutto, nella prima metà dell’anno verrà intavolato un dialogo con gli stati membri in merito al documento, definendo quali saranno gli specifici obiettivi dell’UE all’interno delle macroaree e quali misure andranno prese in considerazione ed implementate per far fronte alle numerose minacce identificate dall’analisi dei servizi di intelligence europei. La discussione era già prevista per il Consiglio Affari Esteri del 22 febbraio 2021, ma è stata posticipata alla prossima seduta del Consiglio, che si terrà il prossimo 22 marzo. [8] Nel corso della seconda metà di quest’anno, una volta conclusa la discussione con gli stati membri dell’Unione, si procederà alla formulazione pratica dello Strategic Compass, con la prospettiva che esso venga adottato ed implementato nei primi mesi del 2022. La domanda che sorge spontanea è, dunque, se il documento riuscirà o meno nel suo intento di colmare molte delle lacune operative (e spesso divisioni ideologico-strategiche) che hanno affossato fino ad oggi un consolidato approccio sovranazionale in ambito di sicurezza e difesa. Ciò implicherebbe porre gli stati membri in una prospettiva tale da dare alle priorità e alle minacce della sicurezza europea un peso eguale, se non maggiore, di quelle nazionali. Certo è che, anche solo per rappresentare un valido tentativo in tal senso, lo Strategic Compass andrà concepito ed implementato in piena sinergia non solo con le altre strutture ed iniziative di sicurezza ed azione estera dell’UE già in vigore, ma anche e soprattutto con il più ampio contesto di interazione strategica europea, la quale non può ignorare il supporto, le attività e le priorità di altri attori che contribuiscono alla sicurezza dell’Unione, primo fra tutti la NATO. [9] In un contesto internazionale in rapido mutamento, in cui una crescente proliferazione delle minacce mette in discussione ogni aspetto della sicurezza (sia essa dei cittadini, dei territori o della stabilità dei regimi nazionali e sovranazionali), l’Unione necessita di nuove e rafforzate capacità per preparare, prevenire e proteggere i propri membri rispetto alle minacce incombenti. Se il processo di elaborazione dello Strategic Compass sarà in grado di consolidare una cultura di sicurezza e difesa comune a livello europeo e portare ad una convergenza concreta, oltre che dichiarata, delle priorità degli stati membri in tema di sicurezza, questo documento potrà davvero essere definito una nuova ‘bussola’ per la sicurezza in Europa.
A cura di Stefania Calciati, Osservatorio sull'Unione europea
Lo scorso dicembre, la Commissione Europea ha deciso di sospendere circa 88 milioni di euro[1] in pagamenti a sostegno del bilancio statale etiope, a causa di probabili violazioni dei diritti umani nella regione del Tigray. In un primo momento, questa notizia è passata piuttosto inosservata al di fuori dei canali specializzati nella cooperazione. Tuttavia, le difficoltà della Commissione nel convincere la Germania a replicare l’iniziativa a livello domestico hanno evidenziato l’importanza strategica di questa decisione. In più, il deteriorarsi della situazione umanitaria nel Tigray nel corso di febbraio ha portato la questione all’attenzione di Michelle Bachelet. Il 4 marzo, infatti, l’Alta Commissaria per i Diritti Umani alle Nazioni Unite (ONU) ha esortato il governo etiope a consentire l’accesso alla regione per condurre un’inchiesta volta a stabilire la veridicità delle segnalazioni[2] di “crimini di guerra e contro l’umanità”[3] nel Tigray. Le attività della Commissione in Etiopia Proprio la rinnovata attenzione internazionale degli ultimi giorni sottolinea la tempestività con cui la Commissione ha assunto una posizione già a dicembre. Per capire l’importanza di questa decisione, è necessario considerare la lunga relazione di cooperazione tra l’Unione Europea (UE) e l’Etiopia per lo sviluppo economico, ma anche in ambito strategico e diplomatico. Ad esempio, durante l’incontro bilaterale UE-Etiopia su migrazione e mobilità del 2015, l'allora Alta Rappresentante Mogherini ha sottolineato come da “ben 40 anni[4]” (cioè dalla firma della Convenzione di Lomè nel 1975) l’Etiopia sia un partner strategico dell’Unione nel Corno D’Africa. In aggiunta, la presenza della sede centrale dell’Unione Africana proprio ad Addis Abeba la rende particolarmente rilevante in campo diplomatico. Non a caso la prima visita istituzionale al di fuori dall’UE della Presidente Von der Leyen nel 2019 ha avuto come destinazione l’Etiopia[5]. Per quanto riguarda lo sviluppo economico, la maggior parte degli aiuti allocati all’Etiopia vengono gestiti dal Fondo Europeo di Sviluppo. Nel periodo 2014-2020, l’Etiopia è stata uno dei Paesi a cui l’UE ha assegnato più fondi, in totale 815 milioni nell’Undicesimo Piano Indicativo Nazionale[6]. Tra gli obiettivi principali del Piano figurano misure volte ad alleviare i gravi problemi di povertà e malnutrizione, a potenziare la risposta sanitaria, e a sviluppare la rete stradale, azioni fondamentali per consentire al Paese di sostenere il solido tasso di crescita del 10% annuo dell’ultimo decennio. Tuttavia, la sospensione del supporto al bilancio dichiarata in dicembre non include la totalità dei fondi per il periodo 2014-2020. Infatti, attraverso i Piani Indicativi, l’UE indica le somme allocate, ma anche le organizzazioni responsabili dell’implementazione dei vari progetti, che possono essere messi in opera dal governo nazionale, ma anche da ONG, agenzie dell’ONU o banche per lo sviluppo. Le relazioni bilaterali Germania-Etiopia Tra i paesi membri dell’UE, la Germania mantiene rapporti molti stretti con l’Etiopia, e in particolare con l’attuale governo, presieduto da Abiy Ahmed. È proprio in virtù di questa relazione privilegiata che devono leggersi le dichiarazioni[7] fatte a febbraio dal Ministro dello Sviluppo, intenzionato a supportare il governo etiope durante la crisi. Infatti, il ruolo centrale di Abiy nella firma del Trattato di Pace con l’Eritrea gli è valso il Premio Nobel per la Pace nel 2019 e l’ha avvicinato alla Germania. In quell’anno, i fondi bilaterali tedeschi hanno raggiunto la cifra di 350 milioni[8], grazie all’audace programma di riforme libertarie iniziato da Abiy. Secondo quanto è trasparito della chiamata tra Angela Merkel e il Primo Ministro etiope a inizio febbraio, la Cancelliera avrebbe sottolineato l’importanza di risolvere la crisi del Tigray, applicando pressione diplomatica ed economica al Governo etiope. Sembra quindi che Commissione e Germania condividano le stesse preoccupazioni, tuttavia manca un consenso sulla strategia migliore tra l’approccio tedesco, più diplomatico, e la “linea dura” scelta dalla Commissione. Da un lato il governo etiope ha sicuramente bisogno di fondi per reagire alla crisi sanitaria e umanitaria non solo in Tigray ma in tutto il Paese. Tuttavia, secondo la Croce Rossa[9] e USAID[10], la dura risposta militare del governo ha di fatto escluso gran parte della popolazione dalla ricezione di generi di prima necessità e spesso dall’accesso alla rete elettrica. È chiaro, però, che la strategia della Commissione può funzionare solamente con l’adesione degli stati membri alla sospensione dei fondi bilaterali. Proprio su incarico della Commissione e forse con l’intenzione di convincere gli stati membri ad adottare una linea dura e univoca, il Ministro degli Esteri finlandese, Pekka Haavisto, è stato recentemente mandato in missione nel Tigray per accertarsi della situazione in prima persona. Successivamente, durante la seduta del Consiglio Europeo del 23 febbraio, ha relazionato sulla sua missione nella regione. Haavisto ha definito la situazione “fuori controllo”, confermando che l’80% della popolazione nella regione è esclusa dalla ricezione di aiuti umanitari da ormai vari mesi[11]. Risvolti geopolitici e ultimi sviluppi La linea d’azione adottata dall’UE si inserisce in un quadro geopolitico complesso, in cui altri donatori, primo fra tutti la Cina[12], sembrano invece intenzionati a continuare la loro cooperazione economica con il governo etiope. La sospensione dei fondi di supporto al bilancio potrebbe quindi allontanare l’Etiopia, che prima dello scoppio della crisi nel Tigray era considerata un interlocutore credibile nell’area per l’UE. Allo stesso tempo, anche l’impegno economico cinese in Etiopia è stato ampliato negli ultimi anni, in particolare attraverso investimenti volti a completare la linea ferroviaria tra Addis Abeba e il Djibouti, una risorsa cruciale per un Paese senza accesso diretto al mare. Inoltre, proprio in Djibouti si trova l’unica base militare cinese in Africa, per cui il trasporto diretto verso Addis Abeba consentirebbe alla Cina di avere una maggiore capacità di supportare le missioni ONU a cui partecipa, specialmente UNMISS nel Sud Sudan[13]. Proprio il 6 marzo, l’Etiopia e la Cina hanno firmato un ulteriore Memorandum of Understanding[14], volto ad assicurare la sicurezza e buon funzionamento dei progetti legati alla Belt and Road Initiative. Questo sviluppo suggerisce una maggiore vicinanza tra la Cina e il Governo Abiy, non solo in campo economico ma anche nel campo della protezione degli investimenti connessi alla BRI. La situazione, dunque, rimane al momento incerta. L’UE, infatti, deve in questi mesi rinnovare il Piano Indicativo Nazionale etiope per il periodo 2021-2027 e decidere come destinare i circa 100 milioni di fondi previsti per il 2021[15]. Finora la linea dura della Commissione non è apprezzata dalla Germania, che tuttavia rimane cauta nelle dichiarazioni rilasciate ai media. Per concludere, la decisione della Commissione di sospendere i fondi di supporto al bilancio nazionale sta avendo risvolti geopolitici non trascurabili, che sembrano aver portato a un ulteriore avvicinamento tra Etiopia e Cina. [1] Marks, Simon. [Online] EU suspends nearly €90M in aid to Ethiopia over internal conflict. Politico. 16/12/2020. https://www.politico.eu/article/eu-commission-suspends-nearly-90-million-euros-in-aid-to-ethiopia-over-internal-conflict/ [2] Amnesty Italia [Online] Etiopia: “Il massacro di centinaia di civili a Axum da parte di soldati eritrei può costituire un crimine contro l’umanità”. 26/02/2021. https://www.amnesty.it/etiopia-il-massacro-di-centinaia-di-civili-a-axum-da-parte-di-soldati-eritrei-puo-costituire-un-crimine-contro-lumanita/ [3] Le Monde Afrique [Online] L’ONU réclame une enquête sur de possibles « crimes de guerre » au Tigré, dans le nord de l’Ethiopie. 4/03/2021. https://www.lemonde.fr/afrique/article/2021/03/04/l-onu-reclame-une-enquete-sur-de-possibles-crimes-de-guerre-au-tigre-dans-le-nord-de-l-ethiopie_6071946_3212.html [4] Commissione Europea [Online] L'Unione europea e l'Etiopia firmano l'agenda comune su migrazione e mobilità. 11/11/2015. https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/it/IP_15_6050 [5] Commissione Europea [Online]L'UE rafforza la cooperazione con l'Etiopia. 7/12/2019 https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/it/ip_19_6679 [6] EC & Government of Ethiopia. National Indicative Programme for Ethiopia 2014 to 2020. Ref. Ares(2014)2070433. 24/06/2014 https://ec.europa.eu/international-partnerships/system/files/nip-ethiopia-20140619_en.pdf [7] Chadwick, Vince. [Online] Ethiopia looks to Germany amid EU funding fight. Devex. 02/02/2021 https://www.devex.com/news/ethiopia-looks-to-germany-amid-eu-funding-fight-99034 [8] Pelz, Daniel. [Online] German-Ethiopian relations suffer over Tigray. DW. 22/02/2021 https://www.dw.com/en/german-ethiopian-relations-suffer-over-tigray/a-56655824 [9] CRI [Online] Etiopia, Rocca: “In Tigray situazione al limite. Mancano cibo, acqua e medicine. Serve una forte azione umanitaria.” 10/02/2021 https://cri.it/2021/02/10/etiopia-rocca-tigray-situazione-al-limite-forte-azione-umanitaria/ [10] USAID. Ethiopia, Tigray Conflict. 18/02/2021 https://www.usaid.gov/sites/default/files/documents/02.18.2021_-_USG_Tigray_Fact_Sheet_2.pdf [11] Drudi, Emilio. [Online] L’inviato Ue in Etiopia: “La situazione in Tigrai è totalmente fuori controllo”. Eritrea Democratica. 25/02/2021. https://eritreademocratica.wordpress.com/2021/02/25/linviato-ue-in-etiopia-la-situazione-in-tigrai-e-totalmente-fuori-controllo/ [12] Xinhua [Online] China calls for more int'l support to restoring normal life in Ethiopia's Tigray region. 23/02/2021. http://www.xinhuanet.com/english/2021-02/23/c_139759550.htm [13] CRU Policy Brief. China and the EU in the Horn of Africa: competition and cooperation? Clingendael. 2018. https://www.clingendael.org/sites/default/files/2018-04/PB_China_and_the_EU_in_the_Horn_of_Africa.pdf [14] Xinhua [Online] China, Ethiopia ink accord on establishing security safeguarding mechanism for major projects under BRI. 7/03/2021. http://www.china.org.cn/world/2021-03/07/content_77280556.htm [15] Chadwick, Vince. [Online] EU development chief calls for united response on Ethiopia. Devex. 17/02/2021 https://www.devex.com/news/eu-development-chief-calls-for-united-response-on-ethiopia-99184 Vittorio Ruocco, Programma sulla politica estera italiana
Immaginare la vita quotidiana di ciascuno e di tutti senza energia è, al giorno d’oggi, uno scenario di facile prevedibilità ma di superficiale considerazione nella pianificazione del presente e del futuro, sebbene proprio la sicurezza energetica rappresenti una delle tre sfere del più ampio concetto di sicurezza nazionale. Dall’interventismo statunitense in Medio Oriente alla vigilanza dei traffici marittimi nei choke points, dallo sfruttamento coloniale di materie prime alle trivellazioni petrolifere, l’approvvigionamento energetico rappresenta da tempo un elemento-chiave nei rapporti tra gli Stati, d’importanza tale da favorire una cooperazione internazionale in consessi a tal fine deputati, come l’Agenzia Internazionale per l’Energia, l’OPEC o il Gas Exporting Council Forum. In quest’ottica, è significativo come anche il processo di integrazione europeo riponga le sue basi proprio nella condivisione della principale risorsa energetica fino agli anni Settanta del Novecento: il carbone. A partire dal secondo dopoguerra, l’impellente necessità di assicurarsi le materie prime energetiche di cui il crescente apparato industriale aveva bisogno, così negli anni Cinquanta e Sessanta come ai giorni nostri, ha notevolmente influenzato la politica estera italiana. All’origine del neo-atlantismo dell’imprenditore-politico Enrico Mattei v’era, infatti, la ricerca di un equilibrio tra l’amicizia statunitense e la vicinanza politica alle questioni mediorientali, funzionale anche all’ottenimento di petrolio e gas. Oggi, il futuro dell’approvvigionamento energetico nel mondo sembra allontanarsi dai combustibili fossili per incamminarsi verso lo sviluppo delle fonti energetiche rinnovabili (FER), un settore in cui l’Italia, settima al mondo, ha investito 82,9 miliardi di dollari nel periodo 2010-2019, dopo Cina, Stati Uniti, Giappone, Germania, Regno Unito e India e seguita da Brasile e Francia. Secondo la prima analisi trimestrale dell’ENEA[1] di quest’anno, nel 2020 la quota di combustibili fossili nel mix di consumo energetico annuo ha toccato il minimo storico dal 1961 ed è stimata pari a circa il 72%, confermando il trend decennale di decrescita. Alle FER, invece, è riconosciuto un contributo del 23% sul mix energetico, evidenziando il loro raddoppio nell’arco del decennio 2010-2020 nella produzione elettrica con una crescita dal 20 al 38%, sebbene la produzione FER sia in calo a partire dal 2014 a causa di minori investimenti. Nel settore delle energie rinnovabili l’Italia ha un ruolo di assoluto rilievo, ponendosi alla guida dei Paesi europei sia per energia geotermica che per energia idroelettrica. Nel periodo 2004-2019, il consumo di energia da fonti rinnovabili ha raddoppiato da 6,3% al 18,2%, avendo già superato il target fissato al 17% per il 2020 (Eurostat, 2020). La Nota di aggiornamento al DEF 2020 indica un investimento di 6,76 miliardi di euro nel triennio 2021-2013 per l’efficientamento energetico e l’adeguamento antisismico degli immobili, a cui si aggiungono i 29,55 mld di euro inseriti nella programmazione del Recovery Fund italiano per la medesima finalità. La bozza Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), presentata dal governo Conte al Parlamento il 12 gennaio scorso, prevede l’ulteriore impiego di 18,22 miliardi di euro per l’energia rinnovabile, l’idrogeno e la mobilità sostenibile, con un impegno finanziario totale di 69,8 miliardi per il capitolo della rivoluzione verde e transizione ecologica, il più consistente. Non è un caso, infatti, che il nuovo governo Draghi abbia deciso di dotarsi di un ministero per la transizione ecologica, a cui saranno affidati, tra l’altro, i compiti relativi alla decarbonizzazione e all’efficientamento energetico. La proliferazione delle FER costituisce non solo un passo in avanti verso una maggiore sostenibilità ambientale ma contribuirebbe altresì a limitare la dipendenza italiana dalle importazioni di petrolio greggio e gas dall’estero. In particolare, l’approvvigionamento della prima fonte energetica del Paese, il gas, consiste quasi esclusivamente nelle importazioni dall’estero (circa il 93% nel 2020): primo contribuente è la Russia, seguita da Algeria, Paesi del nord Europa e la Libia. Nelle importazioni di petrolio greggio, invece, il primo Paese collocato in vetta alla classifica è l’Azerbaijan (19,8%) e a catena Iraq, Arabia Saudita, Russia, Kazakistan e Nigeria. Tuttavia, le restrizioni imposte dalla diffusione del Coronavirus hanno provocato una consistente riduzione dei consumi petroliferi e delle importazioni, le quali hanno registrato il minimo storico negli ultimi dieci anni (-21% rispetto al 2019), mentre il confinamento domiciliare ha evidenziato considerevolmente l’irrinunciabile esigenza di energia nelle attività umane. Ciò ha riportato alla luce la rilevanza della sicurezza energetica, tema a cui si dedicano interamente una serie di documenti programmatici governativi, come la Strategia energetica nazionale (SEN), il Piano per la Strategia Energetica della Difesa 2019 e il Piano nazionale integrato per l’energia e il clima (PNIEC). Dalla programmazione italiana ed europea ne deriva, quindi, che l’approvvigionamento energetico costituirà ancora un dossier caldo e importante nelle relazioni internazionali. Le minacce piratesche alla sicurezza dei trasporti marittimi (petroliferi) nello stretto di Hormuz, lungo le coste yemenite e somale e nel golfo di Guinea rendono indispensabili l’attivismo italiano nelle missioni militari internazionali e una costante mediazione nei consessi multilaterali. In quanto Unione dell’energia, è proprio nel quadro europeo che si estrinseca la politica energetica italiana, in necessaria coordinazione con le strategie degli altri Stati membri sul nuovo Green Deal europeo, presentato dalla Commissione nel dicembre 2019 e proiettato verso l’obiettivo di neutralità climatica da raggiungere entro il 2050. Anche il G20, in realtà, risulta essere un organismo molto importante nella transizione energetica italiana. Già dal 2009 i Paesi membri del G20 hanno avviato un programma volontario di Peer review di rapporti nazionali sui sussidi ai combustibili fossili (FFS), a cui l’Italia ha partecipato nel 2018 insieme all’Indonesia. La presidenza italiana del consesso sarà funzionale ad un maggiore attivismo nella proliferazione delle FER e nella cooperazione globale sulla transizione energetica, cui è dedicato uno specifico working group, la cui prima riunione si terrà proprio il 22 e il 23 marzo, e una riunione ministeriale prevista per il 22-23 luglio a Napoli. [1] Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile (ENEA) a cura di Marco Monaco Nella notte del 26 febbraio, 279 studentesse della Government Girls Secondary School Jangebe, nello stato di Zamfara (Nigeria), sono state rapite da un gruppo armato di non meglio definiti ‘terroristi’. Sebbene le studentesse siano state rilasciate alcuni giorni dopo, l’evento in questione rappresenta l’ultimo di una rapida e densa serie di rapimenti di un numero elevato di studenti dalle proprie scuole, in particolare negli stati appartenenti alla regione nord-ovest della Nigeria. Negli ultimi 3 mesi, secondo quanto riportato, si sono verificati quattro rapimenti su larga scala in tre stati nigeriani: Katsina, Zamfara e Niger. Tutti e tre gli stati coinvolti rientrano nella regione nord-occidentale della Nigeria, una regione la cui condizione di crescente insicurezza sta suscitando serie preoccupazioni nel governo federale nigeriano e nella comunità internazionale. L’intera macroregione della Nigeria settentrionale è ormai da decenni affetta da gravi lacune a livello economico, infrastrutturale, occupazionale ed istruttivo. A ciò, anche a causa dell’eredità dei regimi militari vigenti fino alla fine degli anni '90, si aggiunge una scarsa integrità morale e professionale da parte delle forze dell’ordine e di sicurezza, le quali spesso abusano del proprio potere o non adempiono ai propri doveri. Questi elementi hanno contribuito negli ultimi anni ad una quasi costante crescita di banditismo, criminalità organizzata e ad una sensibilità maggiore della popolazione nei confronti della radicalizzazione, sia essa di matrice islamica o meno. A conferma della progressiva insicurezza ed instabilità, oltre ai sempre più frequenti rapimenti di studenti perpetrati nella regione nord-occidentale della Nigeria, altri attacchi si manifestano con cadenza quasi giornaliera nell’area in questione. Lo stato di Zamfara, a pochi giorni dalla liberazione delle studentesse, è stato soggetto ad un ulteriore attacco da parte di un gruppo di ‘terroristi’, i quali hanno messo alle fiamme una cittadina e rapito oltre 60 persone, tra cui donne e bambini. Le ragioni alla base di questa recente tendenza verso il rapimento di numerosi gruppi di giovani studenti non sono del tutto chiare. Una delle opzioni più accreditate è che il rapimento di figure percepite come fragili, quali ad esempio gli studenti di una scuola, ponga il governatorato statale coinvolto (nonché il governo federale) sotto una maggiore pressione da parte dell’opinione pubblica e della comunità internazionale. Notizie come il rapimento di centinaia di studenti ottengono facilmente una maggiore risonanza al livello internazionale, una dinamica attraverso la quale i criminali coinvolti tentano di forzare lo stato al rapido pagamento di un riscatto per la liberazione degli ostaggi. Le autorità nigeriane raramente ammettono di aver soddisfatto le richieste di criminali o terroristi tramite il pagamento di riscatti, in denaro o risorse, di fronte ai microfoni dei media. Tuttavia, è altamente improbabile che i gruppi ribelli coinvolti abbiano liberato negli ultimi mesi gli studenti rapiti senza ottenere alcun beneficio materiale. Nel caso più recente del rapimento di oltre 270 studentesse, il governatore dello stato di Zamfara, Bello Matawalle, ha dichiarato che nessun tipo di riscatto è stato pagato per la liberazione delle vittime. Un tale risultato sarebbe stato raggiunto piuttosto tramite la cooperazione delle forze di sicurezza e dei criminali pentiti. Non può però risultare casuale il monito del presidente nigeriano Muhammadu Buhari nei confronti dei propri governatori statali e locali in merito alle drammatiche conseguenze che potrebbero derivare dal continuo pagamento dei ‘terroristi’ in denaro o attrezzature. Tale monito deriva dal complesso rapporto tra le leadership civili e militari dei singoli stati e le bande di criminali o insorgenti radicali. Se da una parte il retaggio del regime militare, in vigore fino alla fine degli anni ’90, porta gli ufficiali del governo e dell’esercito ad una durissima condanna e repressione armata di qualsiasi atto illegale su larga scala, dall’altra, le comprovate lacune etiche e la diffusa corruzione in ambito governativo e militare portano spesso a patti informali tra ufficiali ed organizzazioni criminali. Un dato particolarmente preoccupante dei recenti attacchi è il presunto, e in alcuni casi dichiarato, coinvolgimento del movimento radicale di matrice jihadista Boko Haram nei rapimenti perpetrati nel corso dei mesi recenti. Il gruppo ha infatti rivendicato la responsabilità di uno dei rapimenti, che coinvolgeva il numero più elevato di studenti (oltre 300) rapiti a dicembre nello stato di Katsina. Negli ultimi undici anni, dall’inizio degli scontri violenti con le autorità nel 2009, i gruppi jihadisti all’interno del paese nigeriano si sono moltiplicati ed ampliati. La fazione coinvolta nel rapimento dello stato di Katsina, ovvero JAS (acronimo per Jama’at Ah l al-Sunnah Li’l da’awa Wa’l Jihad), rappresenta il nucleo rimanente dell’esteso gruppo originario, disgregatosi in seguito alle scissioni dei movimenti autonomi Ansaru ed Islamic State in West Africa Province. JAS, il gruppo più violento nei confronti dei civili secondo quanto riportato, ha mantenuto una presenza rilevante negli stati nordorientali di Borno ed Adamawa, nonostante le numerose sconfitte contro le forze armate nigeriane. La sua presenza nel nord-ovest del paese era stata relativamente limitata, lungi dalla capacità di organizzare un’operazione come quella effettuata a Kankara nel dicembre 2020. Non a caso, l’ultimo crimine analogo era stato perpetrato dallo stesso gruppo nel 2014 ai danni di oltre 250 studentesse, rapite nella cittadina di Chibok, nell’estremo nord-est del paese. Guardando al singolo episodio, colpisce dunque che il gruppo sia stato in grado di compiere un atto del genere, anche grazie al sostegno di banditi locali, in una regione relativamente remota dalla propria ‘tradizionale’ zona di influenza. Da una prospettiva più ampia, ciò che preoccupa è che il progressivo declino delle condizioni socioeconomiche e di sicurezza (già non ottimali) nel nord-ovest del paese, stia fornendo ai gruppi radicali (jihadisti e non) l’opportunità di modificare, o espandere, la propria influenza e capacità operativa in termini geografici. La regione nord-ovest della Nigeria rappresenta una delle aree più trascurate e degradate del paese. Il mancato intervento da parte dello stato nigeriano, volto a migliorare strutturalmente le condizioni della regione, in termini socioeconomici, di giustizia e di sicurezza, potrebbe facilmente fornire negli anni a venire un terreno fertile per la nascita di nuovi gruppi armati radicali, o per l’espansione territoriale di gruppi già ben consolidati in altre aree del paese.
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