a cura di Francesco Gatti Intervenendo al Global Covid-19 Summit nel contesto della settimana di alto livello dell'Assemblea generale dell'Onu, il Presidente del Consiglio italiano Mario Draghi ha recentemente sottolineato come vi siano ancora importanti disuguaglianze nella distribuzione dei vaccini a livello mondiale. Negli stessi giorni, un simile grido di allarme è stato lanciato dal Segretario Generale dell’Onu, Antonio Guterres, che con drammatiche parole ha evidenziato come “la vittoria della scienza e dell’ingegno umano” rappresentata dal rapido sviluppo di sieri anti-Covid sia stata vanificata dalla “mancanza di volontà politica, dall’egoismo e dalla sfiducia” dei paesi avanzati. Sebbene il tema della disuguaglianza nell’accesso ai vaccini sia al centro dell’attenzione mediatica, politica e accademica da ormai molti mesi (si veda ad esempio Vaughan, 2021), gli ultimi dati rilasciati dalla Global Dashboard for Vaccine Equity (un’iniziativa congiunta di UNDP, OMS e Università di Oxford) restituiscono un quadro impietoso della situazione odierna. Se infatti al 29 settembre più di una persona su due (il 61,4%) nei paesi ad alto reddito aveva già ricevuto almeno una dose di vaccino, tale percentuale scende drammaticamente rivolgendo l’attenzione ai paesi a basso reddito, dove solo una persona su 28 (il 3,5%) è già stata vaccinata. Allargando lo sguardo ad altri indicatori, la disparità nell’accesso e distribuzione dei vaccini risulta, se possibile, ancor più critica. In base agli obiettivi dichiarati dall’OMS, ad esempio, ogni paese dovrebbe vaccinare almeno il 40% della propria popolazione entro la fine dell’anno, percentuale destinata poi a salire al 70% entro la metà del 2022. Se ad oggi più del 70% dei paesi ad alto reddito hanno già raggiunto il primo obiettivo, in nessuno dei paesi meno sviluppati il tasso di vaccinazione ha per il momento superato il 10%. A livello continentale, nell’intera Africa sono stati ad oggi somministrati solo il 2.3% dei vaccini prodotti globalmente, a fronte di una popolazione complessiva che si attesta intorno ai 1.4 miliardi di persone (il 17% circa della popolazione mondiale). Tra le pieghe di questi dati impietosi si nascondono in realtà motivazioni complesse e sfaccettate. Se da un lato la decisione di ammassare eccessive dosi da parte dei paesi avanzati è certamente deprecabile (si pensi che il solo Canada ha acquistato vaccini sufficienti per un numero di persone cinque volte superiore alla propria popolazione, Hassan et al. 2021), il ritardo nelle consegne di vaccini ai paesi a basso reddito è stato esacerbato dalla drammatica crisi sanitaria indiana. Sede del maggior produttore di vaccini al mondo (il Serum Institute), Nuova Delhi avrebbe dovuto infatti produrre e distribuire il vaccino di AstraZeneca nell’ottica dell’ormai celebre programma Covax, un’iniziativa congiuntamente promossa da OMS, Cepi (Coalition for Epidemic Preparadness Innovations) e GAVI Alliance con l’obiettivo di fornire vaccini ai paesi maggiormente in difficoltà. Tuttavia, la situazione indiana – unitamente alla difficoltà di alcune case farmaceutiche nell’aumentare la produzione di dosi, ovvero alla prioritizzazione di scambi bilaterali da parte delle stesse case e dei paesi più avanzati – ha obbligato Covax a rivedere al ribasso i suoi target di consegna. Secondo l’ultimo previsionale di approvvigionamento, infatti, il programma prevede di aver accesso a 1.4 miliardi di vaccini entro la fine del 2021, a fronte di un obiettivo inizialmente fissato a quota 2 miliardi. Se nelle parole di Draghi le disparità sui vaccini sono da ritenersi moralmente inaccettabili, è inoltre evidente come tali disuguaglianze abbiano conseguenze di natura innanzitutto sanitaria ed economica. In primo luogo, la libera circolazione del virus nei paesi meno sviluppati può facilitare la comparsa di nuove e resistenti varianti, potenzialmente capaci di minare anche le campagne di vaccinazione più efficaci ed avanzate. Come sperimentato dagli stessi paesi ad alto reddito nel corso dello scorso anno, le conseguenze economiche di una mancata immunizzazione risultano parimenti rilevanti. Secondo l’analisi di Vera Songwe, segretario esecutivo della Commissione Economica per l’Africa delle Nazioni Unite, ogni mese di lockdown è costato al continente africano almeno 29 miliardi di dollari in termini di perdite di produzione, andando ad esacerbare situazioni di povertà locale già drammaticamente radicate. Alla luce di questa situazione, i prossimi mesi si annunciano particolarmente complessi e delicati. Uno spiraglio positivo sembra essersi aperto dopo le recenti parole del presidente americano Joe Biden che, nel contesto del Global Covid-19 Summit, ha annunciato ufficialmente l’impegno statunitense a donare 500 milioni di vaccini Pfizer a partire dal prossimo anno. Se tale sforzo sembra da un lato obbligato – soprattutto considerato che più di 100 milioni di dosi precedentemente acquistate dai paesi avanzati rischiano di scadere inutilizzate entro la fine del 2021 – la mossa di Biden si inserisce nondimeno in un contesto globale più attento al tema della disuguaglianza nella distribuzione vaccinale. Pur procedendo a rilento, il programma Covax ha infatti già distribuito più di 236 milioni di dosi a 139 diversi paesi, permettendo a 41 di questi di dare il via alle rispettive campagne vaccinali. In aggiunta, l’OMS ha lanciato ormai più di un anno fa un meccanismo chiamato Covid-19 Technology Access Pool (C-TAP), atto a favorire la condivisione da parte delle case farmaceutiche di formulazioni, conoscenze (know-how) e dati sui vaccini prodotti. Tale iniziativa si collocava sullo sfondo di una sempre maggior pressione, da parte dei paesi in via di sviluppo, per adottare in seno all’OMC una proposta che permettesse una deroga temporanea sui brevetti per la produzione di tecnologie funzionali alla lotta a Covid-19. Tuttavia, nonostante il supporto dell’amministrazione Biden e di parte della comunità scientifica a tale proposta, l’iniziativa è rimasta per il momento lettera morta a Ginevra (sede dell’OMC), mentre nessuna grande casa farmaceutica ha fino ad oggi condiviso la propria tecnologia con il C-TAP. Alla luce di quanto discusso, la speranza per una rapida risoluzione della ‘scandalosa disuguaglianza’ nella diffusione dei vaccini sembra, nella migliore delle ipotesi, ancora molto fragile. Di fronte a questo triste quadro, la necessità di investire su una produzione maggiormente distribuita di vaccini – attraverso la costruzione di nuovi stabilimenti in aree più esposte, Africa in primis – costituisce un ulteriore, urgente, monito lanciato dalla pandemia di Covid-19.
a cura di Giorgio Catania È stata ribattezzata come la “crisi dei sottomarini” ed ha avuto delle ripercussioni significative sulle alleanze storiche internazionali. Tutto scaturisce dalla recente nascita di un partenariato strategico tra Australia, Regno Unito e Stati Uniti, noto come “AUKUS”. Si tratta di un accordo di cooperazione specifica incentrato sull’area dell’Indo-pacifico, che prevede la condivisione di tecnologie con Canberra per la produzione di sottomarini a propulsione nucleare. L’obiettivo degli Stati Uniti è quello di contrastare l’influenza e l’espansionismo della Cina nella regione Indo-Pacifica, trasformando l’Australia in un vero e proprio avamposto per una strategia di contenimento marittimo. Tanto è bastato per scatenare la reazione furiosa della Francia, che ha richiamato in patria gli ambasciatori da Washington e Canberra. Fino a pochi giorni fa Parigi aveva infatti tra le mani un accordo commerciale e strategico con Canberra, che prevedeva anzitutto la vendita di 12 sottomarini francesi per un valore complessivo di circa 60 miliardi. E non solo. L’origine del “contratto del secolo” risale al 2016, quando la Francia si è aggiudicata l’appalto miliardario, la creazione di 4000 posti di lavoro nei cantieri di Cherbourg ed una cooperazione per la durata di 50 anni nell’area Indo-Pacifica. Parigi ritiene fondamentale quel quadrante geografico, non solo per difendere gli interessi dei propri concittadini che vivono lì (circa 2 milioni) ma anche e soprattutto per darsi una proiezione globale, evitando di rimanere imbrigliati nei dibattiti europei sulla politica estera comune. Nulla da fare, è saltato tutto alla fine. Il motivo sarebbe legato ai propulsori con cui dotare i sottomarini. L’Australia ha infatti preferito i mezzi a propulsione nucleare di matrice americana piuttosto che quelli a propulsione diesel di matrice francese. Resterà da vedere come reagirà la Nuova Zelanda, che non consente l’ingresso nelle proprie acque territoriali ai sottomarini nucleari e lascerebbe di conseguenza minori margini di movimento all’Australia. Il patto AUKUS, elaborato nel corso degli ultimi 18 mesi e annunciato qualche giorno fa, sancisce quindi l’alleanza fra i tre grandi paesi anglosassoni e rende la Francia un attore comprimario nella regione. Il Ministro degli Esteri francesi Jean-Yves Le Drian ha parlato di “coltellata alle spalle”, paragonando l’approccio di Biden a quello di Trump. C’è già stato un colloquio telefonico Macron-Biden e i due si vedranno in Europa ad ottobre ma una tensione di questo tipo non si respirava da molto tempo. Da parte sua Pechino ha condannato l’intesa parlando di “clima da guerra fredda”. Il portavoce del Ministero degli Esteri cinese ha dichiarato che “AUKUS danneggia gravemente la pace e la stabilità regionale e mette a rischio lo sforzo per promuovere la non proliferazione delle armi nucleari”. All’indomani dell’intesa AUKUS, la Cina non si è persa d’animo ed ha richiesto formalmente di entrare nel CPTPP (Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership), un accordo commerciale transpacifico che coinvolge Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore e Vietnam. Il CPTPP viene dunque scelto da Pechino come lo strumento più adeguato per rispondere alla mossa degli Stati Uniti. Resta da vedere quanto la domanda di adesione cinese sia sincera. Xi Jinping conosce infatti le clausole dell’accordo e sa che ciascun stato membro ha il diritto di porre il veto sulle nuove adesioni. Tra i membri c’è proprio l’Australia e risulta difficile pensare che, dopo aver stipulato un’alleanza in chiave anticinese, Canberra possa dare il via libera a Pechino. Peraltro, la stessa Cina – a novembre 2020 – è entrata a far parte del cosiddetto RCEP (Regional Comprehensive Economic Partnership), un patto commerciale che include 14 paesi (asiatici e non) tra cui Australia, Giappone e Corea del Sud, grandi alleati degli Stati Uniti. A prescindere dalle trame che si stanno costruendo nel Pacifico sarà importante evitare una drammatica corsa agli armamenti. L’Alto Rappresentante Ue per la politica estera Josep Borrell ha dichiarato che nessuno dei vertici europei era al corrente della stipula di questo patto militare tra Stati Uniti, Regno Unito e Australia. Ancora una volta, dopo il ritiro dall’Afghanistan gestito in modo quasi unilaterale dagli Stati Uniti, Biden decide di muoversi a sorpresa senza consultare i partner storici europei. Questo tipo di approccio suscita mal di pancia tra le cancellerie europee, che dal nuovo presidente americano si aspettavano un atteggiamento più orientato verso il multilateralismo dopo gli anni burrascosi della presidenza Trump. La logica conseguenza è la dichiarazione di Borrell: “Questo ci obbliga di nuovo a riflettere sull’importanza di andare avanti sulla questione dell’autonomia strategica dell’Unione Europea”. Non è andata meglio alla NATO, rimasta esclusa dopo che il 14 giugno scorso i suoi stati membri avevano inserito la “minaccia della Cina” tra le priorità. Tra gli analisti c’è addirittura chi ha definito il patto AUKUS come “nuova NATO del Pacifico”. A rincarare la dose ci ha pensato Macron, che ha parlato di “rottura grave della fiducia” e di “serie ripercussioni sul futuro della NATO”.
Di Marco Monaco, Osservatorio sull'Unione europea
Nel suo secondo discorso sullo Stato dell’Unione, tenuto alla presenza del Parlamento Europeo lo scorso 15 settembre, Ursula von der Leyen ha evidenziato alcuni fattori rilevanti per il presente ed il prossimo futuro dell’UE in ambito strategico. Dal diventare “leader globali” nel regno del cyber alla necessità di provvedere alla stabilità delle regioni limitrofe, passando per il rapido e costante evolversi delle minacce strategiche, i temi presentati dalla Presidentessa della Commissione Europea non rappresentano una novità rilevante nel dibattito sulle responsabilità e priorità dell’Unione in ambito militare e di difesa, al di là di qualche dettaglio circostanziale. Ciò che è stato esposto rappresenta l’ennesimo appello al necessario sviluppo di un’autonomia strategica europea, con un posto speciale riservato al desiderio di realizzare un’effettiva Unione Europea della Difesa.[1] Il richiamo urgente alla tematica della difesa e dell’autonomia strategica nel contesto del discorso sullo Stato dell’Unione deriva naturalmente dai più recenti risvolti all’interno dello scacchiere internazionale, che hanno provocato (o stanno per provocare) una seria destabilizzazione dell’infrastruttura securitaria globale. La stessa von der Leyen ha parlato eloquentemente dell’imminente inizio di un’Era di iper-competitività, rivalità regionali, intensificazione delle minacce ibride e avversione ai più centrali valori europei. Il problema sorge tuttavia nel momento in cui la Presidentessa della Commissione Europea è stata tenuta ad esplicitare le cause dell’attuale inadeguatezza dell’UE, in ambito militare e di difesa, a fronte di un simile contesto internazionale. Ursula von der Leyen infatti si è limitata ad alludere genericamente alla coesistenza di lacune nelle capacità operative e di mancanza della volontà politica necessaria all’avvio di una seria evoluzione. [2] È tuttavia necessario analizzare più a fondo le ragioni dell’inadeguatezza delle attuali strutture europee nel perseguimento di un’autonomia strategica e, ancor più importante, la mancanza di prospettive di un serio cambiamento in tal senso nel prossimo futuro. Il percorso dell’Unione Europea verso una struttura difensiva e militare comunitaria è stato ostruito fin dalla nascita dell’Unione stessa. Nonostante dalla metà degli anni ’90 il dibattito si sia riacceso, i progressi fatti hanno sempre aggirato l’enorme ostacolo della sovranità politica dei singoli Stati Membri, costituita in modo intrinseco anche dal controllo delle proprie forze armate. È per questo motivo che, sebbene le parole della Presidentessa fossero intrise di un tono speranzoso, sottolineare la necessità di maggiore “volontà politica” non porterà a nessun miglioramento in tal senso. L’intera struttura della Politica Estera e di Sicurezza Comune è basata sul metodo intergovernativo e sul voto all’unanimità, i quali lasciano ad ogni stato membro il controllo decisionale sulla propria politica estera e, in ultima istanza, su come utilizzare le proprie risorse militari. [3] È certamente vero che dei compromessi negli ultimi venticinque anni sono stati messi in atto. Tuttavia, il compromesso tra la volontà di condurre operazioni comunitarie e la conservazione della sovranità militare di ciascuno stato ha portato all’edificazione di un impianto strutturalmente fragile, costantemente minacciato dal potenziale veto di ciascuno stato membro. Dinamiche istituzionali di questo tipo sembrano funzionare in modo pressoché impeccabile finché i governi trovano posizioni comuni, ma sono condannate ad un cortocircuito quasi immediato nel momento in cui emerge una divergenza di prospettive. Questa dinamica non può che rispecchiare l’approccio “funzionale” con il quale gli Stati Membri dell’UE tutt’oggi percepiscono l’Unione. La volontà politica a cui la Presidentessa von der Leyen fa appello esiste finché l’interesse dell’UE non diverge da quello nazionale, ed è poco plausibile che questo dato cambi nei prossimi anni. La gestione della crisi migratoria del 2015 costituisce un esemplare caso studio in tal senso [4], e le dichiarazioni del Cancelliere austriaco Sebastian Kurz in merito all’intenzione di respingere potenziali flussi migratori dall’Afghanistan non promettono alcun serio miglioramento in proposito. [5] Di conseguenza, diversamente da quanto affermato dalla Presidentessa von der Leyen, le lacune in ambito operativo che hanno caratterizzato la sfera militare dell’UE fino a questo momento non rappresentano un fattore distinto dalla mancanza di volontà politica. Al contrario, il nesso tra i due elementi è tale da renderne difficile la distinzione. Coordinare l’azione militare e di difesa al livello europeo significa, semplificando grandemente: condividere metodicamente e costantemente ogni informazione di intelligence reperita; realizzare catene di comando militari che consentano un coordinamento ed una guida operativa di tipo top-down, in grado di supervisionare efficacemente le operazioni in atto e gestire efficientemente le risorse a disposizione; avviare strutture di finanziamento, raggruppamento di forze e condivisione delle responsabilità che rispondano ad un criterio sovranazionale, piuttosto che basato sullo spirito d’iniziativa di ciascuno stato. [6] Il fatto che ad oggi si parli di gravi lacune operative in ambito militare e di difesa nonostante un’Agenzia Europea della Difesa esista già dal 2004, la dice lunga sulle difficoltà in tal senso. Nessuna delle sopracitate misure, di fatto, è realizzabile in maniera consona senza l’abolizione del voto all’unanimità nel contesto della Politica Estera e di Sicurezza Comune, e dunque senza superare il vincolo della volontà politica. Le più recenti misure prese al fine di rafforzare le capacità strategiche europee ne sono la prova. Lo Strumento Europeo per la Pace, annunciato alla fine di marzo, rimane indissolubilmente legato al voto unanime dei rappresentanti degli Stati Membri, nonché composto da contributi diretti di questi ultimi.[7] Analogamente, la strada tracciata per l’istituzione dello Strategic Compass nei primi mesi del 2022 non sembra promettere cambi di rotta rilevanti. Ciò che si sa della cosiddetta bussola strategica fino a questo momento è che rappresenta l’ennesima riaffermazione delle minacce e priorità che preoccuperanno maggiormente l’UE nel prossimo futuro. [8] Considerato da molti all’interno delle istituzioni europee come la chiave di volta per un accesso ad un livello superiore nella costruzione di capacità militari e di difesa dell’UE, il piano sullo Strategic Compass non ha finora rivelato alcuna caratteristica di spicco per riuscire nell’intento dichiarato. [9] [10] Un caso degno di nota è quello Cooperazione Strutturata Permanente (PESCO) presente all’interno del Trattato sull’Unione Europea, la quale ha incentivato ed incrementato la cooperazione tra stati membri nell’ambito della difesa. Tuttavia, sebbene dall’avvio della PESCO diversi Stati Membri abbiano dimostrato la volontà di investire, sviluppare e mettere in atto capacità militari all’interno di un quadro comunitario, le decisioni adottate dal Consiglio Europeo nell’ambito di una tale cooperazione vengono sempre implementate in virtù di un voto unanime degli stati membri partecipanti. [11] L’origine dei problemi dell’UE rispetto al perseguimento di un’autonomia strategica in ambito militare non risiede nella necessità di nuovi strumenti che operino all’interno delle attuali strutture. Sulla base di quanto constatato, è plausibile che l’incapacità dell’Unione di far fronte alle proprie lacune derivi dagli stessi trattati sulla quale essa si basa. Finché il Trattato sull’Unione Europea non permetterà che le spese derivanti da operazioni che hanno implicazioni nel settore militare o della difesa possano essere a carico dell’Unione, è sostanzialmente inverosimile che l’UE riesca a garantire una maggiore qualità operativa, specialmente nel contesto dei finanziamenti. [12] Allo stesso modo, fintanto che le Dichiarazioni 13 e 14 allegate al Trattato di Lisbona indicheranno chiaramente che “le disposizioni riguardanti la politica comune in materia di sicurezza e di difesa non pregiudicano il carattere specifico della politica di sicurezza e di difesa degli Stati membri” ed inoltre che “non conferiscono alla Commissione nuovi poteri di iniziativa per le decisioni né accrescono il ruolo del Parlamento europeo”, è improbabile che l’UE acquisisca la sufficiente rilevanza politica ed operativa per raggiungere un’autonomia strategica degna di questo nome. [13]
a cura di Laura Schella In the last decades climate change has become a dominant issue in politics, both at the national and international level. The consequences produced by climate change have still to be fully measured and understood, nonetheless it is evident that problems related to increasing temperatures and loss of biodiversity are and will for sure impact individuals, especially in underdeveloped regions where access to resources is scarce. Studies show that climate change is a multiplier of already existing social and economic problematics: as noted by Kameri-Mbote, climate change might seem of little importance for people living in underdeveloped countries but given its catalytic nature it further aggravates pre-existing social and economic inequalities, and consequently it further jeopardises the process of economic and social development. Women are among the individuals most affected by climate change. From the ‘90s, international agreements and norms have started to recognize the importance of gender equality as a precondition to eradicate poverty and design an effective pathway towards sustainable development. Gender equality is directly linked with the concept of green economy that many scholars consider as the only possible way to achieve a more sustainable and equal distribution of economic resources together with environmental justice. Nonetheless the relation between gender equality and climate change is still very much debated and in specific sectors it still lacks a systematic analysis. The aim of this article is to provide a general perspective on this issue and draw some political considerations. In most cases climate change issues are presented as affecting the world population without much distinction of regions and their economic capabilities. At the same time, it is important to consider that climate change does not affect individuals in the same way, on the contrary it strengthens social disparities and unequal access to economic resources. This explains why women are affected differently than men by climate change. At the same time recognition of women vulnerability must be accompanied by the understanding that women are not just particularly exposed to risks related to climate change, but they also engage in activities beneficial to the environment. Consequently, in discussions regarding climate change and its consequences women voice must be included and clearly heard. The issue of women role in climate change is complex and multifaced. Policies designed to tackle climate change problems need to take into consideration existing inequalities and, while recognising women role as “agents of change”, do not risk aggravate their burden. Climate change can further erode access to already limited resources. According to recent studies, women usually tend to have limited access to all type of assets and there is evidence that regions where climate change has increased economic inequalities and brought further levels of social tensions there is an increase in gender-based violence. As Fisher and Mohun highlight in their report it’s usually women and girls that suffer the most from crisis and that are forced to cope with increased gender-based violence, early marriage and loss of education. Furthermore, most of the time women not only have limited access to resources but they are victims of discrimination, cultural and social norms as well as prejudices and restricted rights. Given the multifaced relations between climate change and gender equality, it is not surprising that in certain cases women can also take advantage of transformations and challenges brought by climate change and assume non-traditional roles and possibly change their status both in society and in the family. This process of adaptation to climate change can push for social transformations but it’s unlikely that without specific policies aimed at reducing gender inequalities, women can demolish by themselves centuries of old gender boundaries. Crisis generally show that gender boundaries are resilient and that emancipation in certain sectors can be accompanied by new forms of oppression. An economic sector deeply affected by climate change is agriculture. Climate change and its consequences, such as increasing temperatures and extreme weather events, force farmers to diversify their crops and look for alternative ways to access natural resources. Data show that women produce around 60-80% of the food in underdeveloped countries but they only own 10-20% of agricultural land. Furthermore, since men tend to move to urban areas to look for better employment opportunities, in recent years women role in agricultural has become more and more relevant. Agriculture is again another economic sector where women are not just more vulnerable than men to climate change, but they also play a decisive role in the adaptation process to climate change and play a key role in guaranteeing food security to their communities. As already said, it is complex to understand how climate change and gender equality goals can be harmonized. When promoting transformation to a greener economy, policies tend to underestimate the social impact of environmental policies and this way they risk to further aggravate social inequalities. Gender equality is undeniably a fundamental goal to be achieved in the path towards sustainable development. As the United Nations Millennium Development Goals note “gender equality is both a goal and a condition for combatting poverty, hunger and disease”. It is precondition and, at the same time, an indicator of a type of economic development that is centred on people and that is capable to effectively guarantee equal access to resources to every part of society.
A cura di Elisa Desiglioli, Osservatorio sull'Unione europea A seguito della pubblicazione del Patto Verde Europeo, più comunemente conosciuto come Green Deal, il 14 luglio l’Unione Europea ha varato un pacchetto di regolamenti e direttive volto a raggiungere la neutralità climatica nel vecchio continente entro il 2050. Il “Fit for 55” ha l’obbiettivo di ridurre le emissioni nette di gas serra di almeno il 55% entro il 2030, in relazione ai livelli registrati nel 1990[1]. L’ambizioso proposito di Bruxelles è quello di lasciare alle prossime generazioni un pianeta maggiormente in salute attraverso la decarbonizzazione delle economie degli Stati membri. Secondo la Presidentessa della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, la linea da seguire per raggiungere la climate neutrality riguarda tre principali questioni: innovazione, investimenti e compensazione sociale. Difatti, il nuovo pacchetto legislativo in materia di energia e clima andrà ad intervenire su varie tematiche care all’UE: politiche energetiche, climatiche, fiscali, d’uso dei trasporti e del suolo. Nel 2010 è stata adottata dalla Commissione Europea un’iniziativa conosciuta come Energia 2020 – Una strategia per un’energia competitiva, sostenibile e sicura[2], che può essere considerata l’antesignana dell’attuale strategia energetica. L’obiettivo principale dell’iniziativa era raggiungere un mercato energetico che potesse essere definito sicuro in termini di approvvigionamento e che fosse caratterizzato da prezzi competitivi. Inoltre, particolare rilevanza doveva essere dedicata al miglioramento delle relazioni con i partner commerciali nel settore. Nel 2015, gli stessi principi vengono riproposti come i pilastri della Energy Union[3], priorità della Commissione Juncker. Malgrado le iniziative dello scorso decennio, dai dati Eurostat emerge che in 10 anni (2008-2018) gli indici nazionali di dipendenza energetica hanno subito lievi variazioni, fatta eccezione per alcuni paesi come l’Estonia e l’Irlanda. In media, sono i Paesi più piccoli a dipendere maggiormente dalle importazioni nel settore energetico per soddisfare il fabbisogno nazionale di energia, in particolare Malta, Lussemburgo e Cipro, seguite dal Belgio e gli Stati dell’Europa Meridionale. Attualmente sono diversi i Paesi membri dell’Unione Europea che si trovano in una grave situazione di dipendenza energetica rispetto a paesi terzi: complessivamente, vengono importati nell’UE più di due terzi dei prodotti petroliferi e il 26% del gas; e circa il 30% delle importazioni del settore proviene dalla Russia[4]. Nel 2018, è stato importato il 58,2% dell’energia lorda disponibile dell’UE. Il settore dei trasporti e quello edilizio sono i principali segmenti economici presi in esame dalla Commissione Europea per un’efficiente transizione energetica: secondo l’ufficio statistico dell’UE almeno 3 edifici residenziali su 4 non soddisfano i requisiti di efficienza energetica e il 94% dei trasporti si alimenta con prodotti petroliferi.
Ruoli altrettanto importanti sono occupati dall’efficienza energetica e dalla percentuale di energia prodotta dalle fonti rinnovabili. Per essere davvero “Pronti per il 55%”, quest’ultima deve occupare almeno il 32% della produzione totale nell’Unione entro il 2030 (al momento ammonta circa al 20%), a fronte di un crescente risparmio energetico raggiungibile principalmente attraverso l’innovazione e gli incentivi politico-economici promossi a livello nazionale e comunitario. Secondo i nuovi standard europei, gli obblighi di risparmio raddoppiano. La questione della competitività dell’Unione come soggetto importatore di energia sfocia in un ulteriore divisione sul tema dell’idrogeno: il primo elemento della tavola periodica si presenta come alternativa rinnovabile sostenibile e sicura, ma l’Europa non ha abbastanza capacità rinnovabile per produrlo. La Ministra francese per la transizione ecologica Barbara Pompili si è fatta portavoce di quei Paesi - tra cui quelli geograficamente vicini alla Russia come Estonia, Ungheria e Repubblica Ceca - che insistono sull’innovazione tecnologica dei singoli stati al fine di eliminare la dipendenza energetica attraverso gli investimenti comunitari. L’impegno per una transizione verde da parte di ogni Stato membro deve avvenire il prima possibile, nonostante i Paesi europei presentino energy mix molto eterogenei tra loro. La presenza delle economie dei V4 (Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia e Ungheria), storicamente più dipendenti dall’utilizzo di carbone e petrolio, potrebbe rallentare il raggiungimento dello scopo del Fit for 55. In particolare, la percentuale del loro ricorso alleimportazioni di petrolio e gas russo si aggira tra l’80% e il 100%, a seconda dello Stato in oggetto. Questa posizione rende l’UE un partner economico poco competitivo sul mercato energetico, soprattutto considerando le numerose interruzioni delle forniture dovute ai rapporti instabili di Mosca con Minsk e Kiev, passaggi obbligatori per il transito delle risorse energetiche. I Primi Ministri di Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia e Ungheria sono consapevoli della necessità di trasformare i propri sistemi energetici nazionali, anche in considerazione dei pilastri e delle richieste UE. Ciononostante, si aspettano che Bruxelles rediga delle regole ad hoc per gli Stati Membri a basso reddito. Il prezzo della transizione è sicuramente alto, ma secondo gli esecutivi di Visegrad ci sarà bisogno di un ancor più significativo aumento negli investimenti comunitari. Il Gruppo di Visegrad ha infatti richiesto un aumento della dimensione del Modernisation FundModernisation Fund[5], in particolare si parla di un aumento al 6% delle quote totali di ETS previste nel pacchetto Fit for 55. Al momento, la Commissione Europea stima che le entrate totali del Modernisation Fund potrebbero ammontare a circa 14 miliardi di euro complessivi, a seconda del prezzo del carbonio, da destinare ai 10 paesi a basso reddito dell’UE. Inoltre, desta preoccupazione l’ampio ricorso dell’Europa Centro-Orientale all’energia nucleare. Uno dei principali punti di scontro è l’ammodernamento degli impianti nucleari, alcuni costruiti negli anni ’80 con le competenze tecnologiche dell’URSS, come le centrali nucleari ceche di Dukovany e Temelin. Per esempio, l’energy mix ceco si compone per il 57,4% si compone di combustibili fossili e per il 35% dall’energia nucleare, mentre solo il 7% da energie rinnovabili. I policy makers del governo ceco hanno dato priorità al nucleare nel 2015 attraverso il Piano d’Azione Nazionale per l’Energia Nucleare: il 50% dell’energy mix ceco sarà composto dall’energia nucleare entro il 2040. Raggiungere quanto prima un futuro verde, equo e sostenibile è l’inderogabile obbiettivo che la Commissione Europea si impegna a raggiungere attraverso l’impegno incondizionato nella nuova legislazione da parte di tutti gli Stati membri. Appellarsi alle normative e ai sussidi europei deve essere un diritto dei Paesi che si impegnano a rispettare i dover di tutta la Comunità europea, che ne compongono la quint’essenza. In attesa del prossimo Consiglio dei ministri dell’Energia, ci si interroga sul bivio che i governi europei saranno costretti a superare per raggiungere la neutralità climatica: continuare ad importare energia, anche se rinnovabile, o investire a livello comunitario nello sviluppo di energia a zero emissioni. [1] https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/en/ip_21_3541 [2] https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/ALL/?uri=CELEX%3A52010DC0639 [3] https://ec.europa.eu/energy/topics/energy-strategy/energy-union_it [4] Fonte: EUROSTAT (2017) [5] https://ec.europa.eu/clima/policies/budget/modernisation-fund_it, Programma di sostegno economico per supportare 10 Stati membri a basso reddito dell’Unione Europea nella transizione verso la neutralità climatica aiutandoli nel processo di modernizzazione dei sistemi energetici nazionali e nel miglioramento dell’efficienza energetica. I beneficiari sono Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Polonia, Romania e Slovacchia. Il fondo viene finanziato tramite i ricavi derivanti dalla vendita all’asta del 2% delle quote totali per il periodo 2021-2030 nell’ambito del sistema di scambio di quote di emissione dell’UE (EU ETS) e da indennità aggiuntive. a cura di Angela Centurione Il 23 agosto, in concomitanza con il tour della vicepresidente degli Stati Uniti Kamala Harris nel Sud-Est asiatico, l’amministrazione Biden e il governo di Singapore hanno firmato tre memorandum d’intesa sulla sicurezza cibernetica. Il primo memorandum si pone l’obiettivo di migliorare la partnership tra l'Agenzia per la Sicurezza Informatica di Singapore e la sua controparte statunitense; il secondo memorandum, stipulato tra l'Autorità Monetaria di Singapore e il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti, ha il compito rendere i rispettivi settori finanziari più preparati e resistenti gli attacchi informatici, facilitando la condivisione delle informazioni sulle minacce ai mercati finanziari; il terzo memorandum, infine, mira a istituzionalizzare la cooperazione informatica tra il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti e il Ministero della Difesa di Singapore. Come affermato dal direttore del CISA (Cybersecurity and Infrastructure Security Agency) Jen Easterly, la sicurezza del cyberspazio è diventata un elemento chiave per entrambi i paesi, e sia Stati Uniti che Singapore mirano a collaborare per sfruttare insieme i vantaggi della digitalizzazione. I tre memorandum sono da interpretare come un riflesso della crescente importanza degli attacchi informatici nei rapporti geopolitici. A causa delle potenti capacità offensive e difensive del cyberspazio, numerosi stati della comunità internazionale hanno iniziato a incrementare e rafforzare la propria capacità di difesa informatica, portando sulla scena mondiale una corsa tecnologica che sembra quasi ricordare la Guerra Fredda. Per gli Stati Uniti, questi accordi non solo permettono di cooperare con un partner che gioca un ruolo chiave nel continente asiatico, ma rappresentano anche un altro tassello da inserire nel più ampio piano strategico di Washington, volto a tener testa alla Cina nel dominio cibernetico. I rapporti tra le due potenze sono infatti segnati da tensioni crescenti, allargatesi dal campo politico, economico e militare fino ad includere l’ambiente cyber: sia Washington che Pechino hanno identificato il cyberspazio come critico per la loro sicurezza nazionale, ed entrambi vedono l’altro come il principale impedimento al perseguimento dei propri interessi. Nonostante gli Stati Uniti rimangano la potenza leader nello spazio cibernetico – come affermato in un rapporto di giugno 2021 dell'Istituto internazionale di studi strategici (IISS) – hanno assunto nel corso del tempo un atteggiamento nei confronti della Cina sempre più bellicoso. Il caso più recente che ha visto una escalation nelle tensioni tra le due potenze è stato, nel gennaio 2021, l’attacco cyber ai server di Microsoft Exchange, un software molto diffuso per la gestione dei server aziendali che favorisce la collaborazione tra i vari utenti di un'organizzazione. Microsoft ha puntato il dito contro un gruppo hacker chiamato Hafnium, proveniente dalla Cina e noto per essere affiliato al Partito Comunista Cinese. Anche l’amministrazione Biden ha immediatamente preso posizione contro il governo di Pechino, accusandolo di una campagna globale di cyber-spionaggio e raccogliendo una coalizione ampia comprendente NATO, Unione europea, Australia, Gran Bretagna, Canada, Giappone e Nuova Zelanda. La Cina ha definito le accuse infondate e irresponsabili, e ha negato, così come ha fatto altre numerose volte, di portare avanti attacchi informatici contro gli Stati Uniti e le sue infrastrutture. Prova ulteriore di quanto i rapporti tra le due potenze siano alle strette, è stato il recente annuncio da parte della CIA (Central Intelligence Agency) della messa a punto di un “Mission Center for China”: una task force che ha la priorità, come affermato dal direttore William Burns, di sollevare l’attenzione sulla Repubblica Popolare Cinese e, in particolare, sulle sue attività in ambito cyber. L’implementazione della missione andrebbe a rafforzare l’expertise non solo delle competenze linguistiche, andando ad aumentare il numero di agenti americani che parlano mandarino, ma soprattutto di quelle tecnologiche. Burns ha annunciato la volontà di schierare specialisti della Cina in località di tutto il mondo, aggiungendo che lo spionaggio all’estero viene reso sempre più difficile della sorveglianza tecnica onnipresente e dalle capacità molto avanzate dei servizi segreti cinesi. Nel 2017 il New York Times ha infatti riferito che il governo cinese ha sistematicamente smantellato le operazioni di spionaggio della CIA in Cina a partire dal 2010. Nel 2020, un rapporto dell’House Intelligence Committee ha concluso che le agenzie di spionaggio degli Stati Uniti non sono riuscite a soddisfare le sfide sfaccettate poste dalla Cina e sono state eccessivamente concentrate su obiettivi tradizionali come il terrorismo o le minacce militari convenzionali. Anche se il cyberspazio rappresenta un aspetto relativamente nuovo delle relazioni tra Stati Uniti e Cina, le controversie all'interno di questo dominio si sono rapidamente evolute in questioni conflittuali agli occhi di entrambe le parti, intensificando le già presenti tensioni tra i due paesi. Tuttavia, quando si tratta delle due più grandi potenze del mondo, la domanda da porsi è se ci sia spazio per la collaborazione all'interno del regno cibernetico. Se da una parte negli ultimi anni si è assistito a tentativi di conciliazione tra i due paesi – come l’US-China Cyber Agreement del 2015 – dall’altra parte è da notare come entrambe le potenze abbiano aumentato i loro investimenti in capacità militari cibernetiche e adottato strategie cibernetiche sempre più aggressive. Per evitare l’intensificarsi di un conflitto internazionale nel cyberspazio – in cui i paesi di tutto il mondo si potranno vedere costretti a scegliere da che parte stare – saranno necessari da entrambe le potenze sforzi di collaborazione per il raggiungimento di una governance globale del nuovo panorama tecnologico. Comprendere i fattori alla base delle tensioni, le preoccupazioni di entrambe le parti, e il modo in cui questi problemi si combinano nella corsa per la conquista del cyberspazio, sarà fondamentale per costruire il futuro del mondo digitale.
a cura di Cristiana Oliva Era l’ormai lontano 2002, quando uscì Minority Report, dal racconto del 1956 di Philip Dick. Nel blockbuster firmato da Steven Spielberg, la “polizia predittiva” registrava miliardi di terabyte attraverso numerose telecamere di sorveglianza al fine di identificare gli autori di un crimine, ma non solo. La pre-crimine arrestava i criminali ancor prima che essi commettessero il delitto. Quella del film di Spielberg è stata una previsione. Infatti, con l’analisi dei big data attraverso l’uso di sofisticati algoritmi di intelligenza artificiale, è oggi possibile anticipare un delitto prima che questo avvenga. Ma in questa fitta rete di spionaggio e controllo, chi si cela dietro gli occhi della città più videosorvegliata al mondo? La pre-crimine a Dubai Probabilmente uno dei posti più video-sorvegliati del pianeta è Dubai. Gli Emirati Arabi Uniti registrano una delle più alte concentrazioni pro-capite di telecamere di sorveglianza al mondo. Dalle strade della capitale Abu Dhabi alle attrazioni turistiche della famosa Dubai costellata di grattacieli, le telecamere tengono traccia delle targhe e dei volti dei passanti, garantendo a cittadini e visitatori un grado di sicurezza elevatissimo. Un decennio fa, Dubai ha dimostrato l’efficacia di quel sistema: dopo l'assassinio del comandante di Hamas Mahmoud al-Mabhouh, il 19 gennaio 2010, in un hotel di Dubai, la polizia ha rapidamente individuato i volti dei sospetti agenti israeliani del Mossad che hanno eseguito l'omicidio, ricostruendo l’accaduto, dall'arrivo degli agenti all'aeroporto fino all’omicidio di al-Mabhouh da parte di due israeliani travestiti da tennisti. I media all'epoca suggerivano che circa 25.000 telecamere osservavano Dubai. Oggi si può dire siano molto più sofisticate e molto più diffuse. Centri commerciali e altre aziende hanno implementato una varietà di scanner di immagini termiche. All'aeroporto internazionale di Dubai, ad esempio, chi entra passa davanti a uno scanner termico che, oltre alla temperatura controlla anche se le persone indossano o meno le mascherine. Alla vigilia della pandemia, la polizia di Dubai ha lanciato un nuovo programma di telecamere di sorveglianza alimentato dall'intelligenza artificiale chiamato "Oyoon" ovvero "occhi" in arabo. La polizia ha descritto il progetto nel gennaio 2018 come un mezzo per "prevenire la criminalità ed essere in grado di rispondere immediatamente agli incidenti anche prima che vengano segnalati". Con l’avvento dell’emergenza pandemica, Oyoon ha iniziato a controllare le temperature corporee dei cittadini, oltre ad assicurarsi che le persone mantengano una distanza sociale di 2 metri l'una dall'altra. Pechino osserva il Golfo Molte delle telecamere e degli scanner termici utilizzati dagli Emirati Arabi Uniti provengono dalla Cina. Dal 2013, la Cina è diventata il principale investitore nei settori economici e delle tecnologie avanzate del Medio Oriente e finora, l'Intelligenza artificiale (IA) è stata la base degli investimenti tecnologici di Pechino. Entro il 2030, le stime suggeriscono che il potenziamento IA in Medio Oriente potrebbe valere 320 miliardi di dollari con Arabia Saudita, Qatar, Bahrain e gli Emirati Arabi Uniti a guidare la carica. Tra tutti, gli Emirati Arabi Uniti sono diventati uno dei più veloci ad adottare la tecnologia IA, con Dubai che ha lanciato progetti di sorveglianza come Police without Policeman, Oyoon e l’utilizzo di robot di sicurezza per combattere la criminalità in aree urbane. Police without Policeman è sostenuto da Huawei, il gigante cinese nel settore delle comunicazioni, e, sebbene Oyoon non sia esplicitamente collegato a una particolare azienda cinese, il suo utilizzo della IA nella sorveglianza per proteggere gli spazi urbani è parallelo agli attuali sviluppi tecnologici di Pechino. Gli investimenti del Dragone nel Paese sono riconducibili a una serie di presenze nel Paese del Golfo, come il gigante SenseTime, una società creata nel 2014 dal cinese Xiolan Xu che ha ideato una tecnologia per il riconoscimento facciale ed ha pubblicizzato il suo trasferimento ad Abu Dhabi. Un’altra azienda coinvolta nella partnership sino-emiratina è il Group 42 (G42), una società di Abu Dhabi di intelligenza artificiale e cloud computing. Il G42 sembrerebbe essere la società dietro lo sviluppo di ToTok, un’app voip, recentemente lanciata negli Emirati come alternativa alle altre App voip, il cui utilizzo è proibito nel Paese. Il 22 dicembre 2019, un’inchiesta del New York Times riportava che ToTok è stata sviluppata come uno strumento di spionaggio, utilizzato dal governo degli Emirati Arabi Uniti per cercare di tracciare ogni conversazione, movimento, relazione, appuntamento, suono e immagine di chi lo installa sul proprio smartphone. Il G42, che sembra avere legami con il sistema per la sicurezza nazionale degli Emirati Arabi Uniti, ha anche collaborato con la Cina per gestire il programma di test di massa sul coronavirus nel Paese. Il coinvolgimento del Dragone ha portato i funzionari dell'ambasciata degli Stati Uniti ad Abu Dhabi a rifiutare l'offerta degli Emirati di testare gratuitamente tutto il personale americano, a causa del rischio di spionaggio cinese. Un fil rouge lega il Dragone agli Emirati: la strategia di Pechino si sposa bene con l’esigenza di controllo della popolazione della monarchia di Abu Dhabi. Tuttavia, questo connubio va in contrasto con i piani di Washington, che strategicamente vedono la penisola emiratina come una piattaforma indispensabile per giocare la loro partita in Asia. Tra Cina e Stati Uniti Il Medio Oriente si trova letteralmente nel mezzo della nuova guerra fredda tra Stati Uniti e Cina. Molti stati dell’area hanno rivalutato la loro posizione all'interno di un contesto geostrategico sempre più multipolare dove le vecchie certezze di protezione e sostegno americano incondizionato non potevano più essere date per scontate, soprattutto con il cambio d’inquilino nella Casa Bianca. Il coinvolgimento della Cina solleverebbe preoccupazioni di sicurezza per le forze statunitensi che operano negli Emirati Arabi Uniti, ha affermato Vittori, tenente colonnello in pensione nell'aeronautica americana. Gli Emirati, soprannominati "Little Sparta" dall'ex Segretario alla Difesa degli Stati Uniti Jim Mattis, ospitano circa 5.000 soldati americani, molti nella base aerea di Al-Dhafra, oltre che nel porto più trafficato dalla Marina degli Stati Uniti all’estero, ovvero il porto di Jebel Ali a Dubai. Lo stretto di Hormuz è il punto di attraversamento petrolifero più importante del mondo a causa dei grandi volumi di greggio che fluiscono attraverso questo punto nevralgico. Nel 2018, il suo flusso giornaliero di petrolio è stato in media di 21 milioni di barili al giorno, l'equivalente di circa il 21% del consumo globale. Gli Emirati Arabi Uniti si trovano sulla punta occidentale dello stretto, vantando una posizione strategica fondamentale per gli equilibri della regione. Costruendo relazioni con gli stati del Golfo come gli Emirati Arabi Uniti attraverso il meccanismo di investimento in infrastrutture e logistica, parte della Belt and Road Initiative, la Cina spera di consolidare la sua posizione. Già leader globale nelle infrastrutture 5G, la Cina sta investendo molto in una gamma più ampia di tecnologie avanzate e sta cercando di introdurle a livello globale come mezzo per ottenere un'influenza economica ancora maggiore. Pechino si è concentrata soprattutto su tre aree tecnologiche principali: intelligenza artificiale, smart city e droni. In particolare, l’intelligenza artificiale, già utilizzata largamente da Pechino, viene guardata con interesse da parte di molti governi autoritari, come strumento insostituibile per mantenere la stabilità sociale. Ci si chiede però se queste infrastrutture tecnologiche non siano anche un modo per il Dragone di controllare da vicino i suoi alleati e avversari. In questo senso le tecnologie di sorveglianza di Dubai non rappresenterebbero altro che gli occhi di Pechino, che osservano il Paese e i suoi inquilini.
A cura di Erika Frontini, Osservatorio sull'Unione europea
La politica di allargamento dell’UE è stata a lungo considerata un metodo di successo per la promozione della democrazia da parte di un attore esterno (1). In realtà, l’utilizzo del processo di adesione per tale scopo ha riguardato solo gli allargamenti più recenti. Inoltre, gli strumenti pensati per promuovere democrazia e stato di diritto nei Paesi candidati sono stati rivisti negli anni, adattandoli al contesto locale ed imparando dalle esperienze - non sempre positive - del passato. Quando, nel 1973, Regno Unito, Irlanda e Danimarca si unirono ai Sei fondatori, non esisteva una politica di allargamento ben strutturata, ma solo una procedura, descritta all’art. 237 del Trattato di Roma (ora art. 49 TUE). L’unica condizione per poter essere ritenuto idoneo a diventare membro della Comunità era essere uno “Stato europeo” (2). Per giunta, tali Paesi erano già democrazie, perciò la questione non si pose. Dunque, la prima occasione in cui l’adesione giocò un ruolo nella democratizzazione dei Paesi candidati fu l’allargamento a Grecia, Spagna e Portogallo. Tutti questi Paesi, che completarono l’accesso nel corso degli anni Ottanta, furono ammessi solo dopo aver superato i governi autoritari che li avevano guidati fino a poco prima. Il fatto che precedenti tentativi di essere coinvolti nel processo di integrazione fossero stati respinti dalle istituzioni europee corrobora la tesi che l’appartenenza alle Comunità sia, sin dalle origini, riservata alle sole democrazie. In particolare, nel 1961 il Parlamento europeo negò alla Spagna un accordo di associazione adottando il Rapporto Birkelbach, nel quale si affermava che la garanzia di una forma di Stato democratica è condizione per l’adesione (3). Nondimeno, in quella circostanza, le istituzioni non colsero la possibilità di porsi come esportatrici attive di istituzioni e pratiche democratiche: pur esigendo il rispetto di tali principi dagli aspiranti Stati membri, non fornirono nessun tipo di orientamento sulle riforme da intraprendere (4). L’atteggiamento delle istituzioni UE è decisamente cambiato con la fine della guerra fredda, quando la fila di aspiranti nuovi membri si è notevolmente allungata. Se, da un lato, l’accesso di Austria, Finlandia e Svezia non ha richiesto nessuna azione nel campo della promozione dei valori fondamentali, l’aspirazione di dieci Paesi dell’Europa centro-orientale ad essere pienamente integrati rappresentava una grande sfida per la neonata Unione. È proprio in questo contesto che le istituzioni hanno iniziato ad adottare una postura più attiva rispetto alla democratizzazione degli Stati candidati. In un primo momento, l’UE si è limitata a ribadire che il rispetto dei valori democratici costituisce una condizione essenziale non solo per l’adesione, ma anche per essere ammessi al processo negoziale (5). Il Consiglio europeo di Copenaghen del 1993 ha elencato i criteri di adesione, che includono “la presenza di istituzioni stabili che garantiscano la democrazia, lo stato di diritto, i diritti dell’uomo, il rispetto delle minoranze e la loro tutela” (6). In seguito, le istituzioni hanno progressivamente delineato una strategia per guidare i Paesi candidati nella realizzazione delle riforme necessarie durante il periodo di pre-adesione, trasformando l’allargamento da semplice procedura a vera e propria policy (7). Inizialmente, si è fatto uso degli accordi di associazione - già firmati da alcuni degli aspiranti Stati membri - e dei relativi sistemi istituzionali, i quali fornivano un canale di dialogo, ma anche un’opportunità di monitoraggio dei progressi nell’attuazione delle riforme (8). Allo stesso modo, i programmi di finanziamento di cui tali Paesi già beneficiavano sono stati reindirizzati al soddisfacimento dei criteri di adesione. Più tardi, con la pubblicazione dell’Agenda 2000 e il Consiglio europeo di Lussemburgo nel 1997, la strategia di pre-adesione è stata ulteriormente rafforzata. Da quel momento, per ogni candidato, vengono individuate specifiche priorità in un documento di partenariato. L’assistenza finanziaria è condizionata al raggiungimento degli obiettivi del documento di partenariato e i progressi di ciascun Paese sono attentamente monitorati dalla Commissione, che produce ogni anno appositi report. Parallelamente, a seconda del loro livello di preparazione, i candidati portano avanti i negoziati di adesione, organizzati per capitoli riguardanti i diversi aspetti dell’acquis. All’affacciarsi del nuovo millennio, c’era quindi grande entusiasmo rispetto alla politica di allargamento, tanto da spingere l’UE ad impegnarsi in maniera ambiziosa nei confronti dei Balcani Occidentali, i prossimi in lista. Tuttavia, tale slancio si è presto scontrato con la delicata situazione di questi Paesi e la crescente “stanchezza da allargamento” negli Stati membri. Per di più, preoccupanti involuzioni in alcuni Paesi di recente adesione hanno alimentato dubbi sull’effettiva capacità dell’UE di assicurare una democratizzazione stabile e duratura. In risposta a tutto ciò, le istituzioni hanno rafforzato il principio di condizionalità, soprattutto rispetto ai valori fondamentali. Ora, i capitoli riguardanti questi ultimi sono trattati per primi e chiusi solo alla fine dell’intero processo, in modo da prolungare l’esposizione alla condizionalità prima dell’adesione (9). L’uso di benchmark da raggiungere per poter aprire o chiudere i vari cluster negoziali va nella stessa direzione. La più recente riforma della metodologia di allargamento sottolinea poi la necessità di istituire un chiaro meccanismo di incentivi e sanzioni per assicurare il rispetto dei criteri. Quindi, si prevede la possibilità di premiare i candidati virtuosi con più fondi o un’integrazione accelerata in singole aree. Invece, in caso di prolungato stallo o regressione, i negoziati possono essere sospesi (10). Come emerge da quanto detto sopra, la strategia dell’UE per promuovere la democrazia nei Paesi candidati è incentrata sul meccanismo di condizionalità: l’adozione di determinate norme costituisce la condizione per accedere a certi benefici (11). Il fatto che l’adesione rappresenti il “premio” più bramato dagli aspiranti Paesi membri rende tale strumento particolarmente proficuo nell’ambito della politica di allargamento. Nondimeno, ci sono fattori che incidono sull’efficacia della condizionalità, quali chiarezza delle condizioni e rapporto costi/benefici per ciascun Paese. Ma, più di ogni altra cosa, la promessa dell’Unione di assorbire quegli Stati che rispettano tutti i criteri deve essere credibile: solo così i Paesi candidati saranno veramente motivati ad implementare le riforme richieste. Al contrario, negli ultimi anni, la politica di allargamento è stata colpita da un deficit di credibilità. Questo si deve a un’opinione pubblica tendenzialmente sfavorevole, a disaccordi tra gli Stati membri, nonché dispute bilaterali tra questi ed alcuni Paesi candidati (12) - basti pensare alla Macedonia del Nord, che si è vista sbarrare la strada verso l’adesione per ben tre volte dai veti di diversi Paesi membri. In aggiunta, quando si tratta di esportare valori e norme di comportamento, come nel caso della democrazia, l’approccio rapido e tecnocratico insito nel principio di condizionalità potrebbe non bastare, o peggio essere controproducente (13). Affinché la democratizzazione sia sostanziale e duratura, è necessario che le regole democratiche siano interiorizzate da classi dirigenti e popolazioni. Pertanto, all’interno della strategia per l’allargamento, andrebbe dato maggior rilievo a strumenti di socializzazione, garantendo al contempo una maggiore partecipazione dei cittadini. 1. Vachudova, M. A. EU Leverage and National Interests in the Balkans: The Puzzles of Enlargement Ten Years on. Journal of Common Market Studies, vol. 52, n. 1, January 2014, p. 122-138. 2. Comunità Europee. Trattato che istituisce la Comunità economica europea. Roma, 25 marzo 1957. 3. European Parliament. Report by Billy Birkelbach on the Political and Institutional Aspects of the Accession to or Association with the Community. 19 December 1961. 4. Barracani, E., Calimli, M. Evaluating Effectiveness in EU Democracy Promotion: The Case of Turkey. Rivista Italiana di Politiche Pubbliche, n. 3, 2016, p. 427-456. 5. Smith, K. E. The Evolution and Application of EU Membership Conditionality. In Cremona, M. (Ed.) The Enlargement of the European Union. Oxford University Press, 2003, p. 105-139. 6. EUR-Lex. [Online] Glossario delle sintesi. Criteri di adesione. Consultabile su: https://bit.ly/3g9lkAb 7. Emmert, F., Petrovi, S. The Past, Present, and Future of EU Enlargement. Fordham International Law Journal, vol. 37, issue 5, 2014. 8. Maresceau, M. Pre-Accession. In Cremona, M. (Ed.) The Enlargement of the European Union. Oxford University Press, 2003, p. 9-42. 9. Vachudova. EU Leverage and National Interests in the Balkans. 2014. 10. Commissione europea. [Online] Comunicazione della Commissione europea al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni. Rafforzare il processo di adesione - Una prospettiva europea credibile per i Balcani occidentali. Bruxelles, 5 febbraio 2020. Consultabile su: https://bit.ly/2RzitbG 11. Schimmelfennig, F., Sedelmeier, U. [Online] The Europeanization of Eastern Europe: the External Incentives Model Revisited. In Matlak, M., Schimmelfennig, F., Woźniakowski, T. P. (Eds.) Europeanization Revisited: Central and Eastern Europe in the European Union. European University Institute, 2018, p. 19-37. Consultabile su: https://cadmus.eui.eu/handle/1814/59573 12. Ibid. 13. Malová, D., Dolný, B. The Eastern Enlargement of the European Union: Challenges to Democracy?. Human Affairs, n. 18, 2008, p. 67–80. a cura di Elisa Desiglioli Secondo alcuni recenti studi macroeconomici, la Repubblica Popolare Cinese (RPC) è sempre più vicina ai successi produttivi degli Stati Uniti. La “fabbrica del mondo” però, secondo i dati pubblicati da istituzioni internazionali come Wolrd Bank e International Monetary Fund, è ancora lontana dal divenire la nuova potenza egemone, in quanto alcuni indicatori sono più vicini a quelli dei paesi in via di sviluppo. Ad esempio, nel 2020 il PIL pro capite nominale cinese ($10,500) è decisamente inferiore ai valori prodotti dagli Stati Uniti ($63,543) e alla media dell’Unione Europea ($33,927). Parte integrante e modello per alcuni Paesi del Sud del Mondo, la Cina si è fatta promotrice della cooperazione sud-sud, diffusa in America Latina, Sud-Est Asiatico, Africa e Oceania, con l’obbiettivo di raggiungere livelli di sviluppo più elevati evitando il “Washington Consensus”, in favore del nuovo e meno esigente “Beijing Consensus”. La strategia cinese prevede il finanziamento di infrastrutture e edifici nonché il supporto economico e politico per quei paesi che tradizionalmente hanno fatto affidamento al sostegno delle organizzazioni internazionali o degli Stati Uniti, come nel caso dei paesi dell’America centro-meridionale. Storicamente quest’area è riconosciuta nella sfera di influenza statunitense, come esposto dalla Dottrina Monroe del 1823, caposaldo della politica estera di Washington. La Repubblica Popolare Cinese presta supporto a questi paesi attraverso partnership e accordi bilaterali in progetti dai quali Pechino può ricavare benefici economici futuri e soddisfare la necessità di materie prime e risorse richieste dalla crescita smisurata del Paese. Un’ulteriore prerogativa da Pechino, in cambio del supporto prestato, è la rottura di ogni tipo di relazione intrattenuta con Taiwan: l’obbiettivo è riconoscere l’Isola di Formosa, al largo della regione del Fujan, come territorio cinese e non come stato sovrano. Gli Stati che si oppongono alla condizionalità posta da Pechino, non sono titolari dei benefici della cooperazione sud-sud promossa negli ultimi anni dalla Cina. La politica adottata dalla RPC nei confronti di Taiwan è quella nota come “Un paese, due sistemi”, per la quale la Cina risulta l’unico soggetto politico sovrano che concede un certo grado di autonomia amministrativa ai territori dell’Isola di Formosa sottoposti all’autorità unica della Repubblica Popolare Cinese: la principale differenza è il sistema economico che contraddistingue Taipei dalla Cina continentale. Dall’altro lato del Pacifico, durante l’epoca maoista, la Repubblica Popolare Cinese vedeva il suo unico alleato in Cuba, principalmente per una vicinanza ideologica, quando nel resto del continente si cercava di contenere il comunismo sotto la guida egemone degli Stati Uniti. La possibilità di una cooperazione economica inizia a svilupparsi nella regione con Deng Xiaoping e Jiang Zemin, ma soltanto sotto la guida di Hu Jintao inizia una vera e propria campagna in America Latina. Dal 2004 la Cina diventa una presenza imprescindibile nel continente, caratterizzata dalla promozione della cooperazione tra Paesi del Sud del mondo, al fine di raggiungere obbiettivi comuni ai developing countries. Attualmente sono 15 gli Stati che intrattengono relazioni diplomatiche con Taiwan, e 9 di questi si trovano in America Latina e nel Caribe: il Costa Rica ha interrotto i rapporti economici con Taipei per istituire un free trade agreement (FTA) con Pechino nel 2011. In seguito all’ingresso della RPC alle Nazioni Unite nel 1971 (precedentemente la Cina era rappresentata dalla Repubblica di Cina), la RPC si è impegnata ad isolare Taipei, specialmente sotto le pressioni di Xi Jinping a seguito delle elezioni sull’isola del 2016. Durante l’ultimo decennio, Taiwan ha negoziato alcuni FTAs con Panama, Guatemala e Nicaragua, i quali hanno innescato risposte diplomatiche da parte di Pechino, che a sua volta è riuscita ad ottenere l’interruzione dei rapporti tra Panama e Taipei, ampliando il progetto della Via della Seta marittima. La principale minaccia secondo gli USA è di natura tecnologica, in quanto un progetto finanziato e costruito da Huawei prevede la creazione della prima «free zone digitale» del paese. Anche la Costa Rica ha firmato un FTA con la Cina nel 2011 a seguito del disconoscimento di Taipei nel 2007: Pechino ha acquistato bond costaricani per 300 milioni di dollari nel 2008, investito 1,5 miliardi di dollari per la costruzione di una nuova raffineria e donato 83 milioni di dollari per la costruzione di un nuovo stadio. La strategia cinese può essere compresa analizzando i paesi sostenitori della sovranità taiwanese: questi risultano essere di scarso interesse per Pechino sotto diversi aspetti. Le loro dimensioni, risorse naturali e ruoli geopolitici sono ridotti rispetto ai principali partner cinesi nella regione come Cile, Perù o Brasile, con i quali la RPC intrattiene forti legami politico-economici al punto di divenire la prima partner commerciale per diversi paesi in America Latina. La competizione tra Taiwan e Pechino nel mondo, nata dall’opposizione ideologica, si è spostata sul campo della checkbook diplomacy. Ci si interroga sui prossimi stadi della sfida tra le due: il comportamento degli attori internazionali nei confronti di Taipei risulta sempre più vicino al principio cinese di non-interferenza, mentre Taiwan vuole essere, sulla base dei Tre Principi del Popolo taiwanese, “una repubblica democratica del popolo, governata dal popolo e per il popolo”.
a cura di Ludovica Radici Nel corso dell’ultimo ventennio, l’Arabia Saudita si è trovata ad affrontare una delicata fase di transizione che l’ha portata a considerevoli cambiamenti interni. Governato da una monarchia assoluta di impronta fortemente wahhabita, il paese ha dovuto impegnarsi profondamente per contrastare la minaccia interna dell’estremismo islamico, in particolare a seguito degli attacchi dell’11 settembre 2001. Inoltre, l’economia saudita si regge sul petrolio, elemento che, fino a prima della crisi del 2008, ha portato al Paese profondi benefici finanziari, ma che ad oggi si profila come un limite, imponendo all’Arabia Saudita una condizione di “rentier state” in un mondo che sta cercando di spostarsi verso il consumo di fonti energetiche maggiormente sostenibili. Il monarca de facto dell’Arabia Saudita, Mohammed bin Salman, infine, è cosciente del fatto che il mondo attuale è profondamente cambiato, e del fatto che il regno che si trova ad ereditare deve conciliare l’identità nazionale saudita con i cambiamenti politici e tecnologici che il XXI secolo ha portato a livello internazionale. Per questi motivi, l’attuale establishment ha intrapreso riforme strutturali nell’impianto socio-economico del paese. Uno dei progetti con cui l’Arabia Saudita intende dare lustro alla propria immagine internazionale è senz’altro il Saudi Vision 2030, un piano di sviluppo approvato il 25 aprile 2016 con l’obiettivo di diversificare l’economia, creare nuove opportunità di lavoro, innalzare la qualità di vita del paese e portarlo ad una maggiore apertura nei confronti del resto del mondo, soprattutto dell’Occidente. Tra gli obiettivi del Saudi Vision 2030, vi è infatti una valorizzazione del patrimonio culturale saudita che passa sia dal rafforzamento dei flussi di turismo di matrice religiosa, con l’intento di accogliere più del triplo dei pellegrini attuali, che dal riconoscimento da parte dell’UNESCO di alcuni siti, in modo da aumentare il turismo laico internazionale. Inoltre, per quanto concerne la parte economica, l’Arabia Saudita identifica come prioritaria la diversificazione economica per potersi svincolare dall’immagine del “rentier state” per antonomasia, incrementando quindi il peso delle attività non legate all’industria petrolifera e petrolchimica. Le riforme saudite non si esauriscono qui: negli ultimi anni, il regno saudita ha compiuto alcuni passi avanti dal punto di vista delle libertà personali, ad esempio aprendo i cinema nel marzo 2018, ma soprattutto quando, a giugno dello stesso anno, le donne del regno hanno ottenuto il diritto di guidare. Ad aprile 2020, inoltre, l’Arabia Saudita, che detiene un triste primato nelle esecuzioni capitali annuali, ha abolito la pena di morte per i minorenni, con l’eccezione dei condannati per terrorismo. Si può dunque dire che l’Arabia Saudita abbia cominciato un percorso verso la realizzazione di maggiori diritti civili, oltre che verso un maggiore sviluppo economico? Purtroppo, nonostante questi cambiamenti, diverse organizzazioni che si battono per la difesa dei diritti umani, ad esempio Amnesty International, hanno sottolineato come la strada da percorrere sia ancora molta, e non ci si deve far distrarre da riforme “cosmetiche” che potrebbero avere come obiettivo principale solo quello di attrarre i paesi occidentali. La condizione della donna in Arabia Saudita, ad esempio, è ancora fortemente condizionata dal sistema di tutela maschile, un insieme di leggi che sottopone la donna alla tutela di un maschio della sua famiglia, padre, marito o addirittura figlio, dalla nascita fino alla morte. Nel 2016, Human Rights Watch ha realizzato un report intitolato “Inscatolate: le donne e il sistema di tutela maschile dell’Arabia Saudita”, che esamina nel dettaglio le storie di molte donne i cui diritti sono quotidianamente negati, e mette in luce tutte le barriere formali e informali contro le quali una donna in Arabia Saudita si scontra ogni volta che deve prendere una decisione. Le limitazioni descritte in questo report, inoltre, sono comuni alle donne di tutte le classi sociali: dal ceto più alto a quello più basso la donna dovrà sempre ottenere il permesso del proprio tutore per spostarsi, per lavorare, per sposarsi e persino per uscire dal carcere. Se il tutore di una donna ritiene che ella abbia disonorato la famiglia e che non sia moralmente accettabile riaccoglierla in casa, la prigioniera non viene rilasciata. Nonostante alcuni cambiamenti nel sistema, come il già citato permesso di guidare per le donne nel 2018, o anche la possibilità di partecipare alle elezioni amministrative nel 2015 e la possibilità di viaggiare senza il permesso di un tutore per le donne maggiori di 21 anni accordata nel 2020, è dunque evidente che la condizione della donna in Arabia Saudita è ancora fortemente limitata. Anche il successo rappresentato dall’abolizione della pena di morte per i minori viene immediatamente ridimensionato, se si considera l’ampia applicazione della legge contro il terrorismo, unica circostanza che permette l’esecuzione di condannati minorenni. Nel codice penale saudita, infatti, anche atti che non siano necessariamente di natura violenta come “insultare la reputazione della nazione”, “causare disordine pubblico ”, o un vago “minacciare la stabilità della nazione” possono essere considerati atti di terrorismo. Questa legge, inoltre, si riferisce anche a cittadini non sauditi al di fuori del regno, che possono essere accusati di terrorismo per aver cercato di “minacciare gli interessi del paese, della sua economia, e della sicurezza sociale”. La legge anti-terrorismo garantisce anche ulteriori poteri al Ministro dell’Interno, che può ordinare l’arresto di sospettati di terrorismo senza rispettare il principio di giusto processo, e con la possibilità di accedere a tutte le informazioni private del sospettato, senza la supervisione di un organo giudiziario. Nonostante le riforme socio-economiche e il progresso tecnologico, purtroppo l’Arabia Saudita rimane un paese intrappolato nel suo estremo conservatorismo e in dinamiche dittatoriali. I passi compiuti devono senz’altro essere riconosciuti e accolti favorevolmente, ma è chiaro che la strada da percorrere è ancora molta, ed è importante non farsi distrarre dai successi ottenuti finora.
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