A cura di Francesco Generoso Nonostante la pandemia da COVID-19 abbia attirato la quasi totale attenzione di istituzioni, media e opinioni pubbliche di tutto il mondo, con governi che hanno deciso misure di contrasto più o meno rigide, altre realtà hanno continuato ad evolversi, ignorando la diffusione della pandemia. Una di queste è il conflitto in Libia, che da anni vede coinvolte diverse fazioni, alimentato dagli interessi di potenze straniere. È passato poco più di un anno da quel 4 aprile 2019, quando il maresciallo Khalifa Haftar e il suo Libyan National Army (LNA) hanno iniziato un lungo assedio della capitale, Tripoli, contrastando quelle milizie che da anni, in modo più o meno continuo, sostengono il Governo di Accordo Nazionale (GNA) guidato da Fayez al-Sarraj, insediatosi dopo gli accordi di Skhirat, Marocco, firmati nel 2015. L'attacco ha assunto, nei mesi passati, caratteristiche molto particolari: l'utilizzo di pochi uomini, affiancati da gruppi mercenari (siriani e sudanesi per le forze tripolitane, sopratutto russi in supporto ad Haftar), e un massiccio uso di droni forniti principalmente da Turchia e Emirati Arabi Uniti. Nonostante l'inizio del 2020 sia stato favorevole alle forze di Haftar, con la presa della fondamentale città costiera di Sirte, nelle ultime settimane il GNA, dopo le ripetute violazioni del “cessate il fuoco” richiesto alla Conferenza di Berlino dello scorso gennaio, ha lanciato una controffensiva denominata “Peace Storm”. L'operazione, condotta con un ampio supporto aereo turco, ha permesso al GNA di riprendere il controllo di alcune città occupate dall'LNA, quali Sorman, Sabratha e altre, fondamentali per la riconquista della costa occidentale e la zona di confine con la Tunisia, nonché di portare avanti l'assedio della fondamentale base aerea di al-Watiya, distante 125 chilometri da Tripoli. La base, dal 2014 sotto il controllo delle forze dell'LNA, con una breve ripresa da parte del GNA nel gennaio 2020, ha un elevato valore strategico, non solo per la sua vicinanza alla capitale, ma anche per la breve distanza dalla città di Zintan, da sempre vicina ad Haftar e avamposto fondamentale per l'LNA nella Tripolitania. Nonostante le controffensive dell'LNA, il 18 maggio le forze governative hanno preso il controllo della base aerea, requisendo nell'operazione un sistema missilistico russo Pantsir S-1/SA-22 Greyhound, nonché dei Dassault Mirage F.1, Sukhoi Su-22 e Mi-24 “Hind-A” dismessi. L'offensiva governativa non si è fermata alla base di al-Watiya: un importante passo in avanti è stato fatto il 3 giugno con la presa dell'Aeroporto di Tripoli, da circa un anno controllato da forze vicine ad Haftar. Se la situazione sul campo al momento sorride ad al-Sarraj, Haftar non è rimasto fermo. Il cambio degli equilibri ha infatti portato il maresciallo della Cirenaica a prendere una importante decisione politica, forse disperata, riscontrando forti dissensi anche all'interno del proprio schieramento: un colpo di stato per destituire il Parlamento di Tobruk (l'autorità politica in contrasto con il governo di Al-Sarraj), rinnegare gli accordi di Skhirat e e autoproclamarsi capo della Libia. Inoltre, nonostante le recenti sconfitte, le forze di Haftar, ben supportate dall'esterno, continuano ad avere il controllo della Libia orientale e meridionale, restando a pochi chilometri di distanza da Tripoli. E' evidente infatti che il destino del conflitto libico è ormai nelle mani delle numerose potenze straniere in gioco: Turchia e Qatar per il governo tripolitano; Russia, Egitto, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita per Haftar, non contando la politica ambigua della Francia. Le iniziative di pace portate avanti alla Conferenza di Berlino sono state totalmente disattese visto che i due schieramenti hanno continuato a combattere, rendendo ben chiara che una soluzione politica è al momento lontana, preferendo piuttosto quella militare. A nulla è servito inoltre l'inasprimento dell'embargo alle armi delle Nazioni Unite, continuamente violato da tutti i paesi coinvolti: emblematiche le dichiarazioni dell'ex ispettore per le armi delle Nazioni Unite in Libia, Moncef Kartas, il quale ha dichiarato che non vi è “alcun rispetto dell'embargo, assolutamente alcuno”, facendo eco alle parole dette in precedenza dalla vice inviata speciale per la Libia delle Nazioni Unite, Stephanie Williams, che ha descritto l'embargo come una “barzelletta”. Williams che ha preso il posto dell'inviato speciale per la Libia, Ghassan Salamé, dimessosi lo scorso 3 marzo per motivi di salute, anche se molti sospettano che i continui insuccessi dell'azione dell'ONU e il mancato supporto della comunità internazionale al processo di pace siano la causa principale. Una situazione, quella libica, dove pare quindi che nessuno voglia davvero una pace tra i due schieramenti, e salvo le dichiarazioni di facciata e le conferenze, le quali lasciano ampiamente il tempo che trovano, tutti stanno provando a giocare la propria parte per perseguire i propri interessi nazionali. Le sorti della Libia sembrano inoltre legate a doppio filo a quelle della Siria: l'evoluzione dell'altro grande conflitto dell'area mediterranea sta infatti portando numerose risorse impiegate nel paese mediorientale verso le coste nordafricane, con il ridispiegamento di mezzi e uomini a favore dei due schieramenti. I russi, già presenti con un nutrito numero di mercenari, principalmente parte del Wagner Group, stanno trasportando centinaia di ex combattenti fedeli ad al-Assad in Libia, al servizio di Haftar, con una paga di circa 1.000 dollari mensili. Siriani impiegati però anche tra le fila delle forze governative: già da gennaio migliaia di combattenti del Free Syrian Army, in particolare reparti della cosiddetta Sultan Murad Division, sono stati trasportati dalla Turchia in Libia per sostenere il governo di al-Sarraj, con una paga di 2.000 dollari e la promessa di ricevere la cittadinanza turca. Secondo alcuni analisti, il loro numero potrebbe crescere ulteriormente nel corso dei prossimi mesi (Eaton et al., 2020). Ad essere impiegati non sono però solamente i mercenari: la Russia, preoccupata dell'incolumità dei propri uomini sul campo dopo le ultime vittorie del GNA, ha inviato dei jet fighter Mig-29 per fornire supporto aereo ravvicinato ai mercenari e alle forze di Haftar, generando le proteste da parte degli Stati Uniti. L'AFRICOM ha infatti accusato la Russia di alimentare la guerra, supportando Haftar e la fazione della Cirenaica, non riconosciuta quale legittima dalla comunità internazionale. Un interesse rinnovato, quello statunitense, su un'area che dopo l'intervento della NATO nel 2011 contro Gheddafi e sporadiche operazioni aeree contro le milizie islamiste, in particolare il gruppo libico dell'ISIS, negli anni precedenti, non aveva visto una particolare presenza di Washington. La preoccupazione è infatti molto alta dall'altra parte dell'Atlantico, considerando una presenza permanente della Russia in Libia (e il possibile dispiegamento di ulteriori mezzi e armi, compresi missili) come una minaccia per l'Alleanza Atlantica e l'Europa. Alla luce di ciò, sembrano essere corretti i dubbi circa la nuova missione navale dell'Unione europea, Irini, il cui compito principale è attuare l'embargo alle armi. Iniziata ad aprile in sostituzione alla vecchia operazione Sophia, la missione è nata in seguito alla Conferenza di Berlino e alla decisione dei paesi dell'Unione di rinnovare il proprio impegno nel far rispettare l'embargo imposto dalle Nazioni Unite. L'idea è quella di schierare nuovamente assetti navali europei nel Mediterraneo per intercettare i mercantili che trasportano armi e altro materiale illegale in Libia. Tuttavia, un grosso problema è dato dal fatto che gran parte delle consegne avviene via terra e aria, in particolare quelle destinate all'LNA di Haftar (Scazzieri, 2020), come nel caso dei voli organizzati dagli Emirati Arabi Uniti, provenienti non solo dal proprio territorio ma anche dalla base aerea di Assab, in Eritrea. Le dinamiche che caratterizzano il conflitto libico sono molto simili a quelle viste in altri teatri di guerra attuali, come la Siria o lo Yemen: attori stranieri intervengono a sostegno delle diverse fazioni presenti sul territorio per rafforzare la propria posizione e sostenere i propri interessi nazionali. I fallimenti visti in Medio Oriente e nella Penisola Araba non lasciano spazio all'ottimismo, e la Libia, uno stato considerabile come “fallito” dal dopo Gheddafi, non vede pace dal 2011. Le forze in campo sembrano equivalenti, nonostante la forte avanzata di Haftar negli scorsi mesi, ed è quindi chiaro che saranno gli attori esterni e il loro grado di coinvolgimento a determinare le sorti del conflitto libico. Non sembra infatti plausibile il raggiungimento ad una soluzione politica, considerando le difficoltà ad un accordo tra le potenze straniere che soddisfi anche gli attori locali: solamente un game changer, come un eventuale inserimento degli Stati Uniti nel contesto considerato, potrebbe cambiare le carte in tavola e modificare il corso del conflitto. C'è inoltre da considerare la situazione territoriale: nonostante le conquiste portate avanti dai due schieramenti, le volubili alleanze delle varie tribù e milizie possono modificare lo scenario sul campo, determinando una fragilità importante per le due fazioni, che oltre a dover affrontare l'avversario devono riuscire a tenere a bada i dissidi interni. Bibliografia scientifica consigliata
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a cura di Massimo Spinelli Alla fine del mese di maggio è diventato virale sui social network un video, originariamente pubblicato dall’account twitter Alarm Phone, che testimonia un gruppo di migranti in mare mentre cercano di sfuggire a una serie di manovre pericolose operate da un’imbarcazione della guardia costiera libica. Il video in questione sarebbe apparso in seguito ad una doppia inchiesta internazionale, condotta da Avvenire in Italia e da The Guardian in Inghilterra. Minacciati a punta di fucile, ai migranti è stato imposto di fare dietro-front e tornare in Libia. A quel punto, gli uomini si sono gettati in mare in segno di protesta e disperazione. Le immagini si riferiscono ad un episodio avvenuto l’undici di aprile, giorno nel quale si è registrata l’entrata del gommone presso le acque territoriali maltesi. Il giorno seguente, si registrò l’arrivo dello stesso gommone carico di migranti nelle acque territoriali italiane, nei pressi di Pozzallo, dove sono poi stati accolti e dove hanno avuto l’opportunità di sbarcare. È subito apparso evidente che il dirottamento del gommone verso l’Italia sia avvenuto ad opera delle autorità maltesi, le quali, davanti alla disperazione dei migranti, hanno rifornito la precaria imbarcazione della quantità di carburante necessaria per raggiungere le acque territoriali italiane. Emerge così un retroscena che va ad alimentare la già intricata e complessa situazione diplomatica all’interno dell’area del Mediterraneo. In questi difficili mesi di pandemia, Malta ha preso la decisione di chiudere i porti per non incorrere in rischi di nuovi focolai di contagi sull’isola, potenzialmente portati da turisti e non residenti. Questa politica di salvaguardia per gli abitanti isolani non sembra però poter proteggere il governo di La Valletta dall’accusa di omissione di soccorso in mare, mossa da diversi attori istituzionali, compresa l’Unione Europea, attraverso la Commissione di Ursula Von der Leyen. Nonostante le numerose richieste di chiarimento sui fatti accaduti, tra le quali spicca quella del Ministro dell’Interno italiano Luciana Lamorgese, il governo maltese sembra non avere intenzione di commentare l’episodio. Le uniche dichiarazioni ufficiali riguardo all’accaduto, sono pervenute proprio mediante il ministro Lamorgese, le cui parole riportano un commento da parte del suo omologo maltese, Byron Camilleri. “La situazione non era esattamente come risultava dal video”, avrebbe dichiarato il ministro dell’interno del governo del giovane premier Robert Abela. Mentre la Farnesina conferma che la guardia costiera italiana non fosse stata avvertita rispetto alla vicenda dell’imbarcazione in arrivo, l’episodio in questione segna certamente un precedente rilevante. Seppur le autorità maltesi avessero già dato prova di comportamenti quantomeno discutibili in tema di soccorso in mare, l’episodio rappresenta un unicum nel suo genere. Prima d’ora infatti, non era mai successo che Malta prendesse questo tipo di iniziative nell’ambito dell’immigrazione e della cosiddetta “diplomazia del Mediterraneo”. Dall’altro lato, l’Italia si è trovata costretta a far fronte ad uno sbarco di 178 migranti senza alcun preavviso, unicamente come risultato di una decisione adottata in maniera unilaterale da parte del governo maltese. Sembrano ormai già lontani e dimenticati i giorni dei richiami alla solidarietà all’unità europea, delle nuove proposte di accordi e degli annunci ottimisti nel campo dell’immigrazione. Paradossalmente fu proprio a Malta che, lo scorso 23 settembre, i ministri dell’interno di Italia, Francia, Germania e Malta si incontrarono a La Valletta per stipulare un nuovo accordo temporaneo di solidarietà per la redistribuzione dei migranti. I roboanti annunci politici di un nuovo storico accordo internazionale però, lasciarono ben presto spazio allo scetticismo degli osservatori e degli analisti, i quali non hanno mai nascosto dubbi e perplessità rispetto all’iniziativa. Il risultato dell’incontro del 23 settembre fu una proposta da allargare a più paesi alleati sullo stesso fronte, da presentare in occasione del Consiglio dell’Unione Europea sugli Affari Interni, in programma il successivo 8 ottobre. La proposta sul tavolo fu vista essenzialmente come un segnale politico e non come un’effettiva proposta sostanziale per alterare i già consolidati equilibri politici all’interno dell’UE. In quella circostanza, gli unici paesi che si dissero favorevoli ad appoggiare l’accordo firmato a Malta, furono l’Irlanda, il Portogallo e il Lussemburgo. Incassata l’ennesima bocciatura ad una nuova riforma dei recenti accordi in essere in materia di immigrazione, l’Italia del secondo governo Conte non vide ricompensata una ambiziosa mossa politica in quanto a visibilità e discontinuità rispetto al precedente esecutivo. Di lì a poco l’accordo di solidarietà di Malta sparì dai radar della politica internazionale. Inoltre, vale la pena di ricordare che le politiche di immigrazione maltesi non sono affatto trasparenti nemmeno sul fronte interno. Esiste uno schema ben delineato per impiegare i migranti disperati in cerca di condizioni di vita migliori. È risaputo infatti che negli ultimi anni si siano moltiplicati i numeri degli “invisibili” impiegati, per la maggior parte, nel settore edile. Questi sono migranti che sono riusciti a sbarcare direttamente sull’isola, oppure dapprima in Italia, per poi partire proprio da Pozzallo. Una volta arrivati a Malta, entrano quindi a far parte di un sistema molto simile al caporalato, il quale permette a imprese di costruzioni senza scrupoli di sfruttare una nuova forza lavoro senza doversi curare dei diritti fondamentali dei lavoratori. Le leggi accomodanti per gli investitori e la fiscalità agevolata per le società completano il quadro. Questo è il doppio volto di Malta che, se da un lato respinge i migranti e li dirotta verso altri stati perché si dice impossibilitata ad ospitarne altri, dall’altro non si azzarda a interrompere un oliato meccanismo che va avanti ormai da tempo. Un circolo vizioso ben consolidato, attivo sin dalla precedente legislatura di Joseph Muscat, già denunciato dalla reporter Daphne Caruana Galizia, assassinata nel 2017 tramite un ordigno impiantato nella sua macchina. Bibliografia
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