a cura di Benedetta Lorenzale L’attuale situazione in Etiopia sta lentamente peggiorando nella regione del Tigray, al nord del paese e al confine con l’Eritrea. I rapporti tra lo Stato federale e la regione tigrina sono andati deteriorandosi già da settembre: ad oggi, la situazione di totale allerta rischia di aggravarsi e di portare ad una guerra civile nel paese. L’Etiopia, è definita “un mosaico di etnie”, con circa 100 milioni di abitanti è un paese da sempre caratterizzato dalla convivenza di più di 80 gruppi etnici diversi. I maggiori sono: gli Oromo, gli Amhara, i Somali ed infine i Tigrini. Questi ultimi, pur rappresentando unicamente il 6% della totale popolazione in Etiopia hanno da sempre dominato la scena politica del paese. È infatti a loro e al partito che li guida, il TPLF (Fronte di liberazione popolare del Tigray) che va attribuito l’inizio del processo di transizione federale e democratica che, a partire dal 1991 dopo la sconfitta da parte di questi del regime militare di stampo marxista: DERG, ha caratterizzato la politica del paese fino ad oggi. I rapporti tra il governo federale - con a capo Abiy Amhed Primo Ministro del paese e vincitore del Premio Nobel per la Pace nel 2019 - e la regione del Tigray si sono deteriorati da settembre. Il governo federale ha infatti deciso di posticipare le elezioni nazionali che, secondo l’art. 58 della Costituzione Etiope, si sarebbero dovute svolgere entro ottobre 2020. La posticipazione delle elezioni, dovuta alla pandemia da COVID-19, ha portato la regione del Tigray a rifiutare l’estensione del mandato e ad indire le nuove elezioni regionali che si sono tenute il 9 settembre scorso. In merito alla scelta tigrina di procedere autonomamente a livello regionale, si sono pronunciati a livello federale sia la camera alta del Parlamento etiope (House of Federation), dichiarando le elezioni nulle e prive di validità, sia il Primo Ministro, definendo le elezioni “Shanty Elections” (elezioni baracca). In una situazione già in bilico il risultato elettorale, probabilmente scontato, ha portato alla vittoria definitiva del TPLF, il partito di maggioranza e più carismatico all’interno della regione, con un 98% di voti consensuali. Al partito spettano dunque 152 seggi all’interno dell’Assemblea regionale mentre all’opposizione resta unicamente la suddivisione di 38 seggi. Questo segna uno straordinario dominio dei tigrini a livello locale. Il TPLF inoltre, era stato il partito centrale e dominante a livello nazionale all’interno della coalizione Dopo l’esito delle “Shanty Elections” la situazione tra il governo e la regione sono peggiorate. Ad inizio novembre, dopo diversi scontri nella regione Oromia - Welega, il Presiedente della regione Shimelis Abdissa ha accusato il TPLF di aver eseguito una serie di attacchi terroristici contro la popolazione civile e ha invitato il governo a prendere le giuste misure precauzionali. Nella notte tra il 3 ed il 4 novembre sono iniziate le prime operazioni militari nella regione a seguito di un attacco mortale da parte del partito al governo del Tigray verso una caserma militare federale. A seguito di quanto accaduto, il governo centrale ha dunque deciso di dichiarare lo stato di emergenza nella regione per sei mesi. L’escalation di violenza è peggiorata ed i toni usati dal Primo Ministro e dal Presidente della regione del Tigray, Debretsion Gebremichael, sono duri e bellicosi. Quest’ultimo ha infatti affermato che “se la guerra è imminente, siamo pronti non solo a resistere, ma a vincere”. Nella rassegna stampa del 4 novembre scorso, Abiy ha annunciato che “le forze di difesa etiopi, hanno il compito si salvare il paese da un governo regionale accusato di aver oltrepassato una “linea rossa” e quindi di tradimento”. Il Primo Ministro ha annunciato il 6 novembre la fine del “primo round” di operazioni militari nella regione che, nel mentre, sono deteriorate in attacchi aerei contro depositi di armi. Abiy ha anche affermato che l'offensiva in diverse zone della capitale regionale, Mekele, "ha completamente distrutto razzi e altre armi pesanti" al fine di rendere impossibile qualsiasi attacco di rappresaglia. Il 7 novembre inoltre, Abyi ha ottenuto i poteri necessari dal parlamento etiope per poter sostituire i leader all’interno dell’Assemblea Regionale del Tigray, che secondo il governo federale sono attualmente al potere in modo illegale e senza alcuna base costituzionale. Infine, l’8 novembre il Primo Ministro ha parlato della la precaria situazione alla comunità internazionale, annunciando che “per più di due anni, il governo federale ha optato per la massima moderazione, anche se è stato criticato dai cittadini, anche dal parlamento federale, per non prendere più misure per arrestare i fuggitivi dalla legge che erano in generale nella regione del Tigray”. La paura di una guerra civile e di una possibile secessione del Tigray dalla Repubblica Federale Etiope ad oggi è sotto gli occhi di enti internazionali come l’African Union, le Nazioni Unite e dell’intera comunità internazionale. In merito, si è espresso il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, allarmato per la situazione gravosa nella regione e annunciando che “la stabilità dell’Etiopia è importante per tutto il Corno d’Africa”, invitando le parti in conflitto ad una “de – escalation” di violenza in Tigray e ad una risoluzione pacifica del conflitto. La Costituzione Etiope del 1994 sancisce infatti, all’art. 39 il diritto di autodeterminazione della popolazione etiope che comprende il diritto di secessione dalla federazione. La possibile secessione del Tigray porterebbe ad un effetto deteriorante dello stato etiope e ad una reazione a catena da parte di altri stati regionali che non si sentono effettivamente parte integrante della politica del paese. Bibliografia
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a cura di Irene Ferri Il 24 settembre Joshua Wong, il 23enne volto delle proteste pro-democrazia di Hong Kong, è stato arrestato e, solamente poche ore dopo, rilasciato su cauzione. Le accuse a lui rivolte riguardano la partecipazione a una manifestazione non autorizzata tenutasi il 5 ottobre 2019 e la violazione della legge che vieta di indossare maschere che impediscono il riconoscimento di chi prende parte a manifestazioni e proteste. Non è la prima volta che Wong viene arrestato dalle autorità di Hong Kong. Il giovane attivista ormai da anni si batte per denunciare e cercare di ridurre la sempre maggiore interferenza della leadership di Pechino negli affari interni dell’ex colonia britannica e ha dato vita a una vera e propria lotta contro la mainland China, al fine di difendere il principio “un Paese, due sistemi” che regola i rapporti tra Pechino e Hong Kong dal 1997. Ad oggi il rispetto di tale principio, che ha sempre garantito a Hong Kong maggiori libertà civili e una più ampia libertà di espressione rispetto al resto della Cina continentale, è posto sotto minaccia, in particolare da quando lo scorso giugno il governo di Pechino ha ufficialmente imposto a Hong Kong l’adozione della Legge sulla sicurezza nazionale che dà alla leadership cinese la possibilità di stringere ulteriormente la propria morsa attorno alla regione amministrativa speciale. La nuova legge criminalizza qualsiasi atto di secessione, sovversione, terrorismo e collusione con forze esterne, nella cui definizione essa fa rientrare un vasto numero di reati tra cui figurano anche danni al trasporto pubblico e distruzione di strutture pubbliche. Si stima che dal mese di giugno, in virtù della neo adottata legge, siano stati arrestati quasi 300 attivisti, in particolare in seguito alle proteste dovute alla decisione dell’attuale esecutivo di Hong Kong di posticipare di un anno le elezioni per l’Assemblea legislativa, dalle quali Joshua Wong era stato escluso come candidato. L’imposizione della legge sulla sicurezza nazionale ha spinto Joshua Wong a sciogliere Demosistō, il movimento pro-democrazia che egli ha fondato insieme agli studenti attivisti Nathan Law, Agnes Chow e Jeffrey Ngo. Con la nuova legge, infatti, la presa di posizione da parte del movimento avrebbe quasi certamente portato i suoi membri a dover affrontare conseguenze penali e la situazione sarebbe diventata troppo pericolosa. Il recente arresto di Wong è un ulteriore duro colpo per gli Hong Kongers. L’arresto sembra avere un carattere e un movente puramente politici e ne sono una testimonianza le accuse che sono state rivolte all’attivista e le tempistiche dell’arresto. Le accuse confermano la pressione giudiziaria a cui Wong è sottoposto e numerosi suoi sostenitori ne mettono in discussione l’attendibilità. L’accusa di aver violato la legge draconiana contro l’uso delle maschere che renderebbero impossibile il riconoscimento dei manifestanti giunge, infatti, dopo che la Corte d’appello nel mese di aprile ha determinato l’incostituzionalità di tale legge. La Corte ha stabilito che il divieto di indossare mascherine può essere valido solamente in caso di proteste violenti e non autorizzate, mentre in caso di proteste o manifestazioni pacifiche è difficile trovare una giustificazione per imporre una restrizione alla possibilità di manifestare liberamente, come può essere il divieto di indossare qualcosa che copra il volto. La decisione della Corte ha, tuttavia, creato non poca confusione e numerosi attivisti e parlamentari pro-democrazia hanno chiesto l’abrogazione definitiva della legge in questione. Dopo la prima udienza che lo ha visto protagonista, tenutasi il 30 settembre, sono state confermate entrambe le accuse a carico del 23enne, compresa la violazione della Legge anti-maschere. Egli non è per ora sottoposto ad alcuna pena detentiva, ma la Corte ha accolto la richiesta dell’accusa di impedirgli di lasciare la città. La prossima udienza si terrà il 18 dicembre, dopo che la Corte Suprema nel mese di novembre sarà chiamata a emettere una sentenza definitiva sulla costituzionalità della sopracitata Legge in vigore dall’ottobre 2019, quando la governatrice Carrie Lam ha invocato lo stato di emergenza. Qualora la Corte dovesse pronunciarsi a favore dell’incostituzionalità di tale legge, una delle accuse a carico di Wong cadrebbe. Sottolineando il carattere politico del suo ultimo arresto, da cui non si è lasciato intimidire, il giovane attivista, attraverso una serie di tweet, ha sfruttato quanto accaduto per chiedere nuovamente alla comunità internazionale di non chiudere gli occhi di fronte alla difficile situazione di Hong Kong e ha rinnovato la richiesta di supporto alla lotta per la democrazia nell’ex colonia britannica. Le reazioni a livello internazionale questa volta non si sono fatte attendere. L’Unione Europea ha rilasciato una nota in cui condanna l’arresto dell’attivista 23enne e ribadisce il proprio appoggio al principio “un Paese, due sistemi” che prevede la presenza di un sistema giudiziario indipendente, privo di qualsiasi forma di influenza politica. L’UE, inoltre, ha sottolineato che l’atteggiamento della leadership cinese nei confronti di Hong Kong mette seriamente in discussione la volontà della Cina di portare a compimento i propri impegni internazionali, soprattutto a livello di tutela dei diritti umani, e mina le relazioni pacifiche tra Pechino e Bruxelles. Lo stesso Joshua Wong, che attraverso il suo profilo Twitter ha raccontato nei dettagli quanto accadutogli, ha evidenziato come il momento dell’arresto, il rilascio su cauzione e la data della prima udienza siano state tutt’altro che casuali. L’intera vicenda ha avuto luogo solamente pochi giorni prima della festa nazionale che celebra il settantunesimo anniversario della nascita della Repubblica Popolare Cinese, fondata da Mao Zedong il 1° ottobre 1949. L’arresto di Wong sembrava, quindi, voler fungere da deterrente per nuove manifestazioni poco pacifiche che gli attivisti avrebbero potuto organizzare in tale occasione. Lo scorso anno i festeggiamenti di Pechino erano stati oscurati sui media internazionali dalle proteste degli Hong Kongers e quest’anno la leadership cinese sembrava fermamente intenzionata a evitare che quanto accaduto nel 2019 potesse ripetersi. Al raggiungimento di tale scopo ha contribuito l’importante dispiegamento di forze di polizia che per tutta la giornata di festa nazionale hanno pattugliato le strade dell’ex colonia britannica. La polizia si è dovuta comunque scontrare con gruppi di attivisti, tra cui lo stesso Joshua Wong, che non si sono lasciati intimidire e, al grido di “It’s China’s national day but this is Hong Kong’s death day”, hanno sfidato il divieto di protesta dando vita a piccole manifestazioni non autorizzate. In seguito agli scontri, in virtù della Legge sulla sicurezza nazionale, ci sono state decine di arresti che, tuttavia, non scoraggiano gli attivisti, i quali hanno annunciato che non si arrenderanno e che continueranno a lottare per tutelare libertà e diritti civili a Hong Kong. Bibliografia
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a cura di Mario Ghioldi La parola Nagorno, seguendo l’etimologia russa, significa “montagna”, viceversa Karabakh è un termine di origine turco/persiana che richiama l’idea di un “giardino nero”. Il nome Nagorno-Karabakh può essere il più eclatante simbolo di come una zona montuosa, crocevia degli oleodotti che riforniscono i principali mercati mondiali, sia l’incontro e soprattutto lo scontro di culture e di modi di vivere differenti, in particolare quello azero e quello armeno. L’ escalation di fine settembre all’interno dell’enclave armena situata nel territorio azero non è solamente l’ennesimo episodio di una moderna “guerra dei trent’anni”, apparentemente dimenticata dalle potenze regionali e globali, ma potrebbe anche significare il cambiamento degli equilibri geopolitici nella regione caucasica. Le ragioni del conflitto temporalmente più lungo all’interno della zona post sovietica dalla fine della Guerra Fredda, devono essere ricercate proprio agli albori della storia dell’URSS. Nel 1921, Stalin incluse la regione del Nagorno- Karabakh, abitata in prevalenza dagli armeni, all’interno della Repubblica Sovietica dell’Azerbaigian, senza tener conto delle differenze culturali delle popolazioni coinvolte. In un mondo completamente differente, agli inizi degli anni novanta, la dissoluzione dell’Unione Sovietica ha causato un aumento esponenziale delle tensioni tra le parti. Di fatti, gli armeni dell’area, attraverso un referendum boicottato dalla stessa Baku, dichiararono l’indipendenza nei confronti dello stato centrale. In breve tempo, i contrasti sono sfociati in un vero e proprio conflitto, nel quale Yerevan ha sostenuto apertamente i separatisti con l’obiettivo di controllare la regione. Lo scontro iniziato nel 1991, oltre a causare 30.000 morti, ha generato un pericoloso stallo, nel quale differenti potenze globali hanno cercato di mediare tra le parti in causa. Anzitutto, dallo scoppio del conflitto, il Nagorno-Karabakh si definisce uno stato indipendente denominato Repubblica dell'Artsakh, la cui capitale è Stepanakert, maggiore centro abitato della regione. Tuttavia, tale stato non è riconosciuto a livello internazionale, nemmeno dallo stessa Yerevan. In secondo luogo, al cessate il fuoco del 1994, raggiunto attraverso la mediazione di francesi, statunitensi e russi (riuniti appositamente nel c.d. Gruppo di Minsk), non è seguito nessun significativo progresso nonostante gli sforzi dell’OSCE. Le frizioni nell’aprile 2016 (la “Guerra dei quattro giorni”) in cui morirono circa 200 persone sono state un chiaro segnale dell’instabilità nell’area. Gli scontri iniziati nell’ultima settimana di settembre sono legati alle schermaglie avvenute nel luglio dello stesso anno e mostrano diversi aspetti preoccupanti. Di fatti, oltre ad essere la peggior escalation dal 2016, come confermato dalla mobilitazione dei riservisti e dalla proclamazione della legge marziale sia da parte di Baku che di Yerevan, il conflitto potrebbe non essere più circoscritto come in precedenza. In particolar modo, il governo turco starebbe assumendo un ruolo più attivo all’interno dei contrasti tra i due attori. Ciò non sarebbe solamente confermato dalle dichiarazioni armene che denunciano l’arrivo di mercenari turchi in aiuto dell’Azerbaigian, ma anche dalle stesse affermazioni di Erdogan nei confronti di Yerevan. Ankara infatti ha espresso il proprio appoggio a Baku, sottolineando come l’Armenia sia “una seria minaccia per la pace nella regione caucasica”. In tale contesto, gli azeri, forti sia dell’appoggio turco che della loro supremazia economico/militare nei confronti degli armeni, potrebbero essere stimolati a cambiare l’attuale status quo. Inoltre, l’odierno disimpegno statunitense potrebbe ulteriormente spronare gli azeri ad agire nei confronti dei propri rivali. Di fronte a ciò, un ruolo chiave sarebbe assunto dall’altro grande attore coinvolto nella regione caucasica, la Russia. Se da una parte Putin è uno storico alleato militare dell’Armenia, come dimostra l’alleanza della Collective Security Treaty Organization (CSTO), raggruppante tutte le repubbliche ex sovietiche ancora vicine al Cremlino, dall’altra il presidente russo è legato economicamente all’Azerbaigian. Per tale motivo, Mosca non solo vorrebbe mitigare il conflitto tra i due paesi, ma preferirebbe non avere ulteriori frizioni con Ankara considerando il fragile equilibrio raggiunto con Erdogan in altre aree globali. In tale situazione, di fronte ad una Washington maggiormente occupata alle elezioni presidenziali, Putin potrebbe avere come alleato l’Unione Europea, che tramite il proprio Presidente del Consiglio Michel ha espresso viva preoccupazione per l’attuale escalation. L’attuale posizione di Mosca, costretta a destreggiarsi tra due alleati per evitare il conflitto, è l’arma diplomatica più efficace che Yerevan ha a disposizione. L’Armenia, molto più debole militarmente del rivale azero, è consapevole di come il Cremlino avrebbe tutto da perdere in un eventuale scontro fra i due parner. Il simbolo della protezione russa nei confronti degli armeni è dato dal citato Collective Security Treaty Organization, considerata come una NATO Sovietica in quanto contenente un meccanismo di difesa collettiva (e quindi con un alto grado di deterrenza) simile a quello del Patto Atlantico. In uno scenario che appare molto piu instabile rispetto gli anni scorsi, è quindi Mosca a ricoprire il ruolo di maggior rilevanza. Putin di fatti dovrà essere abile sia a mantenere il fragile equilibrio raggiunto con Ankara, che scongiurare un conflitto tra i suoi partner nel proprio “giardino (nero)”. ![]()
A cura di Alessandra Mozzi, tratto dal CSI Review n.1
1. Global-democracy: dove eravamo rimasti? Fin dal primo incontro con ciò che generalmente viene identificato come globalizzazione, probabilmente si percepisce già che, proprio come accade con tutti gli incontri particolarmente interessanti, la sua portata non finirà di stupire, facendo continuamente vacillare ogni conoscenza “certa” che col passare del tempo si fosse creduta acquisita. A dire il vero, di fronte ad un argomento come quello del c. d. “movimento globalizzante” la parola “certezza” è a maggior ragione fuori luogo: a partire dal dato per cui è difficile trovarne una definizione certa e univoca per tutti (essendone pressoché infinite piuttosto le “interpretazioni”)[1], fino ad arrivare alle dispute tuttora esistenti sulla esatta collocazione spazio-temporale del fenomeno nella sua dimensione ufficialmente riconosciuta (ovvero, da quando effettivamente le dinamiche globali/globalizzanti sono penetrate all’interno dei contesti politico-istituzionali, essendo già in parte operative invece nei contesti sociale ed economico)[2]. Le difficoltà che si presentano già dalla fase di impostazione dello studio in argomento non possono tuttavia distogliere l’analista curioso dalle infinite riflessioni che il tema stesso suscita, semmai anzi ne alimentano gli interrogativi, soprattutto con riferimento a realtà già consolidate, ossia se si entri all’interno del contesto “tipico” in cui da oramai più di tre secoli l’uomo si trova a vivere: gli Stati-Nazione, o plurinazionali. Sorti quali emblemi dell’età moderna dalle ceneri degli antichi imperi, poi divenuti Stati “assoluti” prima dell’età dei Lumi, e infine, una volta inseritisi nel cammino “liberale” attraverso la rivoluzione industriale e quelle politiche americana e francese, sono stati definiti come “costituzionali” grazie al trionfo dei diritti fondamentali borghesi e dello schema della divisione (rigida o morbida) dei poteri dello Stato. Il cammino verso la definitiva “costituzionalizzazione”, appena indicato a grandi linee e percorso da quasi tutti gli Stati appartenenti alla tradizione “liberal-democratica” (di matrice europea o comunque fortemente vincolata nei presupposti socioculturali alla c.d. “parte occidentale” del mondo), ha in realtà a lungo ispirato l’origine di diverse correnti di pensiero secondo le quali sarebbe stato possibile, nonché necessario, “esportare” questo modello costituzionale sottostante alle diverse varianti concretamente realizzate per applicarlo ovunque una stessa “evoluzione” storico-politica come quella vissuta dagli ordinamenti liberali e poi liberal-democratici non avrebbe potuto avere spontaneamente luogo, in mancanza di idonee condizioni storiche, economiche, politiche e sociali . Questo modello, nelle sue applicazioni e negli arricchimenti, ha dato corpo e significato ad una sorta di “mito democratico”, che ha animato gran parte della storia recente (a partire dalla fine della II Guerra Mondiale, cui ha sicuramente contribuito la nascita delle Nazioni Unite, e, rimasto “congelato” durante la Guerra Fredda, ha ripreso il suo cammino teorico e pratico dopo la caduta del muro di Berlino), ma ha anche costituito una fonte di problemi e difficoltà in diversi contesti nazionali, non adeguatamente (o meglio, culturalmente[3]) preparati a compiere un simile “salto in avanti”. La diffusione e l’implementazione dei modelli liberaldemocratici nel mondo, sia stata essa forzatamente introdotta o spontaneamente avvenuta per opera degli stessi ordinamenti che via via vi aderivano, si può quindi definire come un esperimento di “globalizzazione” tentato all’interno delle dimensioni statali, intendendo quest’ultima quale processo di “adeguamento progressivo” dei sistemi costituzionali ad una comune linea istituzionale in ogni caso come vigente in gran parte degli Stati del mondo[4]. Nonostante che gli esiti di questi interventi si siano rivelati spesso problematici, per non dire ― in certi casi ― completamente “deludenti”[5] , questo non ha fermato lo spirito rinnovatore introdotto nell’ambito degli stessi sistemi con tali adeguamenti, i quali anzi, attraverso dinamiche sempre più incalzanti, hanno accelerato i processi di conversione degli ordinamenti giuridici interessati in ordinamenti secondo canoni di “apertura democratica”, stavolta però pre-formati per essere applicati direttamente su scala globale. Le ulteriori “forzature” effettuate a partire da un modello costituzional-liberale tipicamente “interno” hanno probabilmente provocato conseguenze di maggiore rilievo proprio nei confronti di quegli Stati che erano già democraticamente caratterizzati, almeno sul piano politico-istituzionale, i quali si trovano adesso a confrontarsi con un nuovo modello globale di democrazia, dai tratti difficilmente decifrabili tramite i tradizionali strumenti del costituzionalismo. 2. Termini e motivazioni di un (im)possibile confronto Perché tuttavia accostare la globalizzazione (fenomeno tipico del mondo dell’economia) con la democrazia (inquadrata semplicisticamente come “forma di Stato”)? I due campi ― l’uno riguardante principalmente quelle dinamiche macroeconomiche di carattere “integrativo” nutrite soprattutto da sviluppo tecnologico, liberalizzazioni degli scambi e processi di cooperazione internazionale, l’altro invece relativo ad un genere dei rapporti tra lo Stato e i suoi cittadini che implica il rispetto, da parte del degli organi del primo delle garanzie costituzionali che si sostanziano nel riconoscimento ai secondi dei diritti fondamentali ― sembrano apparentemente lontani tra loro. Eppure le due dimensioni (economica e politico-istituzionale) presentano, anche così semplicisticamente descritte, un elemento che le rende simili: entrambi infatti, pur agendo (almeno all’inizio) su ordini di interessi differentemente percepiti e regolati, hanno ad oggetto un tipo di relazione, o meglio sviluppano una precisa idea di relazionalità, che si genera entro l’ordine/gli ordini, come anteriormente concepiti. Mentre però, nello specifico, la globalizzazione si concreta in una miriade di relazioni che possono svolgersi anche contemporaneamente, o addirittura di attività di relazione provenienti da “non-luoghi” e diretti in “non-spazi” volte ad azzerare quasi del tutto i tempi occorrenti per produrre effetti, la democrazia invece è profondamente legata, anzi inscindibilmente connessa, ad un tipo di rapporto (quello rappresentativo, ma anche diretto) costante e orientato a durare per un tempo determinato se intende produrre risultati utili, ossia decisioni appunto politiche e si sviluppa solo all’interno di una comunità idealmente pluralista, ma coesa. Allora, potrebbe dirsi che, se la democrazia, nata nell’arcaico ambiente della polis, disegna coerentemente il tipo di rapporti possibili entro la comunità cittadina e poi statale, la globalizzazione, ispirata alla dimensione cosmopolita, traccia il tipo di relazioni che sussistono quando nulla fa da confine, da barriera o da ostacolo all’azione (o all’inter-azione) pura e semplice tra soggetti[6]. Il punto da chiarire risulta ora un altro, ossia bisogna interrogarsi sul come agiscano in concreto, cioè in base a quali regole, i due ordini di fenomeni. La democrazia, almeno nel suo ideal-tipo liberal-costituzionale, funziona, in base a precise norme dal valore meta-etico e anche meta-democratico, astrattamente condivisibili da tutti, ma con un minimo di contenuto necessario (ovverosia non completamente “neutre”)[7] che possa costituire la base per la ragione pubblica. Questo modello integra appunto lo schema del fluire di una di relazionalità costante, costruttiva e intimamente pluralista, che deve caratterizzare la comunità (appunto se “democraticamente” intesa) e si comprende solo a partire dal presupposto, fissato dal costituzionalismo moderno, che la Costituzione abbia un valore prescrittivo e si ponga, a causa della natura stessa delle sue norme, al di sopra di ogni altra fonte presente nell’ordinamento, insomma che i suoi principi e le regole da essa poste, in quanto auto-legittimantesi, siano le uniche pre-condizioni essenziali da far valere, non solo sul piano formale, ma anche su quello valoriale[8]. La globalizzazione economica, dal suo canto, segue regole (ma potrebbe dirsi anche non-regole) del tutto differenti: non avendo basi precostituite da valori condivisi (e non potendosene praticamente dotare, dal momento che la condivisione dovrebbe provenire dall’intera popolazione mondiale), si muove seguendo caratteri, più che principi. Questo vuol dire che, ad esempio, gli attori dei processi globali (tra cui si contano, in maniera del tutto indifferente, Stati, organizzazioni internazionali, imprese private, ONG, banche, multinazionali, Autorità indipendenti ecc..), saranno liberi di scegliere metodi/ regole/ codici di comportamento attraverso i quali dare impulso alle proprie politiche, coinvolgenti qualsiasi campo del reale (che siano progetti sociali, o che riguardino relazioni economiche, o ancora che si propongano di amministrare la giustizia riguardo a certe tematiche), purché tutti rispecchino un comune spirito caratterizzato da universalità, specialità, perenne “apertura” al rinnovo, all’influenzabilità e all’allargamento verso “altri” attori e “altri spazi” non già ricompresi dall’inizio nel campo di gioco [9]. In termini più concreti, il metodo con cui procede la globalizzazione permette di creare relazioni sfruttando l’alta capacità comunicativa delle nuove tecnologie e del cyberspazio, non mirando tuttavia alla costituzione delle stesse, quindi a una solidificazione, a una stabilizzazione, quanto piuttosto ad una loro descrizione[10] pura e semplice. Questa inversione di sguardo rispetto al modo di proporsi del costituzionalismo è dovuta a quanto osservato dei caratteri dei due approcci: come è stato detto, la relazionalità globale/globalizzata non parte da legami stabili, né è diretta a crearne, ma opera secondo dinamiche che sono fini a sé stesse, e che, una volta innescate da soggetti (o, il più delle volte, da “entità” anche non soggettivate giuridicamente) che perlopiù rimangono estranei all’instaurazione di qualsiasi tipo di legame (giuridico, sociale, o istituzionale) con i destinatari delle loro stesse “politiche” (sostanzialmente i cittadini del mondo, intesi in senso economico come consumatori), le lasciano agire spontaneamente, in virtù di continui adattamenti/aggiustamenti alle circostanze[11]. Appare inutile in questa sede soffermarsi sulla decifrazione dei singoli “attori” che mettono in moto questi complicati processi, tantomeno sarebbe del resto possibile elencarli con completezza, data l’alta tendenza degli stessi a rifluire nelle categorie privatistiche, in modo da godere di più libertà d’azione in cambio di una minore “visibilità”[12]. La loro individuazione puntuale richiederebbe in effetti un complesso lavoro di ricostruzione a partire dagli “eventi” verificatisi, una vera e propria indagine per capire da dove e soprattutto da quali fattori sono scaturiti, ma questo implicherebbe l’impresa titanica di osservare criticamente fatti che riguardano popolazioni intere, che attraversano più continenti (anche in tempo reale) e che oramai coinvolgono la maggior parte delle nostre attività quotidiane. L’effettiva portata di queste nuove dinamiche rispetto all’ordine giuridico-costituzionale di segno completamente opposto che caratterizza la maggioranza dei Paesi nel mondo e in ogni caso il “sentimento di sé” della cultura occidentale comporta la necessità di chiedersi se (e, in caso di risposta positiva, come) si possa ipotizzare che proprio attraverso “nuove strutture” fluide, perché globalizzate, la democrazia originariamente occidentale riesca a raggiungere definitivamente tutto lo spazio (cosmico), a coinvolgere davvero tutta la popolazione (cosmo-polita), a riguardare ogni aspetto della realtà (comprendendo indistintamente in essa politica, dell’economia, del sociale, della giustizia, del diritto), a realizzare, per dirla con in una espressione sintetica, un futuristico “governo democratico del mondo”, o usando espressioni correnti, una “global-governance[13]”, ma democratica. Emerge a questo punto un’altra netta differenza concettuale tra movimento globalizzante e metodo democratico: il primo presenta un solo riferimento concreto possibile, che è quello relativo alla natura umana, nello specifico quella di un “uomo in quanto uomo” (in senso prettamente individualistico), rispetto ai bisogni (segnatamente il profitto, tenendo in conto il carattere essenzialmente economicistico della globalizzazione) dal quale pretende che tutte le attività esistenti siano orientate, siano quelle svolte all’interno dei singoli Stati, o appartengano già alle dimensioni sovra/inter-nazionali. Anche il concetto di metodo democratico, da parte sua, fa costante riferimento alla dimensione dell’uomo in quanto individuo, come espressa nei principi costituzionali e pur sempre collocandolo entro la “comunità” di altri individui pari a lui[14], ma non soffre questi quali fini della sua azione, bensì li riconosce quali limiti invalicabili all’esercizio della stessa[15]. La questione dell’incontro/scontro tra democrazia e globalizzazione viene smontata praticamente sul nascere, essendo certo che questi due fenomeni agiscono in misura praticamente antitetica, la democrazia garantendo il rispetto dei diritti, la globalizzazione fondandosi su di essi, senza però corredarli di alcun sistema di protezione. Il motivo di tale lacuna sta nel fatto stesso per cui la “global governance” non conosce alcun sistema se non quello regolato (o meglio auto-regolantesi) dalle variabili economico-sociali, che a loro volta possono esplicitarsi (così come possono scegliere di rimanere “nell’opaco”) sfruttando le più svariate tecniche, sia di natura già nota (regolamenti, contratti, direttive, ordini..), magari estendendone il significato e la portata, sia di natura nuova e a volte anche problematicamente “incerta”. Molteplici sono i riferimenti possibili a queste categorie empiriche del diritto globale: si va dal difficile inquadramento della c.d. soft law; al “trionfo” della lex mercatoria quale diritto “autopoietico” dell’economia globale, positivizzante un vero e proprio «strato di norme costituzionali» al di sopra e al di là del proprio stesso ambito, in origine tipicamente contrattuale; alle pratiche di bargaining applicate al di fuori delle sedi tradizionali ossia privatistico/commerciali; ma ancor di più si parla di Global Administrative Law o di Corporate Constitutionalism, che, completamente avulsi da una possibile origine statale/economica/privatistica, si affermano come veri e propri fenomeni giuridici globali. Tutto questi fenomeni sfuggono non solo alle dimensioni ristrette degli Stati nazionali e all’azione dei loro organi istituzionali di rappresentanza politica, ma si sottraggono altresì a qualsiasi tentativo di istituzionalizzazione (politica o giuridica che sia), non essendo in grado di realizzarsi entro il presupposto di unità ed eguaglianza sostanziale di tutte le parti coinvolte, anzi cedendo spesso ai fenomeni di c. d. ipersovranità [16]di quelle potenze (anche statali, ma egemoni) che più di altre riescono a tradurre in atto con successo un tal genere di politica. 3. Tra idealizzazione e realtà: non c’è global-democracy senza un constitutional-global-government Non è peraltro molto difficile pensare al passaggio successivo rispetto all’ultima notazione fatta, per cui, proprio in virtù dell’impossibilitata opera di “conformazione” globale di tutte le democrazie sotto un’unica identità comune, la prevalenza (almeno nei termini “informali” di influenza politico-economica) sarà attribuita non tanto (o non più) agli ordinamenti fortemente legati al paradigma democratico liberal-costituzionale, ma a quelli che, per motivi storico-culturali (primi fra tutti gli USA), o in virtù di tendenze di politica economica intraprese soltanto di recente (i casi delle c.d. “tigri asiatiche”, affiancate da sempre più Stati appartenenti alle aree indo e medio-orientale), meglio si adattano ai menzionati tratti del global law, come è dimostrato dal dominio indiscusso che gli stessi già detengono sui piani commerciale, finanziario e digitale investiti dalla globalizzazione. D’altra parte, lo stesso imperativo globale comporta che la suddetta operazione “conformativa” (volta a rendere tutti gli Stati adeguatamente pronti ad affrontare la global-democrazia) avvenga proprio avendo a base i “modelli democratici” realizzatisi in tali contesti, che tuttavia, al di là dell’apparente “progressismo” mostrato sul piano politico, spesso mostrano preoccupanti lacune sul piano dell’effettivo rispetto delle garanzie costituzionali, dunque delle stesse basi imprescindibili per la “buona” democrazia)[17]. A mano a mano che il fenomeno della globalizzazione (nozione dunque onnipervasiva, non facente più riferimento ad un contenuto di valore preciso, come la democrazia, bensì inglobante in maniera indiscriminata ogni aspetto del reale) avanza le sue “pretese” nei confronti degli Stati, essa rivela peraltro un’ulteriore e controverso aspetto che la differenzia completamente da ogni altro tipo di “adattamento” già storicamente vissuto dagli stessi (come accaduto nell’ambito internazionale e/o comunitario) e che è stato sempre formalmente accolto nei sistemi giuridici interni. Le dinamiche globalizzanti infatti, (già pre-munite di estrema flessibilità, che per di più va incontro alla grande permeabilità dei sistemi democratici) poiché agiscono in maniera informale all’interno degli ordinamenti, cioè senza essere sottoposte alla insostituibile funzione di consapevole interpretazione e organizzazione svolta tramite gli strumenti giuridici a ciò preposti, rischiano di generare dannosi fenomeni di loro erosione strutturale, proprio a partire da nozioni di base in cui si concretano i caratteri pre-giuridici essenziali all’identificazione di qualsiasi sistema istituzionale. Nello specifico, ci si riferisce al popolo (il demos) cui dare voce, “punto cardine” della cultura democratica, poiché questo è appunto l’obiettivo funzionale per la democrazia, la cui “costruzione” non potrà mai dirsi definitivamente terminata: la sovranità integrale del popolo viene indicato come “ideale” da raggiungere. L’avvento delle dinamiche globali ha segnato una netta cesura rispetto al compito spettante alle istituzioni democratiche degli Stati, ossia quello della continua elaborazione di politiche sociali volte a favore del popolo (del c.d. welfare, per intenderci): i canoni della globalizzazione sono a-politici (perché non dediti di per sé alla formazione di un popolo, ma diretti ad un imprecisato “complesso” di cittadini c.d. “globali”) e altresì a-sociali (le “società cosmopolite” in effetti non esistono, essendo piuttosto l’insieme di quei soggetti privati che utilizzano i menzionati strumenti informali), nonché, essendo privi della capacità di tutelare il cittadino in maniera “generale e astratta”, di fatto vincolati a mere variabili contingenti ed insieme a queste infine destinati a consumarsi. Gli stessi imperativi, su questi presupposti, mal si adattano poi a “dialogare” correttamente con le istituzioni della rappresentanza politica, su cui intanto ricade sempre di più il peso della dura scelta categorica tra il dover rispondere (democraticamente) agli interessi del (proprio) cittadino o il dover seguire in maniera a-prioristica il resto del mondo[18]. Altro ambito che risulta profondamente colpito dagli innescati meccanismi di indiscriminata apertura globale è quello economico, ove ancora una volta può rintracciarsi la sempre più tangibile privazione per gli Stati della possibilità di definire una propria politica economica (consistente nelle pur limitate misure di “aggiustamento” volte a sostenere la struttura del c.d. welfare). In virtù della crescente sollecitazione da parte “mercato globale”, gli stessi ordinamenti si vedono costretti spesso a delegare ad altri protagonisti esterni l’imperio assoluto in tale campo, nel quale, al precipuo interesse pubblico di perseguire il benessere collettivo, si sono sostituiti i dettami di una (ipotetica) “costituzione economica globale”, i cui principi fondamentali sono rivolti a garantire l’ illimitata libertà di movimento delle sole “variabili” di mercato, dalle dinamiche fluide ed incerte consentono sempre meno spazio al raggiungimento di obiettivi fi utilità generale (soprattutto se di medio/lungo periodo), a vantaggio del perseguimento dei “risultati attesi”[19]. Si può in sintesi affermare che al “globalizzare” la realtà statale democratica debba necessariamente far precedere la ricerca di comuni parametri di riferimento, sulla cui base costituire regole potenzialmente applicabili ovunque, in qualunque momento, in qualsiasi circostanza. Questi stessi paradigmi si rivelano invece tuttora inadatti al confronto con il “bene comune”, di cui intanto entro i confini statali si continua a richiedere la promozione da parte delle rappresentanze politiche: una visione distopica che in sé rispecchia l’intrinseca contradizione in termini che si è finora palesata tra globalizzazione e democrazia, la quale insieme comprende e giustifica gli innumerevoli paradossi generati nelle attuali realtà (sempre meno) politiche.L’invito a questo punto è di ripensare i termini della questione proposta all’inizio, più precisamente di riscrivere i termini del rapporto democrazia-global governance in una constitutional- global governance, unica strada realmente praticabile per poter innalzare il livello di “democraticità” dei processi d’integrazione globale (intesi nel senso di un loro “avvicinamento alla cittadinanza”, ma stavolta mondiale), che risulta essere quella data dall’accrescimento e dalla transnazionalizzazione delle garanzie costituzionali[20]. Anche sul piano globale, quindi, così come rilevato in ambito statale, non può insomma concepirsi una reale democrazia senza costituzionalismo, anzi, benché ci si sforzi di immaginare che in un lontano futuro la global-democrazia possa realizzarsi sul serio, sarebbe il caso di concentrarsi in primo luogo nell’opera di ricostruzione delle strutture democratiche interne agli Stati (innanzitutto organi rappresentativi, autonomie locali e associazionismo politico/sociale), «contropoteri decisivi per la salvaguardia della democrazia “al tempo della globalizzazione”»[21]. [1] A. Baldassarre, Globalizzazione contro democrazia, Bari, Laterza, 2002, 6 s.: «L’essenza della globalizzazione sta nel fatto che una particolare azione umana, simultaneamente ad altre provenienti da non-importa quale luogo, può direttamente estendersi da una parte all’altra del mondo […] annullando tutto lo spazio fisico, cioè la distanza, e […] azzerando il tempo occorrente per il compimento dell’azione stessa» Dunque per l’autore, che abbraccia questa versione prettamente sociologica del concetto, essa è un prodotto della rivoluzione cibernetica che ha radicalmente rivoluzionato la comunicazione sociale ed essendo questa il mezzo principale attraverso cui si svolge ogni interazione umana ― arriva a dire che «non c’è attività sociale – dall’economia, alla politica, dall’etica al diritto, dall’educazione e dall’istruzione alla formazione culturale ― che possa sfuggire all’influenza della rivoluzione cibernetica»; mentre è diversa, ma allo stesso tempo complementare, l’interpretazione del termine da un punto di vista prettamente psicologico, un cui esempio è dato dal pedagogista belga O. Decroly, La fonction de globalisation et l’enseignement, Brussels, Lamertin 1929, il quale, nell’ambito degli studi sul metodo di apprendimento del bambino, afferma che egli coglie “globalmente” nella percezione gli oggetti a lui presentatisi in situazioni concrete e in essa tende ad inserire indistintamente anche gli stati d’animo, quindi le emozioni e gli interessi di base (i c.d. “bisogni”, quali il nutrirsi, il coprirsi, il difendersi..). Non essendo fin dall’inizio la sua mente predisposta a discernere analiticamente la realtà, costituiranno questi ultimi l’impulso principale per la stessa attività globalizzatrice. [2] In questi due campi, in effetti, la nozione trova le sue premesse applicative a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, quando l’uso del termine in sé ancora non è attestato, né nelle scienze sociali ― dove è viva però (già dalle esperienze degli anni Venti) la percezione di una crisi sistemica in atto ― né in economia, ambito in cui i mutamenti in corso venivano riconosciuti per la prima volta non semplicemente “provvisori”, ma definitivamente “costitutivi” dell’ordine post-moderno, tanto da far parlare (abbracciando la famosa interpretazione data nell’opera omonima di J.K. Galbraith) di una imminente vera e propria “età dell’incertezza”. Su questo e altri temi legati alle evoluzioni del concetto v. R. Sciortino, Il dibattito sulla globalizzazione: dagli anni Novanta ai segnali di crisi, Working Paper, Asterios, Maggio 2008. [3] Per quanto da molti ci si sforzi di analizzare la democrazia con i soli strumenti del giurista, ammesso che questo sia possibile e utile, l’aspetto culturale è una delle variabili che maggiormente determina il successo o meno delle “formule democratiche”. Quella occidentale-europea/anglo-americana (la liberal-democrazia) si è rivelata quale modello di maggior successo, proprio perché nasce dalla cultura europea, profondamente liberale; essa però, oltre a conoscere varianti al suo interno, si è vista nel tempo contrapporre modelli diversi, quali frutti altrettanto “culturali” di ambienti totalmente differenti (si ricordano tra i meno risalenti i risultati delle democrazie “innestate” nelle aree di ex-dominî coloniali o di quelle “intraprese” nell’Est europeo post-sovietico). Tra i più recenti casi di democratizzazione propostisi sulla scena mondiale vi sono quelli appartenenti al c. d. “East Asian Model” (tra cui si collocano Cina, Singapore, Taiwan, Sud Corea, Thailandia, Malaysia…), i quali attualizzano il discorso relativo al legame cultura/democrazia più di ogni altri. Come infatti fa notare acutamente F. Zakaria, The Future of Freedom, New York-London, 2003, 54 ss. :«A hundred years ago, when East Asia seemed immutably poor, many scholars- most famously Max Weber-argued that Confucian-based cultures discouraged all the attribues necessary for success in capitalism. A decade ago, when East Asia was booming, scholars had turned this explnation on its head, arguing that Confucianism actually emphasized the traits essential for economic dynamism. Today the wheel has turned again and many see in “Asian values” all the ingredients of crony capitalism». Così come è accaduto per il capitalismo, dunque, anche una volta intrapresa la “strada della democratizzazione”, il successo o meno dei modelli applicati in questi Paesi non può che essere valutato parallelamente e in relazione al giudizio sul “cammino culturale” da essi effettuato. Come più avanti lo stesso autore dirà: «If one wants to find cultural traits of hard work and thrift within East Asia, they are there. If you want instead to find a tendency toward blind oboedience and nepotism, these too exist » , tuttavia, a conferma di quanto il piano culturale sia spesso assai più complesso rispetto ai tentativi di “immagazzinarlo” entro strutture e istituzioni giuridiche, aggiunge : «Look hard enough and you will find all these traits in most cultures.», infatti proseguendo, :«East Asia is still rife with corruption, nepotism and voter fraud- but so were most Western democracies, even fifty years ago. Elections in Taiwan today are not perfect but they are probably more free and fair than those in the American South in the 1950s […] large conglomerates have improper influence in South Korean politics today, but so did their equivalents in Europe and the United States a century ago» insomma la sua conclusione è significativa :«One cannot judge new democracies by standards that most Western countries would have flunked even thirthy years ago . East Asia today is a mixture of liberalism, oligarchy, democracy, capitalism and corruption- much like the West in, say, 1900. But most of East Asia’s countries are considerably more liberal and democratic than the vast majority of other non-Western countries». Tutto ciò a riprova del fatto che sarebbe praticamente impossibile (nonché teoricamente errato e politicamente scorretto) procedere nella selezione del “modello (cultural)-democratico” ideale per la global-democrazia e dunque letteralmente “giudicare” quale tra le diverse culture dovrebbe prevalere, senza che però ci siano davvero alla base principi comuni, che siano astrattamente condivisibili da tutti, ossia principi costituzionali accomunanti, che siano formalizzati o no in un testo o più. [4] S. P. Huntington, The third wave. Democratization in the late twentieth century, 1991, (trad.it., La terza ondata. I processi di democratizzazione alla fine del XX secolo, Il Mulino, Bologna 1995, 36), in particolare parla di tre “ondate” di democratizzazione che hanno interessato diverse zone del mondo a partire dalla fine del XIX secolo, intendendo con queste «una serie di passaggi da regimi autoritari a regimi democratici, concentrati in un periodo di tempo ben determinato, in cui il numero di fenomeni che si producono nella direzione opposta (passaggi da regimi democratici a regimi autoritari) è significativamente inferiore». Per l’esattezza, mentre con la prima e (dopo quella di c. d. “riflusso”, corrispondente ai regimi totalitari degli anni ’20 e ’30) in parte con la seconda (dopo il secondo conflitto mondiale) la democrazia si consolida soprattutto l’Europa occidentale e l’America (sia nel Nord che nel Sud del continente), è con la seconda e la terza che questa si diffonde in zone completamente “nuove” (perché rimaste completamente estranee fino ad allora da ogni “contaminazione” democratica): l’Europa orientale, l’Africa, l’Asia centrale, i cui singoli Stati hanno tuttavia dato diversa prova circa la “tenuta” di questo modello. [5] Una conferma di quest’ultima constatazione è il disincantato bilancio sullo stato delle democrazie “innestate” nel continente africano fornito da O. Nwatchock A Birema, La démocratie en Afrique subsaharienne. Une question de volonté? che si legge in Carpadd, Note d’analyses sociopolitique, n.3/Mai 2018, 1 ss.:« Dans le sillage de la chute du mur de Berlin (1989), plusieurs États d’Afrique subsaharienne engagent, de façon tumultueuse, des réformes institutionnelles et juridiques devant faciliter la diffusion et l’intériorisation de la culture démocratique. Près de trente ans plus tard, le bilan démocratique est très mitigé, l'horizon de ce système est de plus en plus obscurci et les peuples ont largement déchanté. Le sentiment général est que les fruits récoltés de la pratique démocratique en Afrique n'ont pas confirmé la large promesse des fleurs de 1990. Le tableau est sombre : coups d'État récurrents, alternances bloquées, partis- (d’)États persistants, néopatrimonialisme, fragilité de l'État et de la souveraineté, sous-développement continu, etc. C'est manifestement le règne de la “démocrature “: maintien des logiques autoritaires sous les draps de la démocratie réelle. Bref, la démocratie est encore hésitante en Afrique». [6] Per questo A. Baldassarre, Globalizzazione contro democrazia, cit., 37 arriva a ritenere che: «La “forma” delle relazioni sociali come disegnata dalla globalizzazione confligge in particolare con la democrazia (pluralista-occidentale)», poiché in sostanza – egli continua ― «il mondo globale è fatto di molteplici relazioni, ma non si configura come una comunità». [7] Cfr. A. Spadaro, Il re è nudo: le Costituzioni sono “di tutti” (etica pubblica generale), ma non sono “vuote” (politicamente neutre), in Costituzionalismo versus Populismo, Scritti in onore di Lorenza Carlassare. Il diritto costituzionale come regola e limite al potere, Jovene, 2009, 3 ss [8] G. Azzariti, Democrazia e Costituzione nei grandi spazi della contemporaneità, Giornale di storia costituzionale, 32/ II 2016, 234 ss : «Che la Costituzione si ponga- e sia percepita- come lex superior risulta essere una precondizione essenziale perché essa possa continuare ad assicurare la garanzia dei diritti fondamentali ed a tenere separati i poteri. […] Una supremazia riconosciuta cioè sul piano di valori capace di imporsi a tutti i soggetti detentori del potere, ponendosi a fondamento di legittimazione della politica. È la Costituzione […] che deve fondare la politica e non viceversa». [9] M. R. Ferrarese, Mercati e globalizzazione. Gli incerti cammini del diritto, in Politica del diritto, 3/ 1998, 3 ss :«Si può insomma parlare di nuove forme di “intelligenza giuridica” prodotte al contempo da vari soggetti pubblici e privati, che accompagnano la vita dei mercati. [..] si potrebbe dire che i mercati registrano, accanto alle tradizionali misure giuridiche statali, la produzione di nuove forme giuridiche che non hanno più un carattere prestabilito, ma assumono piuttosto modalità adattive […] Esse non si propongono più tanto il fine di normare e governare le relazioni economiche, quanto di costruirle, ampliarle, legalizzarle, rispondendo volta a volta a finalità organizzative, di contrattazione, di flessibilità ecc.» In seguito l’autrice sottolinea come la produzione di “intelligenza giuridica”, pur partendo dal campo economico, con il coinvolgimento di soggetti sempre più numerosi, genera cambiamenti «sia sulla natura delle istituzioni economiche, che assumono una valenza politica, che su quella degli Stati, che per converso assumono come proprii moduli di azione economica, come quello della competizione». [10] G. Azzariti, Democrazia e Costituzione nei grandi spazi della contemporaneità , “ in Ivi”, 235 si sofferma sull’assetto pensato dal costituzionalismo post-moderno o globalizzato, che giunge a «scindere il rapporto tra costituzione e politica», per cui «[..] la costituzione finirebbe per perdere la sua specifica forza precettiva» e quindi «[…] il costituzionalismo finirebbe per assolvere ad una funzione sostanzialmente descrittiva degli ordinamenti e delle organizzazioni sociali, secondo il tipico modello pre-moderno di costituzione. Si dovrebbe correttamente parlare, allora, di nascita di un neo-medioevalismo costituzionale». [11] Ancora , sulle entità “multiformi” di tali “nuove dinamiche”, v. M.R. Ferrarese, op.cit., 1 ss : «[Esse] possono avere sia carattere istituzionale che carattere non istituzionale. In secondo luogo possono avere sia carattere sovranazionale, come mostra l’importante esempio dell’ Unione Europea, sia carattere infranazionale, come avviene ad esempio quando protagoniste di accordi sono regioni o aree che possono appartenere allo stesso Stato o a più Stati. Così, […] nel contesto della globalizzazione, ci si riferisce a realtà diverse, in parte disegnate da processi istituzionali, in parte [..] da processi spontanei e informali». Tra i casi che più vengono richiamati sulla base di queste indicazioni si colloca sicuramente l’ambiente europeo (soprattutto quello disegnato dal c.d. mercato unico) che, caratterizzato da una molteplicità di culture giuridiche senza una definita dinamica istituzionale, si trova spesso a dover legittimare le scelte dei propri soggetti politici con il ricorso a motivazioni “tecniche”, presuntamente neutrali (fatto che spesso costa all’Unione l’appellativo di “tecnocrazia”); così come pure si muovono le c.d. “tigri asiatiche”, vere e proprie late-comers sia in campo economico che politico, le quali (pur consistendo in “Stati”, sia geograficamente, sia culturalmente) sfruttano le più variegate tecniche giuridiche, politiche e statali per raggiungere di volta in volta risultati preventivamente fissati. [12] La ragione di questa “traduzione” dal pubblico al privato è insita nella natura stessa delle dinamiche globalizzanti, innescate a partire dal campo economico, da sempre (e soprattutto a partire dalla rivoluzione capitalistica) connotate da una caratteristica ad esse utile, considerando che la dimensione privata è anche il luogo della schermatura dal controllo del potere politico. Un assunto convalidato dall’esperienza storica e divenuto anche oggetto di principi fondamentali garantiti dalle Costituzioni (ad es. negli articoli 13, 23, 32 e 41 della Costituzione italiana. Quest’ultimo assicura che “L’iniziativa economica privata è libera”. Tali prescrizioni tuttavia, proprio in virtù di un processo di perdita della loro forza precettiva vengono soppiantate da modelli contrattuali uniformi, codici di condotta internazionali, lex mercatoria, quali prodotti da corporazioni transnazionali, (tra cui si può collocare anche il WTO) , ONG, multinazionali, tutti soggetti sempre più slegati dal circuito politico-rappresentativo che ridisegnano il diritto a vantaggio dell’ interesse. [13] Cit. G. Azzariti, op. cit., 237. [14] Basti pensare, a questo proposito, proprio al testo dell’art 41 nella Costituzione italiana, appena richiamato, dove, accanto al diritto di libera iniziativa economica del singolo, è previsto il divieto di contrasto al principio di “utilità sociale”(c. 2) e il vincolo al rispetto della sicurezza, libertà e dignità umana altrui. Limiti che, purtroppo, diventano sempre più irrilevanti mano a mano che l’economia si allarga verso lo spazio globale, allontanandosi dalle discipline giuspubblicistiche statali. [15] Il problematico rapporto tra il costituzionalismo democratico (riferito ai diritti umani) e la Drittwirkung transnazionale e globale (che pure, affermatasi più di recente, ha fatto enormi progressi in pochi decenni grazie soprattutto al contributo di attori collettivi non statali, spesso gli stessi protagonisti dei movimenti globali) nasce da uno scontro teorico tra nomoi differenti, segnalato già da C. Schmitt, Il Nomos della terra nel diritto internazionale dello "jus publicum europaeum", trad. it., Milano, 1991, che vede il nomos democratico ancora vincolato alla dimensione dello Stato sovrano, la quale a sua volta è impermeabile all’influenza del nomos internazionale; mentre per il nomos globale ciò che accade all’interno degli Stati assume «la più piena rilevanza», data la «massima permeabilità degli Stati stessi di fronte ad autorità internazionali o a forze esterne che intendano far valere gli unici criteri conferenti legittimità alla società globale, e cioè la libertà individuale e diritti umani». Quest’ultimo principio fa sì che possano svilupparsi sul piano dei rapporti tra Stati dottrine come quella dell’“ingerenza umanitaria”, permettendo che democrazia e diritti siano imposti da chi (Stati, ONU o altri attori) nel vuoto politico e giuridico, ha la forza di sostituire un governo globale che non esiste. Non si può non sottolineare come, così facendo, non si alimenti la democrazia, ma piuttosto la si conduce proprio contro i suoi principi, rendendola in primo luogo illiberale. [16]È quasi paradossale che, proprio mentre ci si avvicina sempre di più al tanto auspicato superamento del “dogma” della sovranità statale, questa faccia il suo ritorno sulla scena globale, addirittura presentandosi in forma rinforzata. Questo, secondo A. Baldassarre, op.cit., 143 ss., è dovuto all’idea che la globalizzazione, nonostante stia proseguendo il suo cammino nell’area giuridico-poltica, nasce pur sempre quale sistema economico “autoregolantesi”, che non conosce la politica istituzionalizzata, e non può per questo auto-controllarsi. Nel mercato cioè, come l’autore sottolinea ( 174 ss.) «emerge un problema di cittadinanza [..] perché (esso) ammette al suo interno, non già ogni individuo, ma soltanto le persone che hanno potere d’acquisto», il che a sua volta confligge con il principio di eguaglianza (e in particolare con la regola one man, one vote), quindi determina che “votino”, ossia pesino, «non solo le persone fisiche, ma anche le cosiddette persone giuridiche (cioè società, fondazioni ecc..) e tutti gli altri soggetti [...] che interferiscono con le attività economiche e finanziarie (banche centrali, autorità indipendenti ecc..)». Nel mercato, insomma, «ogni persona entra con un diverso peso legato, non solo alla differente posizione ricoperta nella scala sociale, ma anche alla specifica funzione e allo specifico ruolo svolto». Il mercato non può, in sostanza fondare la democrazia, essendo anzi piuttosto un pericolo per essa. [17] A parte il caso nordamericano, la cui cultura giuridica (difficilmente riproducibile altrove, date le particolari vicende storiche del Paese) contiene da sempre i tratti distintivi del tipo di diritto “globalizzato”: basti pensare ai principi del judge-made law, o del corporate law , al riuscito connubio tra drift e direction e a tutte le altre caratteristiche dinamiche “ di stampo mercantile” che vengono di volta in volta assorbite dal diritto, tanto da poterlo eleggere a sua “metafora” (cit. M. R. Ferrarese, op.cit., 30: Il diritto americano: metafora del diritto globalizzato?). Più preoccupanti sono invece le linee evolutive su cui Paesi dell’Est, del Sud-est asiatico e del Medio Oriente si sono assestati. In un continuum con il discorso già intrapreso, si può sostanzialmente dire che il problema di queste zone non stia tanto nel non riuscire a riprodurre le “ricette” democratiche dei Paesi occidentali, attraverso la liberalizzazione/modernizzazione dell’economia, l’assetto di una burocrazia, di un sistema giudiziario indipendente e persino di una Costituzione scritta, bensì nella mancanza di quegli elementi (prima di tutto culturali) volti a dare effettività alle regole formali: in riferimento a quelle che in un ordinamento che voglia dirsi democratico debbono porsi al di sopra di qualunque altra, si parla significativamente di “Costituzioni senza costituzionalismo”. L’assonanza con le tendenze globali(zzanti), portatrici di valori umanitari, ma sfornite di sistemi volti a garantirne la tutela, è evidente. [18] La “sfida” della globalizzazione è e rimane prima di tutto sociologica, in quanto solo a partire da una (ri)specificazione dell’ambiente socio-culturale (globale) in cui inserire funzioni, processi e strutture (global)-costituzionali potrà ottenersi una legittimazione piena di questi ultimi: le domande che a questo punto sopraggiungono ruoteranno intorno al come effettuare un tale tipo di transizione. Così G. Teubner, Costituzionalismo della società transnazionale, Relazione al XXVIII Convegno annuale dell’AIC, in Riv. AIC, 4/2013, 7 ss, ne tenta in forma interrogativa una possibile elencazione, suddividendole per ambiti d’indagine: «(1)Funzioni costituzionali. Producono i regimi transnazionali, analogamente alle costituzioni dello Stato-nazione, norme che esercitino funzioni più che meramente regolative o di risoluzione dei conflitti, dunque [..] le funzioni d’una costituzione?. […] (2) Ambiti costituzionali. Si possono identificare anche all’interno dei regimi diversi ambiti regolativi della costituzionalizzazione, la cui standardizzazione è essenziale per un costituzionalismo democratico in forme comparabili all’interazione dei processi politici organizzati e di formazione spontanea dell’opinione pubblica regolata nella parte organizzativa delle costituzioni statali?[…] (3) Processi costituzionali. Riescono le norme giuridiche prodotte all’interno dei regimi ad avere una connessione sufficientemente diretta col loro contesto sociale d’una “nomic-community” comparabile alla connessione delle norme costituzionali nazional-statali con la nomic-community della politica? [..] (4) Strutture costituzionali. Formano i regimi le tipiche strutture costituzionali proprie dei contesti dello Stato-nazione? E producono in particolare le note gerarchie normative e le loro garanzie istituzionali?». Dare risposta a questi interrogativi rappresenta per l’autore un vero e proprio compito “multidisciplinare” , a cui la stessa globalizzazione, vista sul serio in un’ottica più “globale” (nonché più costituzionale), richiama. [19] G. TeubneR Ibidem, .3, parla della Costituzione economica globale così come sviluppata dal “Washington Consensus” degli ultimi trent’ anni nei termini che seguono: «Non ha prodotto meramente delle regolazioni politiche, ma piuttosto la standardizzazione di principi costituzionali. Questi ultimi sono stati finalizzati a garantire illimitati margini di manovra per le imprese operanti a livello globale, ad abolire le partecipazioni pubbliche a combattere il protezionismo commerciale e a liberare gli attori economici dalle regolamentazioni politiche». Si evince da tale impostazione la scarsa “costituzionalità” dei principi suddetti, non rispondenti al compito di istituire quelle “limitazioni” tipiche di un tale tipo di sistema. Anzi, rileva lo stesso autore, «la produzione di regole limitative in sostituzione delle regolazioni nazionali non era all’ordine del giorno, […] è stata per anni ritenuta controproducente. Soltanto oggi, in seguito alla quasi-catastrofe delle ultime crisi economico-finanziarie, sembrano essersi messi in moto processi d’apprendimento collettivo che in futuro potrebbero portare a limitazioni costituzionali per l’economia a livello globale». [21] A. Spadaro, Su alcuni rischi, forse mortali…,.cit., 29, il quale conclude che «In breve: probabilmente non serve tanto più democrazia globale, quanto più “regole globali” ispirate a giustizia distributiva internazionale, conseguentemente minori “competenze statali” e più “autogestione democratica locale”». a cura di Massimo Spinelli Nel Brasile martoriato dalla pandemia di COVID-19 che sembra non voler rallentare, il Presidente della Repubblica Federale, Jair Bolsonaro, non ha intenzione di fare alcun passo indietro rispetto alla sua posizione negazionista, nemmeno quando il paziente finisce per essere lui stesso. Ad oggi, il Brasile è tra gli stati maggiormente colpiti a livello globale dal virus SARS-CoV2, contando ormai quasi 2 milioni di casi (dati dell’osservatorio per la diffusione del COVID-19 della Johns Hopkins University). Profonde disuguaglianze sociali, difficoltà economiche già risalenti al periodo pre-pandemia e forme di razzismo strutturale all’interno della società brasiliana, figurano tra le cause principali dell’esponenziale rapidità con la quale il virus si diffonde tra la popolazione. Oltre alle cause sistemiche del propagarsi della malattia però, certamente una gestione politica della pandemia quantomeno discutibile, da parte del presidente e del suo governo, non può passare sottotraccia. Le prime avvisaglie della direzione verso la quale il paese stesse andando, si erano registrate a fine marzo, quando dopo le consuete critiche ai media, colpevoli, secondo il presidente, di ingigantire ogni questione solo per attaccarlo, Bolsonaro si affrettava a bollare il Coronavirus come una “febrizinha”, ovvero una semplice influenza. Già a partire dalla prima settimana di aprile, nonostante lo sforzo comunicativo del presidente, i sondaggi (DataFolha) sul gradimento del suo approccio all’imminente pandemia evidenziavano un drastico malcontento nei suoi confronti. Lo stesso disappunto popolare veniva riflesso in uno smisurato supporto (oltre il 70% di gradimento) per la figura del Ministro della Salute in carica in quel periodo: Luiz Henrique Mandetta. Arrivati a metà aprile, i casi acclarati aumentavano a una velocità straordinaria, e proprio mentre la cifra scollinava le 30.000 unità, Bolsonaro decise di licenziare il suo Ministro della Sanità per divergenze di opinione. In particolare, il capo di stato brasiliano non accettava pareri contrastanti riguardo ai temi del distanziamento sociale, da lui considerato inutile, e sull’utilizzo dell’idrossiclorochina, farmaco antimalarico già sperimentato nell’ambito della terapia anti-Covid senza successo, come dimostrato da diversi studi. Aprile non è certo stato un mese facile per il presidente brasiliano, il quale, dopo il licenziamento di Mandetta, ha dovuto fare fronte anche alle inaspettate dimissioni del popolarissimo Ministro della Giustizia Sèrgio Moro, simbolo e uomo forte delle istituzioni nazionali. Moro aveva deciso di abbandonare la sua carica conseguentemente al licenziamento del capo della polizia federale, avvenuta, secondo l’ex magistrato, per ragioni puramente politiche. Nell’ambito dell’avvicendamento alla testa dei ministeri, Nelson Teich venne indicato come nuovo Ministro della Sanità. Sfortunatamente per Bolsonaro, l’oncologo originario di Porto Alegre non rimarrà in carica nemmeno un mese, in quanto anche lui opterà per le dimissioni, rassegnate al capo dello stato il 15 maggio. Le ragioni che portarono Teich a maturare la sua scelta, risultarono essere molto simili a quelle che già portarono al licenziamento di Mandetta. Da quel momento in avanti, la carica è stata ricoperta dal Generale Eduardo Pazuello, nominato ministro ad interim. In un contesto politico rovente dovuto alle continue richieste di impeachment presentate al congresso, l’isolamento politico prodotto dalle sue controverse manovre di potere autoritario, e le inimicizie con svariati giudici della corte suprema, Bolsonaro si era affacciato al mese di giugno con diverse questioni da affrontare in tempi stretti. Proprio nei primi giorni del mese, lo stesso Bolsonaro decise unilateralmente di oscurare i dati del report quotidiano del Ministero della Salute sui numeri dei casi positivi, e delle vittime della pandemia. I dati, per decisione della corte suprema brasiliana, sarebbero stati di nuovo resi visibili poco dopo, a partire dall’otto giugno. Giunti a questa fase della pandemia, i contagi risultavano essere circa 615.000, mentre le vittime superano quota 34.000. Mentre l’Organizzazione Mondiale del Commercio rivedeva ulteriormente al ribasso le stime di crescita del Brasile per il 2020, ormai arrivate a -7.7%, il presidente continuava a portare avanti la sua personale battaglia per la minimizzazione della minaccia portata dal virus. Questa volta, a cadere vittima della sua crociata, è stata l’Organizzazione Mondiale della Sanità, rea, secondo Bolsonaro, di essere semplicemente un’istituzione faziosa, burattino di alcune super potenze, che rilascia pareri senza elementi che ne possano provare la veridicità. In seguito al comunicato della stessa OMS che descriveva il Brasile come “paese fortemente a rischio” e “non pronto ad una riapertura, nemmeno parziale, delle attività produttive”, il presidente ha minacciato di ritirare il Brasile dall’organizzazione. Negli ultimi 20 giorni la situazione è peggiorata notevolmente, con nuovi record nei numeri delle persone contagiate e delle vittime, quest’ultime arrivate, il 24 giugno, addirittura a toccare quota 1364 in sole 24 ore. Queste si aggiungevano al computo totale dei morti, che si assestava attorno alle 53.000 persone, mentre il numero dei soggetti contagiati arrivava a 1.152.000. Arrivati a oggi, i numeri rimangono altamente preoccupanti e il Brasile, insieme a Perù e Cile, con i suoi quasi 2 milioni di casi accertati e oltre 73.000 vittime, resta uno dei maggiori epicentri della pandemia di COVID-19 a livello globale. Recentemente anche lo stesso Bolsonaro è stato trovato positivo al tampone, fatto che non sorprende in modo sostanziale chiunque abbia seguito l’operato del presidente a partire da marzo. Negazionista per eccellenza, si è sempre rifiutato di indossare mascherine, ha bollato come inutili le norme di distanziamento sociale, e non ha rinunciato a prendere parte a feste e celebrazioni. Noti esempi dei suoi comportamenti sono le numerose manifestazioni pubbliche alle quali ha partecipato, oppure il barbecue che lui stesso aveva organizzato, a bordo di una barca sul lago Paranoà, nei pressi di Brasilia, proprio mentre il conto dei morti a causa della pandemia raggiungeva 10.000. Visti i recenti sviluppi, i critici e i politici si dividono tra coloro che invocano il karma come spiegazione del contagio del presidente, e coloro che si limitano ad augurargli pronta guarigione. Tra questi ultimi, si annovera anche l’ex ministro della giustizia e figura di spicco della politica brasiliana Sèrgio Moro, dimissionario lo scorso maggio. In conclusione, è lecito affermare che il Brasile vive un momento di grande difficoltà sotto tutti i punti di vista. Con il presidente della repubblica federale malato di una “febbriciattola” che, alla data di oggi, ha lasciato dietro di sé quasi 73.000 cadaveri, il gigante sudamericano sembra ancora lontano dal picco dei contagi, e la strada per uscire da questa tempesta perfetta sembra ancora molto lunga. ![]()
a cura di Mario Ghioldi A causa di molteplici fattori, sia riguardanti la politica interna che estera, le elezioni parlamentari del 15 luglio nella Macedonia di Nord sono state di rilevante importanza per tutta la regione balcanica. Anzitutto il voto, al quale il paese si è interfacciato per la prima volta con il nuovo nome, rappresentava un banco di prova rilevante per il governo uscente del socialdemocratico Zaev e per la sua politica euro-atlantica. In secondo luogo altri elementi non secondari, come le forti influenze delle minoranze albanesi nello scenario politico, la gestione della campagna elettorale durante la pandemia e lo svolgimento della tornata elettorale in un giorno feriale (per la prima volta nella recente storia del paese balcanico), hanno reso ulteriormente complesso ed imprevedibile l’esito delle elezioni. Secondo i primi dati, i socialdemocratici (SDSM) dell’ex primo ministro Zaev hanno ottenuto una vittoria di stretta misura sui conservatori nazionalisti del Partito Democratico per l’Unità Nazionale Macedone (VMRO), la principale formazione di opposizione. In questo contesto, le tematiche riguardanti l’adesione macedone all’asse euro-atlantica e quelle riguardanti l’inclusione politica delle minoranze albanesi hanno ricoperto un ruolo fondamentale. Riguardo al primo punto, l’avvicinamento graduale di Skopje all’Unione Europea ed alla NATO ha influenzato fortemente la vita politica del paese, Lo stesso cambio ufficiale del nome da Macedonia a Macedonia del Nord dello scorso 11 febbraio rientra nell’ottica di avvicinamento alle istituzioni europee ed atlantiche. Di fatti, attraverso tale cambiamento, il governo macedone ha messo fine ad una disputa ventennale con la Grecia, la quale esercita il potere di veto per l’annessione di nuovi membri all’interno delle menzionate organizzazioni. La mossa del governo macedone (fortemente criticata dai nazionalisti dell’opposizione) ha portato ad un decisivo avvicinamento soprattutto nei confronti della NATO, la quale il 6 febbraio dell'anno scorso ha visto i rappresentanti permanenti dei 29 Stati membri dell’organizzazione atlantica firmare il protocollo di accesso con Skopje: processo dia desione conclusosi quest'anno a marzo, con la Macedonia del Nord divenuta il 30esimo membro dell'Alleanza Atlantica. Differentemente, con l’Unione Europea i negoziati sono ancora in corso. Proprio le negoziazioni con Bruxelles testimoniano l’importanza della politica estera nel panorama politico del paese. Le elezioni anticipate erano state provocate proprio dalle dimissioni di Zaev l’autunno scorso in seguito alla mancata decisione del Consiglio europeo di aprire i negoziati per l’adesione all’UE. Tale situazione ha fatto sì che la repubblica sia stata guidata negli ultimi mesi da un governo tecnico di coalizione presieduto dall’ex ministro dell'Interno Oliver Spasovski. Come precedentemente affermato, l’altra tematica chiave all’interno delle elezioni macedoni ha riguardato il ruolo delle minoranze albanesi e dei loro movimenti politici, divenuti ancor più rilevanti di fronte alle debolezze dei socialdemocratici del SDSM e dell’opposizione nazionale-conservatrice della VMRO. Se infatti i primi sono stati ridimensionati negli ultimi due anni da vari scandali nel settore della giustizia, i secondi, orfani del loro leader Gruevski (ex premier macedone in esilio a Budapest), hanno avuto lo svantaggio di non presentare un candidato forte. Di fronte a ciò, le alleanze pre e post elettorali con i partiti albanesi risultano fondamentali. In questo contesto, i socialdemocratici hanno creato per la prima volta una coalizione con il partito albanese Besa, formando un accordo di rilevanza storica. Tale alleanza non ha compreso l’altra importante formazione albanese di Ali Ahmeti, l’Unione democratica per l’integrazione (DUI), già partner di minoranza nello scorso governo Zaev. Dal punto di vista numerico la coalizione a guida socialdemocratica ha ottenuto il 36% dei voti, staccando di poco più di un punto percentuale la coalizione nazional conservatrice fermatasi al 34,5%. Entrambi le parti hanno avuto una leggera flessione rispetto alle tornate elettorali precedenti: se SDSM e Besa hanno ottenuto 46 seggi (8 in meno rispetto al passato), la VMRO avrà 44 seggi (meno 7 rispetto alla legislatura precedente). Considerando tale scenario, le due principali forze sono molto lontane dalla maggioranza assoluta parlamentare rappresentata da quota 61 seggi sui 120 disponibili. Al calo del SDSM e VMRO fa da contro altare l’exploit della storica formazione albanese DUI, la quale ha ottenuto 5 seggi in più rispetto al passato, per un totale di 15 membri parlamentari. Tenendo in considerazione i risultati elettorali, la formazione del nuovo governo dovrà implicare un nuovo accordo tra la coalizione socialdemocratica ed il movimento albanese del DUI. Nonostante nella scorsa legislatura il premier Zaev abbia trovato una convergenza con il gruppo politico albanese, le negoziazioni attuali risultano più complicate. Di fatti, il leader del DUI Ali Ahmeti, ha più volte dichiarato nelle scorse settimane come una coalizione si possa formare solamente a condizione che il nuovo premier sia un albanese. Inoltre, considerando i nuovi rapporti di forza all’interno del parlamento, la coalizione socialdemocratica dovrà anche cercare l’intesa con un altro partito di minoranza albanese, Alleanza-Alternativa (AA) di Ziadin Sela, che ha raccolto l’8,5% dei voti e 12 seggi. In questo scenario politico poco stabile, nel quale la coalizione maggioritaria dovrà concedere notevoli aperture alle minoranze albanese al fine di creare un solido governo, un segnale importante è stato inviato da Bruxelles. Come dichiarato dalla Commissione Europea il 16 luglio, il giorno dopo le elezioni, l’Unione Europea ha messo a disposizione 80 milioni di euro per assistere economicamente Skopje. Tale supporto, che rientra nel quadro di aiuti europei alle regioni geograficamente “vicine” colpite dalla pandemia, è un chiaro indizio della volontà di Bruxelles di continuare le negoziazioni con la Macedonia del Nord. Perciò il futuro governo macedone (probabilmente di stampo socialdemocratico), dovrà essere capace di guidare il paese nel periodo decisivo verso l'integrazione nella NATO e l’avvicinamento all’UE, tenendo conto del precario equilibrio presente all’interno propria coalizione, nella quale dovrà soprattutto confrontarsi con i movimenti della minoranza albanese e le loro peculiari esigenze. ![]()
A cura di Camilla Bellini Il 20 Giugno 2020 l’Inghilterra viene scossa da un nuovo attacco terroristico nella cittadina di Reading a 60km a Est di Londra. “L’attentatore – il 25enne richiedente asilo libico Khairi Saadallah – era già noto alle autorità”. Un mantra, quest’ultimo, ripetuto nelle 12-24 ore successive a molti attacchi terroristici messi a punto su suolo europeo negli ultimi anni. Se è vero il detto popolare “meglio prevenire che curare”, ci si chiede perché anche questa volta l’attentato non sia stato sventato agendo in via prodromica alla sua commissione. Di elementi rilevanti per non distogliere l’attenzione da Saadallah ve ne erano a sufficienza. Il MI5 (l’ente britannico per la sicurezza e il controspionaggio) lo aveva incluso tra gli aggressori ad alto rischio che avrebbero potuto recarsi all’estero per motivi di estremismo violento, ma l’inchiesta era stata archiviata per mancanza di prove che ne accertassero una minaccia reale o un rischio immediato. Così, è stato scarcerato nel 2019 senza vincoli di sorveglianza, dopo aver scontato una condanna per reati minori di natura violenta ed essere stato dichiarato affetto da Post Traumatic Stress Disorder (patologia tipica di chi proviene da teatri di guerra) e da schizofrenia paranoide (come si evince dalle cicatrici autolesioniste presenti sulle braccia). Un soggetto con personalità borderline, arrivato anche a ostentare la propria conversione al cristianesimo tatuandosi una croce come forma di dissimulazione (taqqiyya) per guadagnarsi la fiducia delle autorità e dei concittadini, fugando il sospetto di legami con la galassia jihadista. L’attentato di Reading riporta alla mente il caso di Usman Khan condannato nel 2012 per aver progettato di attaccare il London Stock Exchange, il Big Ben, l’abbazia di Westminster e l’ambasciata USA a Londra, colpendo anche bersagli umani tra cui l’allora sindaco Boris Johnson. Khan si era recato nei primi anni del 2000 nelle aree tribali del Kashmir in Pakistan per allestire un campo di addestramento dove reclutare nuove leve con cui rientrare in Gran Bretagna e colpire gli obiettivi suddetti. Era stata quindi emessa una condanna di pericolosità sociale dovuta alla progettualità a lungo termine del suo disegno terroristico poi attuato il 29 Novembre 2019 quando, in libertà condizionale dopo aver scontato sei anni per reati di terrorismo, ha accoltellato due persone e ne ha ferite altre durante un evento a Fishmongers’ Hall prima di essere neutralizzato dagli agenti di polizia sul London Bridge. Entrambi gli attentati fanno riflettere sulla rapida evoluzione della minaccia terroristica, connotata da imprevedibilità e dinamicità che ne permettono il costante adattamento camaleontico al mutare delle circostanze, a cui però non è corrisposto un altrettanto celere adeguamento dei sistemi legislativi e investigativi occidentali. Il caso di Saadallah ha fatto luce sulle scarse risorse economico-finanziarie a disposizione dei servizi di intelligence britannici che, in mancanza di prove di colpevolezza o pericolosità, non possono solo inserire i sospetti terroristi in una watch list di monitoraggio periodico. Delle 27-30.000 persone inserite nel sistema di sicurezza antiterrorismo inglese, 3000 sono attivamente monitorate in quanto considerate ad alto rischio di commissione di reati terroristici, con il Joint Terrorism Analysis Centre in prima linea per coordinare, analizzare e inoltrare informazioni sensibili al MI5 e/o alla polizia. Un’attività di controllo, quest’ultima, inficiata dalle insufficienti risorse a disposizione per il monitoraggio costante e non una tantum dei sospettati, in quanto i budget limitati devono essere destinati a casi di terroristi di cui è stato accertato, oltre ogni ragionevole dubbio, il collegamento con gruppi estremisti. A ciò si aggiunge il problema delle carceri “incubatrici di radicalizzazione”, in cui leader carismatici possono influenzare psiche fragili e dove, chi ha già intrapreso un percorso di radicalizzazione pre-detenzione, può trovare humus fertile per portarlo a termine. Si è quindi avanzata l’ipotesi di separare questi individui nell’ambiente carcerario per ridurne i contatti, ma ancora una volta le risorse esigue a disposizione delle strutture penitenziarie non permettono una procedura così onerosa. Un ulteriore elemento di criticità emerge poi nelle fasi post-rilascio, mancando figure incaricate di accertare che gli ex detenuti non si siano radicalizzati e di seguirli nel percorso di reinserimento sociale con il rischio che, lasciati soli in balia dalle proprie difficili condizioni socio-economiche, tornino a delinquere. A questi aspetti fanno da sfondo i dati dello ‘European Union Terrorism Situation and Trend report 2020’ secondo cui nel 2019 sono stati portati a compimento, sono falliti o sono stati sventati in Europa 119 attacchi, di cui 21 di matrice Jihadista. 1004 sospettati terroristi sono stati arrestati in 19 Paesi UE. Tra questi, in base al Global Terrorism Index 2019 dell’Institute for Economics and Peace, il Regno Unito si classifica al 28esimo posto nel mondo per impatto del terrorismo (con un indice di minaccia pari al 5.405, superiore a quello di Sri Lanka, Iran, Russia e Israele) e primo in Europa, di cui però ormai non è più parte. Boris Johnson all’indomani dell’attacco del 20 Giugno si è detto pronto a inasprire il Counter-Terrorism and Sentencing Bill approvato il 20 maggio scorso alla luce dell’attentato di London Bridge. La legge ha revisionato le Terrorism Prevention and Investigation Measures, permettendo alle corti inglesi di limitare la circolazione di un sospetto terrorista sottoponendolo a coprifuoco, ad arresti domiciliari e a localizzazione elettronica degli spostamenti per un periodo indeterminato, soggetto a revisione, senza più vincolo temporale di due anni. Molti attivisti per la tutela dei diritti umani hanno però additato la novella legislativa come lesiva per la presunzione di innocenza, data la sottoposizione di sospetti rei non ancora condannati a dure restrizioni pur in assenza di prove. L’attuale livello di minaccia in Gran Bretagna resta “sostanziale” e, sebbene l’articolo 2 della CEDU riconosca la sacralità del diritto alla vita da proteggere anche in tempi di ordinario terrorismo, gli attacchi che continuano a colpire l’isola britannica sono chiara dimostrazione del fatto che una normativa antiterrorismo da sola non basti. Essa dovrebbe essere corredata, previa elargizione di adeguate risorse, da programmi ad hoc di deradicalizzazione e di reinserimento sociale, nonché da un lavoro concertato delle agenzie di sicurezza volto a determinare il grado di effettiva pericolosità di potenziali terroristi così da scongiurare l’ennesima prevedibile tragedia. Bibliografia:
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A cura di Giulia Vicari, tratto dal CSI Review n.1
1. Il diritto ad avere diritti Gli ultimi anni si sono caratterizzati per una forte attenzione mediatica nei confronti dei migranti. Il tema dell’immigrazione viene spesso strumentalizzato dalla politica che ne ha sempre ampliato la portata. Secondo il Dossier Statistico dell’Immigrazione, nel 2018 sono giunti in Italia 23.370 migranti, l'80% in meno rispetto al 2017. Tuttavia, nonostante la continua ossessione nei confronti degli immigrati, con l’improvviso irrompere del COVID-19, il quadro migratorio nazionale ed internazionale sembra aver perso centralità. La pandemia ha assunto nel dibattito globale un ruolo primario, diventando di indubbia e fondamentale importanza. I migranti però, esistono ancora e le pressioni alle frontiere esterne dell’Unione non sono mai scomparse. È in questo difficile contesto, che stanno emergono tutte le fragilità del sistema comune d’asilo e del sistema integrato di gestione delle frontiere. Le richieste di aiuto di alcuni Stati membri non hanno trovato risposta e i primi Paesi di arrivo in Europa (Spagna, Italia e Grecia) sono stati isolati. Inoltre, diversi Stati membri, col pretesto di dover gestire l’emergenza coronavirus, hanno adottato politiche migratorie restrittive con l’intento di scoraggiare le partenze. Ma gli arrivi sono realmente diminuiti? Prima di affrontare un’analisi delle migrazioni in questo tragico periodo, è opportuno procedere ad alcune doverose precisazioni. La dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 riconosce e garantisce diritti umani universali, propri di ogni individuo. L’essere cittadino di uno Stato piuttosto che di un altro rivela però, discriminanti non indifferenti. In tema di immigrazione, la disposizione di cui al terzo comma dell’art. 10 Cost. dispone che «lo straniero al quale sia impedito l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge». Mentre la Convezione di Ginevra del 1951 sullo status dei rifugiati non impone l’obbligo di ammettere nel proprio territorio i richiedenti asilo, l’art. 10 è stato redatto con l’intento di proteggere chiunque non goda nel proprio Paese delle libertà garantite dalla nostra Costituzione. L’art. 10 comma 3 costituisce - secondo dottrina e giurisprudenza - un diritto soggettivo perfetto all’ingresso e al soggiorno nel territorio italiano, almeno al fine della presentazione della domanda di asilo. Tale diritto è riconosciuto allo straniero e all’apolide, ai quali sia effettivamente impedito nel loro Paese l’esercizio anche di una sola delle libertà garantite dalla Costituzione italiana, e immediatamente azionabile anche in mancanza delle leggi ordinarie che fissino alcune condizioni per il suo esercizio (Cass. civ. Sez. Un. 12 dicembre 1996, n. 4674/97). Sulle norme che regolano il sistema giuridico comunitario, è opportuno specificare che, in Italia - essendo uno Stato membro dell’UE - le fonti del diritto comunitario devono considerarsi applicabili in tutto il territorio e, addirittura, prevalenti sulle fonti di diritto interno. Di conseguenza, qualora una norma italiana contrasti con una norma comunitaria che disciplina la stessa materia, un’eventuale controversia dovrebbe essere decisa disapplicando la norma italiana e applicando quella comunitaria. Il rapporto tra l’ordinamento italiano, quello dell’Unione e quello Internazionale, trova riscontro nella nostra Costituzione all’art. 117, comma 1, introdotto dalla L.cost. 3/2001, secondo cui “la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.” Tale disposizione chiarisce il rispetto degli obblighi internazionali ed europei, da parte di Stato e Regioni. Qualora quindi una norma violi il diritto dell’UE o il diritto internazionale, questa costituirebbe una violazione dell’art. 117, comma 1, Cost. Ed ancora, l’adattamento al diritto internazionale consuetudinario è disposto dall’art. 10, comma 1, Cost., secondo cui “l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute”. Tale disposizione opera un rinvio formale all’ordinamento internazionale con la conseguenza che, ogni variazione normativa che si produce nell’ordinamento internazionale, si produce anche nell’ordinamento interno. Cosa significa “norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”? Si fa riferimento alla consuetudine e cioè, secondo l’art. 38 lett. b dello Statuto della Corte Internazionale di Giustizia, ad una “pratica generalmente accettata quale diritto”. La consuetudine è l’unica fonte del diritto internazionale generale valida erga omnes, cioè nei confronti di tutti gli Stati, indipendentemente dall'aver partecipato alla sua formazione. Per consuetudine deve intendersi un comportamento costante, uniforme e ripetuto nel tempo, gli Stati devono essere convinti dell’obbligatorietà della norma e della sua inderogabilità. Una norma del diritto internazionale consuetudinario è applicabile quindi a tutti gli Stati, a prescindere dal fatto di aver sottoscritto un Trattato. L’obiettivo è far si che il diritto interno si adegui automaticamente all’ordinamento internazionale. Ne consegue che, se un atto legislativo risulti incompatibile con il diritto internazionale consuetudinario, l’atto deve considerarsi viziato da illegittimità costituzionale per violazione dell’art. 10, comma 1, Cost. Occorre tuttavia chiedersi: l’adattamento al diritto internazionale è sempre operante? Secondo la Corte Costituzione, nella sentenza n. 48/1979, cd. Caso Russel, aveva distinto tra norme consuetudinarie anteriori e posteriori all’entrata in vigore della Costituzione: le prime sarebbero recepite nel nostro ordinamento senza alcun limite, le seconde invece, non potrebbero essere recepite qualora contrastino con i principi fondamentali della Costituzione. Ed invero, secondo la Corte Costituzionale, l’art. 10 “non può in alcun modo consentire la violazione dei principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale.” In altre parole, una norma consuetudinaria in contrasto con i principi fondamentali dell’uomo garantiti dalla nostra Costituzione, non dovrebbe essere recepita dal nostro ordinamento. Ne consegue che, grazie all’art. 10 Cost., vi è equilibrio tra ordinamento interno ed internazionale. I trattati internazionali invece, nascono dall’incontro della volontà di due o più soggetti dell’ordinamento internazionale. L’inviolabilità e l’osservanza delle norme pattizie è garantita dalla norma consuetudinaria pacta sunt servanda. Le norme pattizie, a differenza di quelle generali di origine consuetudinaria, non sono valide erga omnes, ma solo per i soggetti che partecipano alla loro formazione. In tema di immigrazione, l’Italia e la maggior parte dei Stati europei, hanno ratificato diversi trattati internazionali a tutela dei diritti dei migranti, solo per citarne alcuni: la Convezione di Montego Bey sul diritto del mare; la Convenzione di Amburgo sulla ricerca e il salvataggio marittimo; la Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare; la Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati. Tali trattati sono vigenti nell’ordinamento italiano ed europeo e pertanto, gli obblighi in essi contenuti sono vincolanti per tutti gli Stati firmatari. 2. Le migrazioni ai tempi del Covid-19: la situazione in Europa Nel contesto attuale il COVID-19 rappresenta a tutti gli effetti una grande sfida per i diritti umani. Sono soprattutto le classi sociali più vulnerabili, quali migranti e precari, a dover fare i conti con questa nuova realtà. Negli Stati in cui ancor prima della pandemia venivano sistematicamente violati i diritti umani fondamentali, il COVID-19 viene adesso strumentalizzato per rafforzare ancor di più tale repressione. L’Unione Europea si basa sul principio di solidarietà tra gli Stati membri (art. 80 TFUE), nonché su una politica comune in materia di asilo, immigrazione e controllo alle frontiere esterne (art. 67 TFUE). Vengono disciplinati i visti e i titoli di soggiorno, i controlli a cui sono sottoposti i soggetti che attraversano le frontiere esterne, le condizioni alle quali i cittadini dei Paesi terzi possono circolare liberamente nell’Unione per un breve periodo, l’istituzione di un sistema integrato di gestione delle frontiere esterne ecc. (art. 77 TFUE). L’UE può concludere con Paesi terzi, anche accordi di riammissione - nei Paesi di origine o di provenienza - di cittadini extracomunitari che non soddisfano le condizioni per l’ingresso, la presenza o il soggiorno nel territorio di uno degli Stati membri. Tuttavia, sebbene lo spazio comune europeo si basi sulla solidarietà ed equa ripartizione di responsabilità tra gli Stati membri, oggi più che mai sembra essere emersa un’Europa che non è più patria dei diritti umani e che rifiuta il suo ruolo. Chi arriva in Italia, Malta, Grecia, Spagna arriva in Europa, e deve essere l’Europa intera a condividere il peso dell’immigrazione, con una distribuzione equa dei migranti, garantendo libertà e diritti fondamentali. Occorre specificare, che la disciplina per l’esame delle domande dirette ad ottenere la protezione internazionale, sono dettate dall’Unione e sono attualmente contenute nel cosiddetto sistema Dublino, il Regolamento 604/13. Quest’ultimo prevede il “primo ingresso” come criterio per determinare lo Stato competente ad esaminate la domanda di protezione internazionale: il Paese che deve prendere in carico la richiesta di protezione internazionale, deve essere il primo in cui il migrante è arrivato. Il rifugiato può presentare domanda di protezione soltanto in un Paese dell’UE. La ratio è far sì che gli Stati rafforzino il proprio ruolo nel controllo delle frontiere, effettuando verifiche sull’immigrazione irregolare nello spazio europeo. Tale sistema però, si è rivelato fortemente inadeguato. A causa “della regola del primo ingresso”, maggiori obblighi e responsabilità gravano su pochi Paesi europei (Italia, Spagna,Grecia). Orbene, sulla base del principio di solidarietà di cui gode l’Europa, nel 2015, il Consiglio dell’Unione Europea aveva proposto di “aiutare” l’Italia e la Grecia attraverso la ricollocazione in Europa, in due anni, di 120.000 persone in evidente bisogno di protezione internazionale. Tale decisione però, è stata impugnata dalla Slovacchia, dall’Ungheria, con successivo sostegno della Polonia, davanti la Corte di Giustizia. La Corte ha respinto i ricorsi, ma nonostante il rigetto, i Paesi del blocco di Visegrád (Ungheria, Polonia, Slovacchia e Repubblica Ceca) non hanno accettato la redistribuzione dei richiedenti asilo. Ad oggi quindi, la ricollocazione avviene solo su base volontaria e solamente col consenso di uno Stato membro di accogliere una parte di migranti entrata irregolarmente sul territorio di un altro Stato membro. Di fronte a tale palese carenza di solidarietà tra gli Stati europei, si sono sviluppate - anche in questo periodo - politiche dirette a reprimere i flussi migratori, in nome dell’emergenza sanitaria. Gravissima la situazione in Grecia dove, dopo l’apertura delle frontiere da parte del Presidente turco Erdoğan, migliaia di profughi afgani e siriani, hanno attraversato il confine greco-turco. Il campo profughi di Moria, nell’isola greca di Lesbo, è arrivato a contenere più di 20mila persone, progettato per accoglierne 3mila. Le autorità greche hanno fermato i profughi in arrivo con gas lacrimogeni, idranti e manganelli, diverse sono le testimonianze e i video sul web, di profughi respinti con violenza da parte della guarda costiera greca. Inoltre in questa tragica emergenza, il governo greco ha sospeso - per tutto il mese di marzo, la registrazione delle domande di asilo. In Ungheria invece, col pretesto dell’emergenza coronavirus, il Parlamento ungherese ha concesso una serie di prerogative al primo ministro Orbán, autorizzando l’Esecutivo a governare senza alcuna supervisione. Il primo marzo 2020, Orbán ha sospeso l’ammissione di migranti illegali a tempo indeterminato. Interessante, in questo difficile contesto, è stata una recente sentenza della Corte di Giustizia UE in riferimento al caso di quattro cittadini afghani e iraniani giunti in Ungheria attraverso la Serbia, che si sono visti respingere la loro richiesta di protezione internazionale. I quattro cittadini, non ottenendo protezione in Ungheria, chiedevano un ritorno in Serbia, ma anche quest’ultima si rifiutava di accogliere i migranti. I richiedenti asilo quindi, venivano trattenuti presso il confine serbo-ungherese. La Corte di Giustizia europea ha pertanto dichiarato che «la collocazione di richiedenti asilo o cittadini di paesi terzi per cui è stato disposto il rimpatrio nella zona di transito di Röszke al confine serbo-ungherese, deve essere classificata come “detenzione”». In particolare, secondo quanto stabilito dalle leggi europee, i cittadini di Paesi terzi non possono essere trattenuti senza un valido motivo e vanno liberati. In Italia, sono stata adottate diverse misure per limitare il diffondersi del contagio: oltre alla quarantena obbligatoria per chi arriva in Italia, la validità di tutti i permessi di soggiorno e dei documenti di riconoscimento è stata prorogata fino al 31 agosto 2020. Inoltre, con un decreto dei ministeri Infrastrutture e Affari Esteri, di concerto con i dicasteri Sanità e Interno, è stato stabilito che i porti italiani non hanno più il requisito di place of safety (“luogo sicuro”) rifacendosi a quanto previsto dalla Convenzione di Amburgo, per i casi di soccorso effettuati da unità navali battenti bandiera straniera al di fuori dell'area SAR italiana. In altre parole, i porti italiani rimangono chiusi per le navi straniere che hanno soccorso i migranti vicino le coste libiche o maltesi, mentre rimangono aperti per le navi italiane che soccorrono i migranti in acque italiane. Il decreto, composto da due articoli, stabilisce che per l'intero periodo di durata dell'emergenza sanitaria nazionale derivante dalla diffusione del virus, (la cui scadenza ad oggi è fissata per il 31 luglio) i porti italiani non assicurano i requisiti necessari per la classificazione e definizione di Place of Safety. In assenza di tale condizione il Ministero dell'Interno non può consentire gli sbarchi. Inoltre, sono stati sospesi, i salvataggi in mare tramite le navi umanitarie delle ONG. Gli sbarchi sono quindi diminuiti? Secondo il cruscotto statistico del Dipartimento Libertà Civili e Immigrazione del Ministero dell’Interno, i migranti giunti via mare dal 1° gennaio 2020 al 15 maggio 2020 sono 4.337, contro i 1.129 del 2019 nello stesso periodo. Tali importanti stime smentiscono il cd. teorema del “pull factor”, secondo cui le ONG in mare, sarebbero “fattori di spinta” per le partenze dei migranti. In particolare, secondo la tesi del pull factor, la presenza di navi nel Mediterraneo costituirebbero una “garanzia” per i migranti circa la possibilità di essere soccorsi durante le traversate, e dunque maggiormente indotti a partire. Tutto ciò premesso, il decreto interministeriale sulla chiusura dei porti italiani può considerarsi legittimo? Come già specificato, le Convenzioni internazionali e i Regolamenti europei, costituiscono un limite alla potestà legislativa di uno Stato. Di conseguenza se uno Stato ratifica un trattato internazionale, questo non può essere derogato da scelte discrezionali dell’autorità politica. Più nello specifico, intorno allo stato di emergenza sanitaria cui ci troviamo, il diritto alla salute di cui all’art. 32 Cost., deve essere garantito ad ogni individuo, anche al naufrago, che deve avere diritto ad un porto sicuro. L’obbligo di salvare vite umane in mare rappresenta un principio cardine del diritto internazionale. L’art. 98, par. 1, UNCLOS impone ad ogni Stato di esigere che i comandanti delle navi che battono la loro bandiera osservino una pluralità di prescrizioni, tra cui - ad esempio - prestare assistenza a chiunque si trovi in pericolo in mare o di recarsi il più velocemente possibile in soccorso delle persone che gli siano state segnalate in stato di difficoltà. Il dovere di salvare vite umane in mare è oggi espressione non solo del diritto internazionale pattizio, ma anche norma del diritto internazionale consuetudinario che, come già specificato, si applica a tutti gli Stati, indipendentemente dal fatto che abbiano sottoscritto un Trattato. Anche l’UNHCR con un comunicato del 13 maggio, ha invitato tutti gli Stati a sospendere i rimpatri forzati al fine di proteggere la salute dei migranti. Nel testo si fa riferimento al cd. principio di non-refoulement:“keeping everyone safe means ensuring that no-one faces the risk of refoulement by being returned to places where their life, safety or human rights are threatened. It means that collective expulsions, such as arbitrary pushbacks of migrants and asylum-seekers at borders, must be halted; that protection needs must be individually assessed; and that the rule of law and due process must be observed. It also means prioritizing protection, including every child’s best interests. These are obligations in international law that can never be put on hold and are vital to any successful approach to combatting COVID-19 for the benefit of all. Forced returns can intensify serious public health risks for everyone – migrants, public officials, health workers, social workers and both host and origin communities.” Il principio di non-refoulement è disposto dall’art. 33 della Convezione di Ginevra e stabilisce che “nessuno Stato contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche”. In altre parole, nessun migrante può essere riportato in territori in cui la la propria vita o incolumità possano essere minacciate. Dovremmo a questo punto chiederci: in questa tragica pandemia dove l’Italia è stata uno dei Paesi più colpiti da coronavirus, avrebbe dovuto occuparsi di nuovo, da sola, dei migranti? Sicuramente l’attuale pandemia ha rappresentato e rappresenta un fattore di rischio per la salute dei migranti che arrivano in Europa. Non solo, mantenere il distanziamento sociale o le giuste condizioni igieniche in ambienti sovraffollati dove spesso vengono ospitati i migranti, potrebbe condurre ad esiti negativi, ripercuotendosi sulla salute di tutti. È necessario dunque, che tutti gli Stati membri dell’UE, aderiscano ai principi fondamentali dell’Unione ed assumendo doveri ed obblighi sanciti dai principali trattati. 3. Prospettive future Come gestire dunque le migrazioni? La chiusura dei porti è davvero la soluzione al fenomeno? In questi anni l’Europa e gli Stati europei hanno finanziato i paesi dell'Africa settentrionale, come la Libia, o i paesi al confine orientale, come la Turchia per ostacolare l’arrivo dei migranti irregolari. Tuttavia, cercare di impedire il fenomeno arricchisce solamente i trafficanti e i Paesi di transito, i quali utilizzeranno i flussi migratori come merce di scambio per estrarre finanziamenti all’UE. Quest’ultima, ha siglato negli ultimi anni diversi accordi con i Paesi dell’Africa e del Medio Oriente. Solo per citarne alcuni, il 18 marzo 2016 l’UE ha firmato con la Turchia un accordo per la gestione dei rifugiati che tentano di raggiungere l’Europa, l’obiettivo è tenere chiusi i confini con la Grecia evitando che i rifugiati della rotta balcanica possano raggiungere l’Europa. La Turchia ottiene in cambio periodici ed ingenti finanziamenti. Il Presidente Erdoğan sa, però, di poter ricattare l’Europa in qualunque momento, aprendo i propri confini. Ed è esattamente ciò che è successo in questi mesi: il Presidente turco ha aperto i confini con la Grecia a seguito del mancato sostegno dell’Ue e della Nato nelle operazioni militari turche ad Idlib, l’unica parte della Siria ancora sotto il controllo dei ribelli, generando dinamiche disastrose in Grecia e al confine greco-turco. L’Italia invece, il 2 febbraio 2020 ha prorogato l’accordo con la Libia, siglato nel 2017 dall’ex Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e dal Primo Ministro del governo di riconciliazione nazionale libico Fayez al-Serraj. L’accorso prevede il blocco delle partenze dalle coste libiche da parte della Guardia costiera libica, in cambio l’Italia finanzia le infrastrutture dell’immigrazione irregolare, forma e addestra il personale libico, fornisce assistenza tecnica alla guardia costiera e alla guardia di frontiera libica. Inoltre, ai sensi degli artt. 1 e 2 del memorandum, la Libia otterrebbe ulteriori finanziamenti per rafforzare la cooperazione allo sviluppo nel proprio territorio. Tuttavia, sebbene le partenze si siano in parte ridotte, la guardia costiera libica è stata più volte accusata di essere complice dei trafficanti libici e dei gestori dei centri di detenzione: secondo alcune testimonianze, gli immigrati - dopo essere “scortati” dai trafficanti per un pezzo di traversata - vengono (casualmente?) intercettanti dalla Guardia costiera libica, la quale riporta i migranti nei centri di detenzione e dove si consumano violenze, torture, stupri, lavori forzati. Il fine è quello di ottenere dai familiari dei prigionieri ulteriori somme per tentare nuove traversate. Finanziare con i soldi pubblici le operazioni di salvataggio della Guardia costiera libica, non fa altro che alimentare il business del traffico di esseri umani. Tali forti contraddizioni, durante la pandemia da COVID-19, sono emerse in tutta la loro tragicità. È evidente che la scarsa solidarietà di gestione del fenomeno, nonché il criterio del Paese di “primo ingresso”, ha generato un evidente corto circuito nel sistema comune di asilo europeo. L’esistenza di barriere alla mobilità internazionale impedisce ai migranti di spostarsi regolarmente e l’Europa dovrebbe trovare il prima possibile una solida soluzione per trasformare i flussi irregolari in flussi regolari e sicuri. Fondamentale sarà, pertanto, adottare un approccio equo, analizzando il fenomeno nel rispetto del diritto internazionale e mettendo da parte facili stereotipi o luoghi comuni sull’immigrazione. L’utilizzo sempre più frequente dei canali umanitari potrebbe consentire un sicuro ingresso dei migranti nell’Unione Europea. Un preciso sistema di cooperazione, potrebbe considerarsi efficace se si finanziassero i Paesi d’origine per consentire un ordinato e legale ingresso dei migranti, sulla base di specifici requisiti che possano fungere da titolo preferenziale per l’ingresso in Europa. L’art. 23 del Testo Unico Immigrazione ad esempio, consente di attivare programmi di lingua italiana nei Paesi di provenienza. Tale piccolo ma indispensabile requisito, potrebbe costituire un titolo di prelazione ai fini dell’ingresso in Italia. Necessari quindi i dialoghi strategici, non solo in Europa ma anche in Africa, o l’Italia e i Paesi di primo ingresso, si ritroveranno vittime dei trafficanti e delle milizie che gestiranno i flussi migratori secondo i loro interessi. Inoltre, con il cambiamento climatico e l’aumento delle temperature, il fenomeno dell’immigrazione non sembra destinato ad arrestarsi. La crisi climatica e il collasso degli ecosistemi spingerà gli immigrati alla ricerca di condizioni meteorologiche più favorevoli nel nord del pianeta. Occorre dunque chiedersi: le risposte basate sulla sovranità statale sono sufficienti a fronteggiare il fenomeno? O è indispensabile una politica europea nonostante la mancanza di solidarietà degli Stati? Un cambiamento concreto non è più soltanto auspicabile ma necessario. La linea franco-tedesca sulle linee di credito contro la pandemia covid-19: il Recovery Fund21/6/2020
a cura di Francesco Rojch Dal giorno in cui il Mattia, il 38 enne di Codogno, è stato accertato come primo caso in Italia legato al Coronavirus, l’opinione pubblica è stata cannibalizzata dall’emergenza sanitaria. Un evento straordinario che ha inizialmente suscitato perplessità anche da parte degli addetti ai lavori. In pochi scommettevano che il virus partito da Wuhan avesse investito il nostro paese, soprattutto in maniere così devastante. Sotto l’aspetto delle strutture sanitarie, anche le regioni maggiormente all’avanguardia come la Lombardia, l’Emilia Romagna e il Veneto sono state messe a dura prova dal virus. Le autorità nazionali sono state costrette a prendere misure draconiane per evitare il contagio, così l’8 marzo il Consiglio dei Ministri vara il primo decreto legge che detta un giro di vite al paese. Il giorno seguente le misure sono estese all’intero territorio nazionale. In particolare il decreto attuativo determina una zona rossa, ovvero una specifica area geografica da cui è vietato uscire ed entrare. La zona geografica in questione è il Nord Italia, il cuore pulsante dell’industria italiana, da molti definita la locomotiva d’Italia. Per i meno attenti questa sembra essere la strada più sensata da percorrere, ma fin da subito si è compreso che le misure avrebbero creato delle conseguenze soprattutto in termini economici. (Il PIL di Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto, sommati arrivano al 40% dell’intero PIL italiano). La situazione italiana, già in tempi pre covid non è delle più rosee. Il paese fa fatica a decollare, e le misure del reddito di cittadinanza e quota cento, non sembrano sortire gli effetti sperati. Ma l’Italia non è sola ad affrontare l’emergenza sanitaria. In poco tempo le autorità di Francia, Germania, Spagna e il resto d’Europa si trovano costrette a mettere in lockdown i rispettivi concittadini. Tutti dovranno fare i conti con le conseguenze che la chiusura comporta. In breve tempo i paesi dell’Europa del Sud chiedono aiuto all’Ue. La richiesta parte da una ripartizione del debito pubblico, esacerbato dal covid, con l’emissione di Eurobond. Una proposta che i paesi del Nord, cosidetti frugali, Germania, Olanda, Danimarca e Austria non prendono in considerazione. Il ministro delle finanze olandese, Wopke Hoekstra, in prima linea. Non passa giorno che qualche accademico, esponente politico o governativo non proponga gli Eurobond. L’idea è quella di consentire agli stati europei di reperire capitali per sostenere maggiori spese. La strada non è facilmente percorribile, poiché le condizioni per attuare tale misura includono difficoltà dal punto di vista politico. L’emissione di titoli di debito sul mercato concerne delle garanzie, rappresentate dalla capacità di convincere eventuali acquirenti che quel capitale è sostenibile e gli interessi vengano ripagati. Le garanzie dei titoli di debito sono definite dal patrimonio pubblico e dalla capacità dello stato di generare flussi di denaro. Questo potrebbe accadere solo se fosse l’Ue a dettare e stabilire direttamente alcune imposte senza che i singoli stati possano interferire. Il modo più semplice sarebbe quello di creare un bilancio europeo, nel quale verrebbero specificate le voci di entrata e di uscita e poi avvallate dai parlamenti nazionali. Ecco il problema politico: la cessione della sovranità, in un periodo storico in cui l’euroscetticismo dilaga, è una via difficilmente percorribile. 27 paesi uniti da una moneta ma privi di un’unione fiscale. Il virus non pare cessare la sua corsa, anzi i contagi aumentano di giorno in giorno e il nostro paese in poche settimane raggiunge il triste primato di più alto numero di morti nel pianeta. Se la via degli Eurobond suscita perplessità sia sul fronte finanziario che su quello politico, un’altra discussione a livello europeo consiste nel far emettere titoli obbligazionari europei da una istituzione comune come il Meccanismo Europeo di Stabilità. Si creano due fronti: favorevoli e contrari. Chi è favorevole propone un MES senza “condizionalità”, ma anche questa sembra una via difficilmente percorribile. Dopo le diverse proposte circolate, si è raggiunto un compromesso sull’asse Parigi-Berlino. Difatti la proposta più concreta per emettere quantità consistenti di debito comune europeo. Il tentativo maggiormente significativo per affrontare la crisi in maniera coesa e unitaria. Lunedì 18 maggio, Angela Merkel e Emmanuel Macron, nel corso di una video conferenza, hanno annunciato un piano per creare un fondo europeo da 500 miliardi di euro e aiutare i paesi a uscire dalla crisi economica causata dalla pandemia Covid-19. Merkel e Macron spiegano che il fondo sarà finanziato con un debito comunitario emesso dall’Unione europea così che il denaro possa essere raccolto con un tasso di interesse molto basso, quasi negativo. La notizia è stata accolta con entusiasmo dall’opinione pubblica anche se non mancano le polemiche: molti definiscono la misura insufficiente, considerato che negli Stati Uniti, un’economia paragonabile a quella dell’Unione europea, gli aiuti economici si quantificano in migliaia di miliardi. Ad ogni modo chi si aspetta liquidità immediata è fuori strada. La questione è delicata, e anche in questo caso il focus si posiziona sul concetto di sovranità: la linea franco-tedesca si predispone per l’80% su un fondo perduto. Questo significa che quel denaro potrà essere speso dai paesi membri, solamente sottostando a determinate regole e controlli da parte dell’Ue. Il recovery fund di Berlino e Parigi è basato “sul chiaro impegno degli Stati membri a seguire politiche economiche solide e un programma di riforme ambiziose”. Il denaro potrà essere speso, ma sotto la vigilanza di Bruxelles. Il primo punto del recovery fund prevede che i 500 miliardi di euro saranno raccolti dall’Ue sui mercati, la quale poi li investirà nei paesi bisognosi secondo un programma economico e industriale. I governi nazionali avranno il compito di indicare dove investire il denaro, ma non avranno la gestione del fondo. "Quella che stiamo attraversando è la crisi peggiore a cui l'Ue sia stata esposta nella sua storia", ha detto Angela Merkel. Pertanto la proposta europea di un recovery fund da 500 miliardi è volta "a far sì che l'Europa esca rafforzata, unita e solidale da questa crisi". "I 500 miliardi di euro sono lì per rispondere alla crisi sanitaria ed economica e andranno a settori non solo tecnologici. È una forte risposta economica che aiuterà a combattere la disoccupazione nelle regioni più vulnerabili", ha dichiarato il presidente francese, Emmanuel Macron. E qui arriviamo al secondo punto del recovery fund: il recupero della «sovranità sanitaria», intesa come lo sviluppo dell’industria Ue nel settore medicale e di un vaccino europeo, oltre a una task force comunitaria. Il terzo è la transizione ecologica continuando sul terreno del green new deal, mentre il quarto punto prevede una riforma delle leggi sulla concorrenza europee. Sulla base di un’Europa più forte e unita, Ursula von der Layen accoglie la linea franco-tedesca: "Accolgo con favore la proposta costruttiva fatta da Francia e Germania. Riconosce la portata e le dimensioni della sfida economica che l'Europa deve affrontare e giustamente pone l'accento sulla necessità di lavorare su una soluzione con il bilancio europeo al centro”. L’asse Berlino-Parigi pare abbia spianato la strada: la Commissione europea stila un piano addirittura superiore, ben 750 miliardi di euro: 500 a fondo perduto e 250 miliardi in prestito. Il fondo viene ripartito tra i Paesi membri che stanno affrontando la crisi economico sanitaria. All’Italia andranno 81,8 miliardi di aiuti e 90,9 come prestiti per un totale di 172,7. I fondi che Bruxelles raccoglierà sui mercati e metterà a disposizione degli stati membri per fronteggiare la crisi economica legata al coronavirus "dovranno essere rimborsati attraverso i futuri bilanci dell'Ue, non prima del 2028 e non dopo il 2058". Non sarà semplice trovare approvazione alle linee proposte da Francia e Germania. Gli oppositori rimangono Austria, Svezia, e Paesi Bassi con la Danimarca che qualche giorno fa ha appoggiato il recovery fund. Molti si aspettavano un effetto helicopter money, questo siamo certi non averrà, piuttosto la domanda da porsi è se il nostro paese è pronto a cogliere finalmente la sfida delle riforme dell’Ue, fare i compiti a casa e crescere all’interno di una comunità europea. Bibliografia
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A cura di Federica Racioppi Le Lianghui sono le cosiddette “due sessioni” parallele della Cina, ovvero i due più grandi ed importanti incontri politici che si tengono in Cina ogni anno: la Conferenza politica consultiva del popolo cinese (CPPCC) e l’ Assemblea nazionale del popolo (NPC). Solitamente si tengono a marzo, durano circa due settimane e seguono un rituale prestabilito che prevede l’approvazione delle proposte già discusse nei mesi precedenti dal Partito comunista cinese. La Conferenza politica consultiva del popolo cinese è l’organizzazione incaricata di rappresentare i vari partiti politici della Repubblica Popolare sotto la direzione del Partito Comunista Cinese (Pcc), è composta da circa 2100 delegati: i membri degli 8 partiti democratici cinesi, delle minoranze etniche e di associazioni di categoria, i rappresentanti di Hong Kong, Macao e Taiwan e dei professionisti che si sono contraddistinti per particolari qualità. I membri della CPPCC discutono le bozze delle proposte che passeranno al vaglio del governo e consigliano le misure da adottare per perseguire al meglio gli obiettivi del Paese. L’Assemblea nazionale del popolo cinese, invece, è costituita da 2.957 deputati eletti a suffragio indiretto e rappresenta la più alta istituzione statale della RPC. La NPC è l’unico organo dotato di potere legislativo, può eleggere e rimuovere i principali dirigenti dello stato, approvare le leggi e i piani di sviluppo economico già decisi dalla leadership, decidere l’andamento delle relazioni con gli altri Stati e controllare che la Costituzione venga rispettata ed applicata. Durante la NPC, inoltre, vengono analizzati i risultati ottenuti dal governo durante l’anno precedente e si stabiliscono gli obiettivi da perseguire seguendo sempre le direttive dettate dal Partito comunista cinese. A causa delle restrizioni dovute alla pandemia COVID-19, le “due sessioni” sono iniziate il 22 maggio con circa due mesi di ritardo e sono durate una settimana anziché due. L’incontro è stato presieduto da Li Zhanshu, il Presidente del Comitato permanente del Congresso nazionale del popolo ed ha visto la partecipazione di un numero molto esiguo di giornalisti. L’avvio dei lavori politici è stato un chiaro messaggio per il mondo: la Cina non si è fermata e, nonostante la grave crisi scaturita dal Coronavirus, il governo è stato in grado di adottare repentinamente delle misure restrittive in grado di minimizzare l’impatto del virus. Sebbene il Presidente Xi Jinping prosegua con determinazione il cammino verso il raggiungimento del Zhongguo meng (il “sogno cinese”) e dei due obiettivi centenari, gli effetti del COVID-19 però sono lapalissiani. I temi sui quali il governo si è concentrato maggiormente sono stati tre: economia, politica estera e welfare. Per quanto concerne l’economia del Paese, questo anno, per la prima volta dopo i fatti di Tiananmen del 1989, Pechino non ha fissato un target di crescita annuale. La causa principale è da ricollegare all’impatto che il COVID-19 ha avuto sia sull’economia cinese durante il primo trimestre dell’anno sia sull’economia globale in questo momento. Il Premier Li ha giustificato questa scelta affermando che quest’anno è necessario dare priorità alla stabilizzazione dell’impiego e alla tutela degli standard di vita, alla vittoria della battaglia contro la povertà e al conseguimento dell’obiettivo di edificare una società moderatamente prospera in tutti i suoi aspetti entro il 2021. Come dichiarato dal National Bureau of Statistics cinese, il Paese sta subendo oggi la prima flessione economica dalla fine della rivoluzione culturale avvenuta negli anni ’70 e questa non le permetterà di raggiungere, così come era previsto, il raddoppio del PIL del 2010. Inoltre, il tasso di disoccupazione sempre più alto e gli sgomberi di milioni di mingong (i lavoratori migranti) stanno mettendo a dura prova la stabilità del Paese e la legittimità del PCC che si ritrovava a fronteggiare sfide importanti già prima della pandemia a causa dell’accumulazione del debito e della guerra commerciale e tecnologica con gli USA. Un altro fondamentale aspetto dell’appuntamento delle due sessioni del 2020 è stato il disegno di legge sulla sicurezza nazionale di Hong Kong che il governo cinese ha presentato durante l’Assemblea in seguito ad un anno turbolento che ha visto scendere oltre un milione di persone tra le strade dell’ ex colonia britannica per protestare a favore della democrazia e di maggiore autonomia. Con 2878 voti favorevoli, 6 astenuti e 1 contrario, lo scorso 28 maggio l’ Assemblea Nazionale del Popolo ha approvato la risoluzione che autorizza il comitato permanente del NPC a lavorare sulla legge, minando il principio "un paese, due sistemi" che dovrebbe restare in vigore fino al 2047, anno in cui è previsto la riunificazione della Cina e il controllo totale di Pechino sulla provincia autonoma . In virtù di quanto definito dalla risoluzione, saranno “impediti, fermati e puniti tutti gli atti che mettono in pericolo la sicurezza internazionale , quali il separatismo, la sovvenzione del potere dello Stato, il terrorismo (…) o attività di forze straniere che interferiscono negli affari di HK”. In questo contesto si è inserita anche l’approvazione del primo Codice civile cinese che comprende 1.260 articoli e che entrerà ufficialmente in vigore il 1° gennaio 2021. Il nuovo Codice civile, oltre alle disposizioni generali, si compone di sei libri relativi ai diritti reali, i contratti, i diritti della personalità, il matrimonio e la famiglia, le successioni e la responsabilità civile. Sebbene sia semplicemente il risultato di un mix sistematizzato di norme già in vigore e nuove, l’adozione del Codice Civile e di un embrionale “codice per la privacy” del popolo cinese rappresenta una importante novità all’interno della Repubblica Popolare Cinese e un grande successo politico per la leadership del Presidente Xi. Le Lianghui 2020 si sono concluse con il discorso del Premier Li Keqiang che esorta gli USA a cooperare e a concentrare i propri sforzi sull’espansione degli interessi comuni e sulla gestione delle diversità : “Se la Cina e gli USA restano contrapposti verranno danneggiati entrambe le parti, noi abbiamo sempre respinto la mentalità della Guerra Fredda”. Le sue parole hanno un peso importante sia nei confronti della comunità internazionale che all’interno del PCC. Inoltre, il Governo ha immesso dei “pacchetti di stimoli interni” per piccole e medie imprese e ha investito più di 110 miliardi in trasporti e infrastrutture, ha diminuito la percentuale di crescita delle spese militari, ha stanziato oltre 20 miliardi di dollari per elevare il tenore di vita dei cittadini cinesi e ha allentato le regole dell’ hukou. Bibliografia
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